«Prospettiva Esse – 2011 n. 1/2»

Indice

  1. Prospettive di speranza (B. De Sero)
  2. Da latitante a magazziniere (D. Panin)
  3. Convivenza e aggressività (G. Casartelli)
  4. Il lavoro, questa chimera (G. Tertea)
  5. Guerra, sangue e vergogna (A. A. Karim)
  6. Uno tra tanti
  7. La domanda dell'asino (G. Melato)
  8. Un Paese da ritrovare (A. A. Karim)
  9. In carcere, solo e debole (M. Rouadi)
  10. Le mie riflessioni in carcere (V. Lazzarini)
  11. La mia Bibbia (G. Tertea)
  12. Tu sei la luce della mia vita (A. A. Karim)
  13. Questione di fortuna? (M. Rouadi)
  14. Rumeni, un popolo in cammino (L. Gheorghisor)
  15. L'acqua di Pilato (G. Melato)
  16. Carcere e ricordi (L. Bruna)
  17. Il carcere e la musica (M. Rouadi)
  18. Un sasso nello stagno (G. Melato)
  19. Riflessioni di Pasqua
  20. La convivenza in carcere e l'aggressività (V. Lazzarini)
  21. Cancellino (G. Casartelli)
  22. A che cosa serve il carcere? (M. Rouadi)
  23. I detenuti in sciopero della fame (lettera inviata ai giornali)
  24. Voli di dentro (poesie e quant'altro)

 

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Prospettive di speranza

di Bruno De Sero


Per contribuire a tenere aperta una “prospettiva di speranza”, con la consapevolezza dei limiti soggettivi ed oggettivi, ho accettato di coordinare un gruppo di redazione del periodico della Casa Circondariale di Rovigo, ritornando in questo luogo ove avevo svolto l’attività di insegnante di lingua italiana per detenuti stranieri del Centro Territoriale Permanente.

Ho ritrovato, dopo sette anni, da parte del complesso degli operatori del carcere, un atteggiamento di migliore e più fiduciosa accoglienza verso le persone “esterne”, ma anche una realtà delle persone detenute per nulla migliorata, resa anzi più difficile dalla carenza di organico del personale di vigilanza, sempre più costretti a turni pesanti.

Alla storica carenza di mezzi e spazi strutturali, oltre che di risorse, si aggiungono esigenze di vigilanza che riducono ulteriormente i tempi di svolgimento delle attività a favore delle persone ristrette, costrette in celle anguste e sovraffollate, in una promiscuità difficile da vivere e difficile da governare.

Con una popolazione carceraria sempre più costituita da extracomunitari, con gli italiani presenti appartenenti ad una fascia sociale economicamente e culturalmente bassa, la presenza degli operatori volontari vuole essere la testimonianza di un rispetto che resiste alla colpa, di una solidarietà che non assolve né punisce ma sostiene, di una speranza che da senso al di là delle cento ragioni di sfiducia, al di là della rabbia che riempie l’animo, recuperando la forza di essere uomini con il “prossimo” della cella e con gli “altri” del carcere.

 

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Da latitante a magazziniere

di Daniele Panin


Sono stato latitante, in quanto evaso dagli arresti domiciliari dove scontavo una pena di due anni per incendio doloso a causa di una lite. Dopo un anno di vita da fuggiasco sono stato catturato durante un controllo arrivato grazie a una spiata. Pensando col senno di poi, ho capito che, oltre ad aver vissuto male, senza famiglia e senza alcun affetto, è stata una avventura inutile – la latitanza – in quanto ho solo prolungato il mio debito con la giustizia.

Adesso vivo la dimensione di una nuova carcerazione e, nonostante sia in un piccolo carcere discusso per l’assenza di qualsiasi attività rieducativa, o quasi, personalmente lo preferisco ad altri più grandi e con maggiori opportunità perché l’ambiente carcerario di qui è tranquillo. Il rapporto con gli altri detenuti è buono e la Direzione mi ha dato il lavoro di magazziniere. Mi occupo della fornitura delle prime necessità dei nuovi entrati, della distribuzione delle lenzuola, sapone e quant’altro deve essere fornito a tutti i detenuti.

Questa occupazione mi rende meno pesante il passare del tempo in quanto ho meno occasioni di pensare al passato.

Da questo ho capito che se un uomo è impegnato in cose positive, trova nuovi stimoli a fare una vita normale e così ho cominciato anche ad imparare a leggere e scrivere, perché ritengo sia importante per un uomo e per il suo futuro essere indipendente e poter capire l’importanza e il giusto valore delle cose semplici e comuni, di una vita normale fatta di lavoro, senza doversi sempre guardare attorno.

 

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Convivenza e aggressività

di Giovanni Casartelli


Parlare di convivenza, di vivere insieme tra persone di diverso carattere, cultura, religione, colore è difficile ma non impossibile. Se ci si pensa bene tali difficoltà sono vive in ogni ambiente, anche fuori dal carcere. Chi è tollerante fuori e non ha pregiudizi non ha difficoltà, ma una cosa è certa: bisogna avere tanto amore nel proprio cuore. Infatti ci sono degli spigoli invisibili, i più dolorosi, che ci creano problemi: diffidenza, reticenza, incomprensioni, invidie, menti sature di carcere che vivono di aggressività fuori e dentro, e non usano il verbo, ma calci e pugni. Parlo di spigoli, perché qui è tutto uno spigolo; l’unico modo per vivere con tutti gli spigoli è muoversi oculatamente, tipo dentro un percorso di guerra, come quando ero un militare impegnato nelle esercitazioni.

Cerco di far capire la vera e nuda realtà del carcere e lo dico a causa di uno spigolo che non potrò mai dimenticare.

Tante persone nella vita libera sono abituate e convinte che i loro comportamenti aggressivi siano giusti perché vivono con persone che gli vogliono bene, e han bisogno di loro e non gli fanno capire i difetti, un po’ per paura. Ma in carcere le persone aggressive, sono costrette a vivere su spazi ridotti e la loro cattiveria si fa più forte. Però con il tempo magari riescono a vedere i propri difetti vedendo persone come loro, comportarsi con loro allo stesso modo.

Quindi qui inizia la convivenza con l’aggressività. Per l’80% dei casi in carcere l’aggressività si abbassa perché quando si vedono i difetti propri e di altri inizia la vera convivenza e si inizia a vivere, senza paura di essere. Alla fine quello che serve veramente sono comprensione, dialogo, un sorriso con la speranza di trovare degli occhi sereni, anche se siamo in eterna bufera di sballottamenti fisici e mentali.

