«In ricordo di don Cesare - 1996 n.2»

"In ricordo di don Cesare"
di Francesco Fontana

Mons. Cesare Curioni, da venti anni Ispettore nazionale dei Cappellani delle carceri italiane, se ne è andato serenamente venerdì 12 gennaio, nella sua casa di Asso (CO), forse un po’ in fretta per tutti noi, troppo presto, ma con estrema discrezione.
Figura profetica per molteplici versi nel panorama degli istituti di pena italiani. I detenuti del carcere di San Vittore, dove nel 1946, a 23 anni, aveva iniziato la sua missione, lo avevano ribattezzato “il pista”, perché andava sempre di corsa.
C’era anche qualcuno di loro al funerale, qualcuno che lo aveva conosciuto, e lo ricordava disponibile sempre con tutti. Lascia un vuoto non colmabile anche nel cuore dei volontari che per suo stimolo si erano costituiti nel SEAC (Coordinamento enti ed associazioni di volontariato penitenziario), di cui sino all’ultimo è rimasto il consulente ecclesiastico.
Ma perche profeta? Perché non ha mai smesso di considerare la sua missione come legata non solo a garantire il culto dentro le carceri italiane in attuazione del diritto all’assistenza religiosa sancito dall’ONU e che lo Stato doveva pur garantire, ma “perché vedeva in ciascun detenuto, in genere considerato come una candela ormai spenta, un lucignolo di umanità e di fede a cui sarebbe bastato un piccolo soffio per riaccendersi”.
Così lo ricorda Mons. Fabio Fabbri, suo segretario e stretto collaboratore sin dagli inizi. “Sempre attenti anche a risvegliare la fede che forse proprio la condizione di detenuto può favorire: è questo il compito che tutti i cappellani hanno imparato da Mons. Curioni, consapevoli allo stesso tempo dell’insufficienza delle norme statali e del fatto che, se errore c’è stato, la colpa giuridica non collima con la colpa morale”.
I cappellani delle carceri si trovano per molti versi così all’avanguardia nella concezione del senso dello Stato; dalla constatazione del carcere come fonte criminogena e quindi del suo totale fallimento, da questo loro punto d’osservazione privilegiato, lì dove giace un’umanità dolente che è il riflesso della nostra società, unanimi nel promuovere innanzi tutto il bene dell’uomo ristretto, del “povero”.
Mons. Curioni ha testimoniato durante tutta sua vita questa attenzione preferenziale per i “poveri” detenuti: “Matteo 25 - aveva ribadito appena nel settembre scorso al convegno nazionale del Seac - questo è il punto nodale, elenca tutte le povertà, e quindi se uno è in carcere è come il povero di questo brano evangelico che ha diritto ad essere “visitato”, seguito, aiutato e compreso.
E’ la pastorale degli “ultimi” che, sulle orme di Mons. Curioni, spinge i cappellani a questo ministero.
“Il pista” aveva ben chiaro chi sono gli ultimi, sono quelli che non hanno conosciuto Gesù attraverso la nostra presenza. Possiamo chiamarli anche “poveri”, ma il fatto è che hanno bisogno di vedere Cristo nei loro fratelli: “Cristo compagno, soprattutto il Cristo che perdona”.
Questa disarmante verità e la necessità del suo annuncio è l’insegnamento di Mons. Curioni, don Cesare per tutti i suoi numerosi amici, senza esimersi tuttavia da un critico giudizio sulla inutilità delle carceri e, nonostante ciò, sulla indispensabilità della loro presenza perché lì c’è comunque un uomo privato della sua liberta che definisce proprio la sua povertà.
“Il carcere è fallito - ed è questo il nodo principale - in questi 300 anni non ha dimostrato di saper recuperare’’ diceva Mons. Curioni; “il carcere è una struttura essenzialmente cattiva, dall’interno, occorre una modifica sostanziale a partire dalla guardia che è il primo educatore. Il cappellano entra in tutto questo mondo a portare la scintilla della Grazia, a ritessere il tessuto umano che si è lacerato nella famiglia sociale che è lo Stato”. Il solco è tracciato, la direzione l’ha indicata Mons. Curioni, “non si può più tornare indietro senza rinnegare i momenti di civiltà che sono stati costruiti coinvolgendo tutti, i cappellani, i volontari, gli agenti”.
“Se il detenuto è fratello, anche il direttore è fratello, anche gli agenti” concludeva Mons. Curioni, e questa grande apertura di cuore profetica la si è vista anche nella tenacia con cui non ha mai voluto un inquadramento militare per i cappellani ed ha sostenuto la smilitarizzazione degli agenti, consapevole che la professionalità dovesse passare non dai gradi ma come crescita della mentalità da carceriere e da giudice, a fratello, educatore, amico.
In sintesi possiamo estrapolare il messaggio chiaro e forte che don Cesare ci ha lasciato quale eredità e prospettiva: “non pene alternative ma alternative alla pena”.
I cappellani d’Italia sono già in questa ottica e stanno lavorando per superare il carcere: la Chiesa, nelle sue punte più vive e lì dove ècompagna dell’uomo che soffre, sopperisce a quella mancanza di perdono, di possibilità reali di cambiamento che la società censura, offrendo solo la condanna e la privazione della libertà dell’individuo che ha commesso un reato, preoccupandosi soprattutto di costruire nuove strutture, ponendosi sempre come giudice e non come compagna della povertà, di questa povertà che Mons. Curioni ha servito con tutta la sua vita, senza fermarsi mai, correndo.
I suoi ragazzi, così affettuosamente definiva gli agenti di polizia penitenziaria, hanno voluto nell’estremo saluto, poterlo ricordare con accanto la sua inseparabile pipa.