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Il lavoro, questa chimera

di Gabriel Tertea


Sono in carcere da due anni, ho lavorato solo un mese come porta-vitto e nella medesima situazione sono la maggior parte dei detenuti che si trovano in questo istituto. Nella mia vita ho sempre avuto il desiderio di lavorare, ma le risposte da parte delle persone che sono in grado di decidere sono state sempre negative. Posso affermare di più, raramente ho potuto dialogare, perché nessuno ti vuole ascoltare e allora ho deciso di fare lo sciopero della fame per attirare un po’ l’attenzione. Nel momento in cui sono andato dal medico, mi ha consigliato di non farlo perché non avrebbe cambiato niente, anzi sarebbe peggiorata la mia situazione. Nel mese di marzo, dopo tante richieste, finalmente mi hanno fatto lavorare come “porta-vitto” per un mese, credendo di poter continuare anche per il secondo come “jolly”, ma così non è stato a causa di un rapporto disciplinare.

E’ una cosa incredibile! Mi chiedo come può migliorare una persona che non ha nessuna possibilità di lavorare, di potersi sentire utile. Un anno e mezzo fa mi ero offerto per fare le pulizie in chiesa, ma senza alcun effetto, non ho avuto nessuna risposta. Allora mi chiedo come si può migliorare l’individuo per il suo reinserimento in società se non ci sono percorsi di rieducazione quale il lavoro? Una carcerazione fatta solo nelle giornata vissute in cella non può dare alla società un individuo migliorato, anzi si rischia sia peggio di quando è entrato in carcere. Purtroppo così si vive nella maggior parte delle carceri italiane e questo perché da parte della società civile, a parte il volontariato, c’è poco interesse per il carcere in generale e per tutto quello che implica questo sistema penitenziario.

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Guerra, sangue e vergogna

di Abrahim Adam Karim


Sia pace a te vita

Sia pace a te rivoluzione

Sia pace a te attenzione

Sia pace a te cuore perché ti muovi ad acclamare la pace pur se sei umido di lacrime

Sia pace a voi labbra, perché esprimete pace pur mentre gustate il pane dell’amarezza.

 

La guerra in Libia è una faccenda un po’ strana e per quanto riguarda l’uso della potenza da parte dei francesi e degli inglesi o dagli americani ancora più strana. Forse perché vogliono dimostrare la loro forza al mondo, questo lo dico perché c’è più di un Paese che ha avuto lo stesso problema della Libia, cioè rivoluzione e popolo contro il regime.

Quello che io chiedo, perché invece di usare le armi e uccidere la gente non usano la diplomazia, e risolvono il problema senza spargere sangue? Uno: perché la Libia è un paese che produce petrolio ma né la Francia né l’Inghilterra, né l’America comprano petrolio dalla Libia perché Gheddafi a loro non lo vende. Adesso però hanno trovato l’occasione giusta per bombardare il paese e distruggerlo, come hanno fatto in Somalia e in Irak. Maledetto petrolio, maledetto denaro, maledetto interesse economico che fa dell’uomo un mostro, invece che un uomo di pace.

Io come uomo che appartiene a questa terra, sono uno che ama la pace e la non violenza. Grido a voce alta e chiedo ai signori della guerra di fermarsi, di cercare di usare la diplomazia perché ci sono delle persone innocenti: donne e bambini, vittime di questa guerra. Spero tanto che l’Italia esca da questa sporca guerra e che ragioni come ha fatto la Germania o altri paesi.

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Uno tra tanti


“Anche questa volta non ce l’ho fatta” così parlava un ragazzo che venne arrestato per minacce a dei vicini di casa. Lui ci ha raccontato che i suoi vicini gli avevano rotto i vetri di casa e così è uscito armato di forbici. E’ un ragazzo con problemi psichici causati, secondo il mio punto di vista, dalla perdita della fidanzata che si è suicidata. In quell’unico giorno che rimase con noi ci raccontò delle sue vicende, ci disse che una sera aveva pensato di suicidarsi, per questo si era recato sulle rive del fiume Adige e con una serie di pietre legate a mo’ di cintura si gettò in acqua, ma la corrente era talmente forte che lo trasportò su di una spiaggetta, poi gli venne freddo, dentro soprattutto, lasciò perdere l’insano proposito e se ne andò a casa. Un altro giorno ritentò un progetto di suicidio vicino alla stazione dei treni, si mise accucciato in mezzo ai binari pensando “adesso passa la freccia rossa ed è tutto finito”. Secondo lui il caso fu che il treno passò sull’altro binario, a quel punto desistette e decise di andare a casa perché la freccia rossa ormai era passata. Un altro episodio che ci raccontò, in quelle poche ore che rimase con noi, è stato di aver ingoiato oltre 400 pasticche, senza precisare di che tipo, e in questo caso fu salvato da una lavanda gastrica eseguita all’ospedale di Rovigo.

Ecco chi sono spesso i nostri compagni di cella, e ritengo di poter affermare che sono persone che le storie che si creano sono dovute alla solitudine, infatti avrebbero solo bisogno di amici e di essere inseriti in attività che gli diano uno scopo di vita per ritrovare serenità e dirittura di vita.

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La domanda dell'asino

di Giovanni Melato


Come dire ciò che non si può dire? C’è stato un tempo, neppure troppo lontano, in cui – con scansione metrica – qualcuno d’alto lignaggio – sia esso Giudice di Sorveglianza, Sindaco, Vescovo o Presidente di provincia, voleva toccare con mano l’infelice o ignobile stato ove è relegato l’ultimo anello d’uomo sapiens meglio conosciuto come “il carcerato”, condividendo il nostro conciso messaggio natalizio, ci parlò di interessamento, attenzione e pur anco di solidarietà verso questo figlio di un dio minore divenuto appena qualche tempo dopo, immagine (eikon) di un dio invisibile. Si convenga, in tema di nebbie, come la visibilità divenga un imperativo categorico. Così che ciò che andrebbe sussurrato, noi, come molti, abbiamo la necessità di gridarlo. Con un urlo sommesso, quindi vi parliamo, oggi, di una attività virtuosa promossa dalla regione e svolta da un manipolo di detenuti, i quali sostenuti da validi insegnanti, si impegnano in un corso denominato “Progetto terra”. Di concerto siamo chiamati ad interessarci di encomiabili concetti ecologici, quali: energia eolica, impianti fotovoltaici, l’importanza delle api come sensori del territorio, di risparmio idrico, per confluire nel magma filosofico dell’ecologia, baluardo della generazione che verrà. Argomenti attualissimi che certamente proiettano fondate speranze verso un futuro luminoso di cui noi, tardi epigoni e reali interpreti di un eterno ieri, immersi in un cono d’ombra, riflettiamo: non certo sull’indubbia pregnanza della scienza, bensì: come i cittadini di Milocca (di pirandelliana memoria) mentre l’assemblea si scioglie e i lumi si spengono, se una scintilla di pragmatismo entrerà mai in questo circuito virtuoso. E se, per far luce, sin d’ora, dobbiamo tirar fuori dalla tasca l’indispensabile scatola di fiammiferi. Infatti qui, con in mano il classico cero acceso, chiedo e chiediamo: “Come si è concluso il salmo dell’analogo corso svolto l’anno precedente?” e la fruizione o uso dei preziosi calendari ecologici prodotti? E quelli di domani? Beh si sa, del doman non v’è certezza. Perciò noi figli di un dio minore vorremmo uscire dall’handicap del silenzio e ... delle parole, pensieri ed opere fine a sé stesse per giungere, con spirito ecologico, a piantare un albero per coglierne finalmente un frutto. Si traduca quindi, il metaforico frutto, in quell’attenzione fattiva per l’arcipelago gulag ed in questo spazio si configuri la possibilità di lavoro, di affrancamento sociale, proposta innovativa ed infine, effervescenza di idee mutuate dal fare. E’ chiedere troppo? E’ essere troppo arditi ritenere che tramite l’impegno, il sacrificio, la volontà si possa infrangere, almeno per un istante, le mura dell’isolamento sociale? Poiché se pur consideriamo che il chiavistello (dietro il quale fisicamente ci troviamo) non racchiude, nella sua onesta violenza, l’intelletto. O almeno, non dovrebbe, ma non è eticamente giusto, né logico, legare l’asino alla ruota della macina, poiché, se pur la sua funzione è meritoriamente ecologica, alle soglie del terzo millennio pure l’asino si chiede: ”cui prodest?”. Quindi passo a voi il cerino acceso, nella speranza che la luce sia sufficiente.

 

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Un Paese da ritrovare

di Abrahim Adam Karim


Quando sono venuto qua in Italia, nel 1979, mi sono ritrovato in un paese magnifico e bello, e mi ricordo che aveva un presidente, l’onorevole Pertini, che quando parlava dell’Italia si illuminava. Diceva, per esempio: l’Italia è il Paese dell’amore, è il Paese del fiore; quindi basta un bicchiere di vino, un panino, e tutti cantano una bella canzono d’amore e si divertono. Era il più bel Paese, ma dentro di me dicevo: no presidente, questo non è solo il Paese dell’amore e del fiore, è anche il Paese dell’arte e della bellezza, dove con pochi soldi si riesce a vivere. Puoi trovare una casa nel centro di Milano con sole 150.000 lire, e poi lavorare, guadagnare, mangiare bene e risparmiare, senza obbligare i tuoi figli o tua moglie a lavorare. Si poteva vivere benissimo con un solo stipendio. Ma ora vorrei purtroppo cambiare il nome del Paese, e posso sostenere che l’Italia è rimasto ancora il Paese dell’arte e della bellezza, ma vorrei aggiungere: l’Italia è anche il Paese della corruzione e della riciclaggio del denaro sporco. Si è trasformato da un Paese dove dominava l’amore e il fiore in un paese del razzismo e della gente che misura la propria ricchezza con il metro. Questo metro per un uomo povero, non ha la stessa lunghezza, e di conseguenza è meglio che l’uomo con meno ricchezze stia alla larga da questi uomini che misurano con questo tipo di metro. Perché in verità queste persone che fanno tanto male al Paese ora si sono spostate anche in Parlamento, tutti contro tutti. Anche il governo fa di tutto per i propri interessi e non per gli interessi della comunità, rendendo inutile i tantissime sforzi e sacrifici, permettendosi addirittura di farsi dei “regali” di miliardi. Per loro è solo una cosa semplice, in quanto questi soldi sono soldi dei cittadini, “poveri cittadini”, quando vi svegliate?, quando riuscirete a dire “no”! Spero tanto che il Paese ritorni come prima. Lo spirito dell’Occidente sarà nostro alleato se lo accettiamo, ma diventerà nostro nemico se diventeremo sua proprietà. Ci sarà amico se gli apriamo il cuore, ma sarà nostro nemico se abbandoneremo il suo cuore nell’agonia; ci sarà amico se ne tratterremo ciò che si adatta a noi, ma sarà nemico se ci lasciamo piegare da lui.


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In carcere, solo e debole

di Mohamed Rouadi


Una persona debole al giorno d’oggi si sente isolata dalla società perché viviamo in un meccanismo fatto di interessi e quando sei debole sei tu che hai bisogno di aiuto dagli altri, quindi ti trovi da solo. Quando una persona in carcere è debole perché si sente da sola? La debolezza qua non vuol dire mancanza di poteri o di soldi o di conoscenze. Ma qua siamo delusi perché ci si sente isolati dalla società. Le persone che magari aiutavi una volta adesso sei tu che hai bisogno di loro e quando non ti accettano più o non ti vogliono più ti senti debole. Quindi è vero che questa società è fatta male perché fatta solo di interesse.

 

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Le mie riflessioni in carcere

di Vittorio Lazzarini


Sto cercando,visto che il tempo non mi manca, di mettere un po’ di ordine nei miei pensieri. E per prima cosa mi viene di cercare una via per sopravvivere al meglio in questa situazione. Ho capito che è importante, per la mia salute psicofisica, restare attivo, ed è essenziale creare o partecipare ad attività costruttive per non ammuffire tra le solite chiacchiere di cortile. Vedo che il carcere senza stimoli sani e costruttivi non rieduca certo nessuno ma ti porta ad imparare quello che non sai già, completando il proprio repertorio malavitoso o di mal vivere che dir si voglia.

Questo ti porta a confrontarti sempre di più solo con te stesso, perdendo la fiducia negli altri e non dando spunti a nessuno di capire o avvicinarsi a te e così c’è l’auto esclusione.

Sento che dentro di me stanno cambiando molte cose, non so come sarà in futuro, per il momento cerco di capire come sono adesso. A volte mi sento pieno di rabbia, a volte rassegnato ed apatico, in altri momenti invece vorrei cambiare tutto subito.

Questa altalena di sentimenti contrastanti mi trascina giorno dopo giorno in un vortice che sento poco positivo per me.

 

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La mia Bibbia

di Gabriel Tertea


Un giorno un ragazzo passava davanti alla mia cella distribuendo il pasto per tutti noi e ha visto sul tavolo una Bibbia, era la mia. Spinto dalla curiosità avevo cominciato a leggerla ogni giorno, questa era la seconda volta. La prima volta era stata tanti anni fa, quando ero libero a casa, ma a quell’epoca trovandola come un peso. Anche questa volta, la maggior parte del contenuto, pur facendo sforzi, non riesco a capirlo profondamente. Questo ragazzo che distribuisce il vitto studia con un rappresentante dei testimoni di Geova e mi ha detto che se volevo potevo studiare anch’io.

Due settimane dopo ho avuto la fortuna di incontrare un uomo meraviglioso che mostrò la pazienza e la voglia di aiutarmi a capire il grande significato della parola di Dio. Fino a quel momento, non avevo mai pensato a quanta serenità e pace interiore ti da lo studio della Bibbia. Non esagero con apprezzamenti ma forse in questo momento iniziare a studiare è stato un segno di Dio, un aiuto verso un uomo che ha tanti problemi, quasi insuperabili. Ricordo le paure che erano così forti nelle settimane successive al mio arresto e l’impatto per la prima volta con una vita nuova come il carcere mi portò ad avere spaventosi attacchi di panico, una paura vicino alla morte. Così ho vissuto per quasi un anno. Con tutte le terapie e le medicine, il mio stato di salute era lontano dalla normalità. Sicuramente lo studio della Bibbia è stato il vero rimedio e ringrazio ogni giorno di cuore il nostro Dio.

Adesso sono felice, forse sembra inverosimile ma questo è il mio stato d’animo e sarei più felice se potessi condividere con voi questa grande gioia, la vera conoscenza della parola di Dio. E’ una scoperta che annulla tutte le sofferenze e dona ad ognuno di noi il vero senso della vita. Grazie a questo studio ho scoperto cosa significa la pazienza, la convivenza pacifica, l’attenzione verso il prossimo, la generosità e poi quanto è grande l’amore di Dio verso di noi. Ecco perché bisogna studiare la Bibbia: vi si trovano i veri argomenti che possono cambiare una persona in un modo straordinario, ci sono tutte le risposte per superare ogni difficoltà. Pure in questo ambiente strano, freddo, indifferente e superficiale, verso il miglioramento dell’individuo, posso affermare con tutta certezza che non vedo e non ho trovato fino ad ora niente di paragonabile come lo studio della Bibbia.

 

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Tu sei la luce della mia vita

di Abrahim Adam Karim


I tuoi occhi mi hanno salutato dando addio ai giorni passati, mi hanno insegnato a pentirmi degli errori, a dare un nome alla sofferenza e al dolore, a dimenticare quello che ho visto prima di incontrarti per poter vedere i tuoi occhi, una vita dispersa che deve fare i conti con gli anni che ho perso. Tu sei la mia vita, con te ho iniziato a vedere la luce del mattino! Quanto tempo ho perso senza farti vedere il mio cuore e, in questo modo, assaggiato solo il gusto dell’amarezza. Ora ho iniziato ad aver paura del correre della vita. Ogni felicità che ho desiderato prima di vederti era un’immagine, ora l’ho trovata nella luce dei tuoi occhi, sei la vita del mio cuore, la più cara della mia vita, perché non ti ho conosciuto prima?

La bella notte e il desiderio, l’amore che da tanti anni il mio cuore aveva tenuto per te. L’affetto del mio cuore che ha aspettato tanto desidera il tuo affetto. Lascia che i tuoi occhi vengano nei miei e lascia le tue mani che si riposino nelle mie. Amore mio vieni qui e basta, abbiamo perso tanto tempo, amore del mio spirito. Tu sei la più cara dei miei giorni, sei la più cara dei miei pensieri. Via lontano da questo mondo, lontano solo io e te; all’amore si svegliano i nostri giorni, sul desiderio si addormentano le nostre notti. Ho fatto la pace con i miei giorni, ho perdonato il destino per te, ho dimenticato con te il dolore, ho dimenticato con te il pianto, i tuoi occhi mi hanno fatto ritornare i giorni che ho perso e mi hanno insegnato a pentirmi del passato. Ricordati di me.

Amore insieme per l’amore, ricordati di me con una canzone. Tante volte mi nascondo e tante volte ho paura per te, ho paura che mi dimentichi. Mi ha sconfitto la lontananza e la notte è sofferenza, però anche se la lontananza mi preoccupa non mi porta lontano da te, perché tu sei la mia vita.

 

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Questione di fortuna?

di Mohamed Rouadi


Vivo in Italia da tredici anni e ho lavorato come muratore con una impresa edile di Verona, e i colleghi erano tutti italiani che hanno l’età di mio padre. Forse è per questo che per gli anni in cui siamo stati gomito a gomito mi hanno trattato sempre come un figlio, insegnandomi il mestiere, e prodigandosi a darmi buoni consigli.

Quando questi signori sono andati in pensione, l’impresa ha messo al loro posto quattro muratori stranieri e mi sono trovato in mezzo ad altre nuove amicizie lavorative, con un rapporto rispettoso e bello, al punto che il rapporto è andato oltre il lavoro e mi sono trovato bene.

Anche qui in carcere ho tanti amici, di tutti i colori: africani, arabi, italiani, rumeni, albanesi e serbi e mi trovo bene perché abbiamo una amicizia senza interessi e conviviamo in maniera delicata nel senso che ci rispettiamo e ci accettiamo, anche se siamo cresciuti in maniera diversa, mentalmente e culturalmente e nell’educazione.

Alla fine, nella disgrazia, ritengo di essere stato sinora fortunato nei rapporti umani, nella mia vita quotidiana c’è sempre stato rispetto dell’altro e non ho mai trovato persone che portano odio verso lo straniero e verso le persone deboli.

Che sia solo una questione di fortuna?

 

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Rumeni, un popolo in cammino

di Luminita Gheorghisor


Della vecchia Dacia di 2000 anni fa e la trasformazione del nostro sangue di daci in sangue romano, sangue latino, nessuno si ricorda e nemmeno se ne parla più. L’importanza dell’impero romano nella vita dell’ex Dacia, attualmente Romania, è rimasta forte per duemila anni. Se all’epoca ci sono voluti 165 anni per imparare a parlare la lingua latina, oggi l’italiano si impara anche senza vivere in Italia, perché noi rumeni l’italiano lo abbiamo nel sangue. Volere o non volere questa è la storia e non si può cancellare.

Se lasciamo da parte la storia e passiamo alla politica, ogni paese negli ultimi 100 anni ha passato diverse e drastiche trasformazioni, molto di più dopo la sofferenza e l’orrore della guerra che ha subito tutta l’Europa e il mondo. I Paesi europei hanno preso strade diverse, però per disgrazia tante sono scivolate nel gran fiume rosso del comunismo, e per uscirne fuori hanno faticato moltissimo, con rivolte popolari, rivoluzioni, orrore, paure e perdite umane. Alla fine ci sono riusciti.

Chi non ha vissuto per 40-50 anni sotto tutela comunista, non può immaginare, anche se ne ha sentito parlare, cosa significa vivere in un paese comunista. Se l’impronta dell’impero romano sulla vecchia Dacia ci ha lasciato cose di gran valore, artistico, culturale, architettonico, cosa è rimasto del comunismo? Cosa significa essere il prodotto umano del comunismo?

Ogni paese comunista ci ha impresso il suo dispotismo e il suo “valore” dittatoriale in colori diversi, però il prodotto finale è lo stesso.

Io appartengo ad una generazione di mezzo, metà vissuta nel comunismo e metà in una cosiddetta democrazia, però per molti anni una democrazia con una maschera di carnevale “russa” sotto la quale si nascondono ancora le tracce del vecchio regime. Chiamiamola quindi una democrazia mascherata, perché per vent’anni dalla rivoluzione in Romania ancora questo Paese non trova la strada giusta. Si vive ancora in confusione, delusione e per di più con la fame. La fame di una vita normale, umana, e ancora non si trovano soluzioni affinché le popolazioni possano dimenticare il passato e intraprendere una strada giusta. Veramente c’è una percentuale della popolazione rumena che è integrata in Europa, e questi resteranno sempre all’interno del Paese, quelli che però non riescono ad integrarsi, scelgono di emigrare. “Emigrazione” non ha un significato proprio nella lingua rumena. Si emigra perché è una fase naturale che appartiene ai rumeni di questo millennio.

Ritorno all’umano prodotto del comunismo: io da bambina sono cresciuta con la chiave di casa appesa al collo, perché i miei genitori lavoravano tutto il giorno, anche il sabato e la domenica. A 4-5 anni andavo già da sola all’asilo, a scuola. A scuola dal primo anno, quindi a 6 anni di età, andavamo a raccogliere le piante medicinali, poi dai 10-12 anni a raccogliere frutti e legumi, poi più grandi a raccogliere il mais e la barbabietola da zucchero. Succedeva spesso che i pullman che dovevano riportarci a casa erano guasti e così restavamo fino a sera tardi nei campi senza acqua e cibo. Il resto delle mie giornate lo passavo osservando le vetrine dei negozi e non appena arrivavano prodotti alimentari e per la casa, dovevo stare in lunghe file interminabili di centinaia di persone per poter comprare prodotti come: detersivi, carne, latte, formaggi, legumi, frutta, caffè perché non erano razionalizzati (si vendevano al primo che arrivava a quantità minime contingentate); il pane, il riso, lo zucchero, olio, bombola di gas erano invece razionalizzati (giornaliero il pane e il resto mensile). Anche per queste cose si stava in file interminabili e qualche volta svenivo e pur essendo una bambina, nessuno aveva pietà e quasi mi camminavano sopra, solo per arrivare primi a comprare quel mezzo chilo di pane giornaliero. Nelle macellerie si trovavano di solito solo le zampe e la testa di maiale e gallina, costole di maiale senza tracce di carne; il resto andava esportato per pagare i debiti del paese Romania.

Oltre a mancare lo stretto necessario per vivere, anche sul tema culturale non andava meglio, la televisione “nazionalista” trasmetteva dalle 16-18 alle 22-24, e in quelle poche ore solo le notizie che riguardavano il partito comunista e le lodi per il presidente. Nessun contatto con il mondo occidentale. C’erano poi campi di concentramento per la realizzazione di lavori edili pensati dal genio edilizio del nostro presidente. Lavori obbligatori, un gran numero di operai venivano portati in cantieri lontani da casa per compiere queste opere: il canale navigabile che collega il fiume Dunau con il Mar Nero; il grande Palazzo del popolo.

Questi campi di lavoro erano equivalenti a campi della morte. Incidenti di lavoro capitavano giornalmente, e l’operaio che moriva veniva seppellito nei grossi muri di cemento. La famiglia non veniva nemmeno a sapere come e dove era sparito o avere la possibilità di seppellirlo in un cimitero. Tutti gli edifici fatti costruire dal nostro capo di stato, sono pieni di anime innocenti. Non voglio ricordare che si viveva anche con una grande paura di poter dire anche una semplice parola contro il partito comunista. Se capitava una cosa del genere non veniva punita solo la persona in causa, ma l’intera famiglia. Alle volte venivano accusate persone con il solo sospetto che non fossero d’accordo con il regime.

Le cose malvagie che abbiamo vissuto per 45 anni sono condensate in una lista lunghissima, però l’emigrazione più dolorosa per la Romania è quella che è avvenuta molto prima della caduta del regime: tanti talenti culturali, ingegneri, architetti, sportivi, persone di successo, hanno scelto di andarsene; così la Romania ha perso gran parte della propria “intelligenza”. Erano loro che dagli Usa facevano sentire la propria voce e che ci hanno messo in contatto con l’occidente attraverso “la voce d’America”.

All’inizio degli anni ’90, dopo la rivoluzione, l’emigrazione era solo una cosa da provare. Piano piano quelli che avevano preso la strada dell’emigrazione tornando in patria descrivevano l’occidente come un “paradiso” e una volta entrati in contato visivo, televisivo, auditivo, pubblicità etc. si scopriva un occidente sviluppato, convinti che fuori dalla nostre frontiere si sarebbe trovato il “paradiso” e l’attrazione di emigrare era diventata fortissima.

Nel frattempo in Romania i negozi si riempivano di cose essenziali per vivere e di delicatezze, in maniera inversamente proporzionale al valore degli stipendi, e siamo sprofondati nel caos economico dal quale non si trova la via d’uscita a questa crisi. Sopravvive decentemente chi emigra e quelli che già erano un’elité in Romania, anche ora stipendi e costo della vita sono agli opposti. Non rimane che emigrare!

Dal 1990 al 2000 è avvenuta un’emigrazione di massa, da quasi tutte le famiglie almeno un membro partiva emigrante in cerca di lavoro. All’inizio sono partiti i maschi, maschi che erano padri di figli, figli che poi sono stati abbandonati anche dalle madri che sono partite a loro volta per raggiungere i mariti e lavorare. I bimbi sono rimasti con i nonni o con altri membri della famiglia. Piano piano questi figli di emigranti, sono diventati o viziati o depressi con disturbi psicologici che li hanno portati all’abbandono della scuola, al vagabondaggio ed infine crescendo alla ricerca del benessere con l’emigrazione. Ci sono stati numerosi casi di suicidio di bambini abbandonati dai genitori emigrati e finiti allo sbando.

Una gran parte della nuova generazione in Romania appena sa scrivere, non hanno la minima educazione civica, men che meno culturale e cristiana. Dopo il 2000 i romeni più visibili all’estero sono stati proprio questi giovanotti cresciuti senza scrupoli, viziati, che commettono errori su errori, violenza su violenza. E’ giusto che vengano giudicati per il loro comportamento attuale, però chi si domanda da dove viene tutta questa violenza, da dove viene questo bullismo? Non tutti partono dalla Romania per compiere reati. Voglio fare una parentesi che riguarda romeni e rom. Non voglio che questi due nomi vengano confusi.

In Romania convivono un gran numero di etnie, anche emigrati che noi chiamiamo “minoritari” (no extracomunitari), sono cittadini rumeni di nazionalità diversa (ungherese, tedesca, ucraina, turca, araba, greca, albanese, italiana, cinese) e pure una comunità minoritaria: i rom.

I rom sono dovunque, si chiamano così da rom-ania: il nome gli è stato dato dopo la rivoluzione rumena, perché “zingaro” era visto come un’offesa. Non si può poi dire che anche noi in Romania non ci confrontiamo con questa realtà di incompatibilità di carattere e di convivenza con la minoranza rom. Loro sono sempre stati diversi, sia durante il regime che adesso in democrazia, sono così da sempre ed è molto difficile modificare il loro dna. Tengono alle loro usanze e tradizioni anche se non sono molto gradite. Dopo 45 anni di comunismo pensate che la fame che questo popolo ha sopportato si può saziare in 20 anni? E’ solo cambiato il piatto, prima d’argilla ora di porcellana, ma mangiamo sempre zampe di gallina e di maiale. Si parla troppo di invasione dei rumeni, dopo l’ingresso in Europa e dell’aumento dei reati ma la realtà è assai più complessa.

 

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L'acqua di Pilato

di Giovanni Melato


Se solo un muro ci divide, basterebbe parlare più forte. Tu gridi, io grido. Cosa resta se non un rumore?

Perciò, dopo tanto rumore sulle carceri, ora consentite ad un cittadino di questo “arcipelago Gulag” d’usare, nell’affrontare l’argomento, quel minimo di tatto che caratterizza chi non vuole portare danno agli altri contribuendo, anzi, nell’aiutarli a riflettere. Quindi nessun “j’accuse” per i metri di spazio dovuti eppur negati. Né per i dirigenti che, come treni devono attenersi allo schema dei binari imposti. Né proclameremo l’ostracismo verso chi, con premurosa solerzia, massacra qualche chiassoso detenuto.

Consapevoli che non si deve suscitare clamore. In fondo soffriamo anche noi della sindrome di Stoccolma e finiamo con l’amare i nostri torturatori o almeno così ci suggerisce lo psichiatra, ma non solo lui credetemi! Infatti quanti di voi dissentono sulla “certezza della pena”? Eppure gli stessi, e forse voi fra questi, si indignano con ragione se tolgono il crocefisso dal muro.

E se poi il Papa Benedetto XVI parla del principio di sussidiarietà il quale va mantenuto strettamente connesso con il principio di solidarietà e viceversa, probabilmente di queste sue parole e di quel Cristo tengono presente il muro o si accontentano del chiodo. Potremmo però, volendo, rendere più pregnante non solo il simbolismo della croce ma anche lo spessore del ragionamento, richiamando l’attenzione di coloro che giustamente pretendono “la certezza della pena”, verso quell’imprescindibile presupposto del diritto, individuato nel sostantivo “dovere”. Dovere insito nell’etica della pena. Nella sua qualità, nel suo volere socializzante.

Sui valori contenuti non nella paura o il suo deterrente, ma nella reale possibilità di un radicale cambiamento di chi sbagliando è aiutato a correggersi. Ma così non è ed il potere, avvalendosi della sua indifferenza, ti spinge a crocifiggere il fratello, obbligandoti a gridare “Barabba!”.

Certo, la presente realtà colpisce come un pugno, ma le percosse passano mentre le parole restano e qualcuna scivola financo nell’intimo della coscienza. Da questo proverò allora a trarre una minuscola verità.

Il problema carcerario non c’è, non esiste, poiché nessuno vuole risolverlo. Lo dimostrano le parole dello stesso sindacato di polizia penitenziaria, quando, con la competenza professionale che le è propria, afferma: “Le carceri già ci sono - e ne indicano nomi e luoghi - manca solo il personale”. Ma per assumerlo serve la copertura economica così, quando la coperta è corta, tirala come vuoi, ma lascia sempre una parte scoperta. E la politica? “Non pervenuta”.

Allora, di tanto in tanto, per distrarre l’attenzione, serve una vittima o un martire, e cosa c’è di più pratico ed economico di un detenuto? Oggi Cucchi. Domani si impicca un brigatista. Dopodomani magari è il mio turno.

Ma su, non preoccupiamoci, è pur solo un numero statistico, una piccola pietra d’inciampo sulla via del progresso o della praticità. Così, domani, i sopravvissuti che escono sono incazzati neri, affamati, frustrati, disperati e rabbiosi. Come il cane che ha rotto la catena.

C’è da meravigliarsi, allora, se qualcuno morde? Vero, basta un passo per allontanarsi e un giorno per dimenticare, ma non gioire se cade il muro di Berlino mentre ne stai costruendo altri, per allontanare l’altro te stesso.

No, l’acqua di Pilato.

 

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Carcere e ricordi

di Bruna


Da marzo di quest’anno, all’età di cinquantatre anni, mi ritrovo ad essere una detenuta per la prima volta. Già mi auguro che questa brutta esperienza sia l’ultima per questa mia vita. Ho scoperto che in carcere ci sono anche persone alle quali, a parole, sembra non importi niente entrarci. Mentre sia io che altre, che ho conosciuto in questa particolare esperienza, non si sentono affatto bene a stare rinchiusi, e soprattutto vivono grossi patemi interiori tanto da aver bisogno dell’aiuto del psicologo. Personalmente l’ho fatto e devo dire che qualunque sia il reato commesso, parlare con loro serve. Finora ho fatto solo tre colloqui, però sono stati assolutamente istruttivi e diciamo benefici già al secondo incontro. Parlando di tante cose, in generale, mi è venuto spontaneo raccontare della mia famiglia.

Per capire ancora meglio noi stessi, mi è stato chiesto di mettere per iscritto i più bei ricordi dall’infanzia in su. Fin dalle prime pagine che ho iniziato a riempire di ricordi, sia il mio cuore che lo spirito di adattamento in questi luoghi ne hanno giovato, è un procedimento che mi sta aiutando molto. A tanti potrà sembrare una cosa stupida, banale, ma l’effetto che sta producendo su di me mi induce a consigliare questa pratica anche ad altri. Con questa azione di ripensamento del passato, mi sono venute alla mente cose lontane, come quello che avveniva nelle cucine prima dell’avvento dei forni a microonde, di quelli a gas o elettrici, quando la cottura dei cibi si produceva attraverso una stufa a legna o a carbone. Il gusto degli stessi, con il vecchio sistema, lasciava un buon sapore al palato. Per profumare un po’ la cucina si mettevano poi le bucce di arancia e mandarini. Con l’epifania facevano la loro comparsa le vecchie calze di lana, riempite di dolcetti, frutta secca e altro che si allungavano sopra la stufa, e dentro si potevano trovare pure dei giocattoli. Non tutti avranno avuto queste cose ma dei ricordi diversi, un passato che tutti abbiamo.

 

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Il carcere e la musica

di Mohamed Rouadi


Il primo giorno quando le persone entrano in carcere staccano le relazioni con il mondo esterno e cominciano a pensare al processo, all’avvocato e alle spese; e pensano ai famigliari a come accettano la realtà a cui li hanno messi di fronte. Pensano a tante cose che prima, in libertà, non avrebbero mai pensato.

Praticamente qua in carcere, specialmente quando la condanna è lunga, si trascorre una vita piccola, perché lo spazio è piccolo e le cose che si fanno durante il giorno sono sempre quelle. Un po’ di pulizia, un po’ di impegno in cucina ed il resto della giornata lo si passa a parlare di cose normali con i compagni di cella e con gli altri durante l’ora d’aria. Ma quello che può sembrare inverosimile è che quando una persona è in carcere e passano più di sei mesi, si dimentica di tutto, come se non fosse mai esistito, come se non avesse conosciuto nessuno nella vita… Tutto quello che vede in televisione gli sembra strano, come se non l’avessi mai sentito, mai vissuto. Ma c'è una cosa che invece contrasta con il senso di lontananza che circonda un detenuto: la musica, che in carcere è bellissima perché fa sognare e ricordare tutto, come se il passato fosse solo ieri. Quando si chiudono gli occhi e si ascolta un brano che si ama da tempo, pare di uscire e vivere nel proprio mondo, nella propria casa, con i propri cari.

La musica dà speranza, fa credere ancora nell’amore. La musica in carcere è una porta che fa tornare bello il passato e bellissimi i giorni vissuti. La musica fa vivere bene, con la musica nel cuore gira sangue pulito e puro di vita.

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Un sasso nello stagno

di Giovanni Melato


C’è un lungo ed infinito percorso tra noi ed il nostro animo, ma basta un passo, uno solo, per ridurre le distanze ed avvinarsi alla meta. In quest’ottica mi sono proposto di affrontare un compito del tutto innovativo: parlare di Dio al mio Cappellano, non preoccupatevi, nessuna Summa Teologica o dissertazioni dotte, ma brandelli di parole, frammenti di emozioni, sussulti tratti da acrostici scritti o graffiati sui muri al fine di trarne un senso o una idea compiuta.

L’ispirazione è nata ascoltando alla radio le cristalline parole del suo Vescovo il quale conducendomi, passo dopo passo, sino al capitolo V del Vangelo di Matteo ad un certo punto, cita e si sofferma su queste parole: “Siate figli del Padre vostro che è nei cieli il quale fa sorgere il suo sole sui cattivi come sui buoni e fa piovere sui giusti come sugli empi”.

E qui, avvertii come la sensazione o l’eco del tonfo di un sasso caduto nello stagno, quasi fosse stato scagliato dalla forza stessa delle parole. I cerchi, nell’immaginario, tendevano per loro natura ad allargarsi e nel primo di essi si riverberavano le parole di questo umanissimo Vescovo, il quale nell’espandersi aggiungeva: “Anch’io, parlando dei detenuti, nel mio cuore sento parte delle loro colpe e rendendomene partecipe, chiamo tutti a quei valori di solidarietà e sussidiarietà che sono il tessuto e la trama del pensiero cristiano”.

Avvolto, da un istante di profondo silenzio, osservai l’allargarsi dei cerchi nell’acqua come spinti dai giovani che di domenica in domenica danno, con le loro chitarre, le note agli inni della Santa Messa. Momenti lievi, toccanti, spume nella curva dell’onda. Ma, quando la musica è finita, tu giovane uomo e donna, cosa fai?

Cosa ti resta del volto di quest’uomo che appropriatamente, il nostro Cappellano, ha definito: “Un pollo che non sa di essere un’ aquila?” E l’onda s’espande e, pur muta, parla a me stesso e a chi come me è “palla da tennis”. Rimbalza sulle mura diventando, giorno dopo giorno, sempre più frustro, sempre più logoro, sempre più inutile e solo. Quasi Dio non ci fosse o l’avesse dimenticato.

Ora, l’onda creatasi, sta quasi per toccare la sponda e li c’è il nostro Cappellano che l’osserva e medita. Non c’è dato di sapere cosa pensa. Forse, ripete in cuor suo, parole a lui famigliari quali: “Le persone sane non hanno bisogno del medico; sono i malati invece ad averne bisogno”. Ed aggiunge: “Fratelli miei, se uno dice di aver fede, ma non ha opere, che utilità ne ricava?”.

Nel frattempo l’onda si infrange sulla riva e da l’impressione ottica delle mille porte che si sono schiuse alle sue ed alle nostre spalle, lasciando l’uomo nel silenzio e nell’indifferenza. E da lui, come ciascuno di noi, nasce un’ istintiva domanda: “Allora che fare?”.

Alzo gli occhi e cerco l’arcobaleno. Tra i suoi colori c’è la speranza, la dignità ad ogni vivere, il coraggio dell’affrancamento e quello stringersi la mano scambiandoci un segno di pace. E, ben sappiamo che la pace non si esaurisce in un gesto, né muore dopo un rito. E lì nel tuo e nel mio cuore, e parla pur nel silenzio più profondo. Così, se mediti, pur anche un attimo, la sentirai cadere come fosse un sasso nello stagno.

 

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Riflessioni di Pasqua

 

Pasqua è una ricorrenza molto sentita che predispone gli animi di milioni di persone a festeggiare queste giornate dal punto di vista religioso, per un valore cristiano e come momento di condivisione famigliare.

Può essere vissuta anche come pausa di riflessione, di vacanza e ricongiunzione, ritrovo con i propri cari, chi in casa propria, chi tra parenti e anche in viaggio. Lontani dalla frenesia del lavoro che sempre di più ti impone ritmi vertiginosi che “bruciano” tutti i valori che sono e dovrebbero rimanere la base e l’ancora di ogni individuo.

E’ un piccolo spazio di tempo che interiorizza e ci predispone a sentimenti di gioia e d’amore, di maggiore accoglienza ed attenzione verso le altre persone. Per alcune, più sfortunate, questa Pasqua è vissuta con amarezza, perché in la festa fa pesare ulteriormente la lontananza dagli affetti, dalla semplice manifestazione verbale di “Buona Pasqua”, per la mancanza di un abbraccio, un bacio ed una carezza da un figlio, dalla moglie, dai genitori, etc. Persone care che non hanno nessuna colpa per il fatto che siamo pervenuti in questo “girone dantesco”.

Ed allora ci si aggrappa ai ricordi del passato, sperando che chi è fuori viva comunque momenti sereni e non sia etichettato come famigliare di un detenuto. In noi si ripresenta ed aumenta la voglia e necessità di chiedere scusa per quanto ci ha portati in questo ”altro mondo buio”. La coscienza scava dentro, ti presenta ogni momento il “conto” a volte si vorrebbe staccare la memoria. Quella stessa memoria però ti aiuta a vivere, a sperare nel futuro, ti sostiene con tutti i ricordi più belli del passato e ti invita a proseguire in un percorso di vita e con la volontà di essere d’aiuto a chi, qui dentro ma anche fuori, ha bisogno magari solo di un semplice “ciao!”. Alla disponibilità ad ascoltare i suoi problemi, le sue esigenze, i suoi sentimenti, a non sentirsi solo ed abbandonato, a non cedere al baratro della disperazione.

Ma regalarci reciprocamente spazi di attenzione, l’uno verso l’altro,: anche per questo è “Buona Pasqua”.

 

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La convivenza in carcere e l'aggressività

di Vittorio Lazzarini


Fare vita in comune senza avere familiarità è molto difficile, soprattutto in carcere. La difficoltà sta nel far convivere i diversi elementi con esperienze, cultura, abitudini (es.: alimentari ed igieniche) e religiose diverse. La convivenza forzata è molto condizionata dagli stati d’animo delle singole persone e dagli sbalzi d’umore e il malessere che si crea a volte trova sfogo in atti violenti. La violenza in carcere non è da intendere solo dal punto di vista della sopraffazione fisica di uno o più individui nei confronti di altri, ma anche in una sorta di imposizione psichica che, per gli individui che la subiscono, in base al proprio carattere e al momento emotivo che vivono, porta gli stessi a reagire in modo diverso e a volte inconsulto. Ecco che riunire più persone che non si sono scelte ma devono convivere per più tempo crea molteplici difficoltà nella coesistenza comune di tutti i giorni, dal momento che non tutti hanno capacità mentali e predisposizione ad adattarsi a fare le stesse cose, con gli stessi diritti e doveri. Da questa situazione a volte scaturiscono violenze improvvise contro qualcuno in disaccordo con gli altri. Succede anche che l’aggressività, che tutti hanno bene o male dentro, viene usata per avere il predominio per un qualcosa che spesso esiste solo nelle presunzioni interiori. A volte, nella frequentazione coatta, si percepisce un senso di disprezzo tangibile tra le persone e, anche se tutti affermano che all’interno del carcere siamo tutti uguali, allora mi chiedo da dove provenga questo atteggiamento di supremazia e di totale disistima verso alcuni, che vengono considerati privi di dignità morale e culturale. Ritengo che questi atteggiamenti siano messi in atto da coloro che fuori hanno subito le stesse discriminazioni, provenendo da uno stato sociale, economico e umano relegato in posizioni basse, e ora, a loro volta sfogano le loro frustrazioni sui più deboli. Il clima di inimicizia che talora si respira, durante le nostre giornate ristrette, è il frutto anche di piccole cose che portano allo scontro, l’uno contro l’altro, perché poi ognuno si impunta sulle proprie ragioni e non vuole ascoltare quelle dell’altro e così le situazioni, minate dall’incomprensione, degenerano in episodi intolleranza e violenza che si potrebbero evitare con un minimo di pazienza e buon senso. Per cambiare questo clima è necessario partire da un livello adeguato di rispetto reciproco che vada al di là delle connotazioni caratteriali di ognuno, innanzitutto rispettando le regole di convivenza, anche se è difficile vivere assieme ad altre cento persone. Bisognerebbe rispettare gli spazi comuni, gli orari degli altri ed evitare un linguaggio mancante di rispetto e scurrile, se poi qualcuno non si comporta secondo questi dettami sarebbe il caso di convincerlo con le buone maniere, senza eccessivi rimproveri che rischiano di creare ulteriori litigi. Bisogna, insomma, imparare a dialogare tra di noi ed a questo possono contribuire le attività rieducative, per poter confrontare le nostre opinioni sui problemi della vita, sulle tematiche sociali, sul vissuto come esperienza positiva e diversa, in modo civile ed educato, permettendoci di conoscerci e capirci.

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Cancellino

di Giovanni Casartelli


“Cancellino” è il termine con cui in carcere si definisce il compagno di cella… E’ una parola che, come quasi tutte le altre appartenenti all’universo carcerario, vorrei rimuovere al più presto. Il cancellino è una persona che, come me, è portatrice di sofferenza, di delusione, di frustrazione e, purtroppo, pochissime volte di sentimenti ed ideali positivi…

Quello che scrivo è per tutti i cancellini e, ovviamente, anche per me che “cancellino” lo sono a mia volta… Una regola o meglio un atteggiamento che si dovrebbe avere in cella è di non farsi mai vedere di cattivo umore, perché così si può influenzare negativamente anche l’umore dei propri cancellini. In un certo senso bisogna avere una buona dose di disciplina per poter convivere in armonia… Se ti capita un cancellino “problematico” è come ti avessero condannato due volte! Tante cose si imparano strada facendo e perciò bisogna essere pazienti, ragionevoli e avere una buona educazione, anche se per qualcuno di noi ospiti delle patrie galere la parola “educazione” talvolta crea qualche problema di connessione… Cancellino è una parola difficile da spiegare e altrettanto difficile da far capire a coloro che si trovano al di fuori di queste mura e, comunque, scrolliamoci questa etichetta di dosso, si vive meglio!

 

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A che cosa serve il carcere?

di Mohamed Rouadi 


Quando uno commette un reato viene arrestato dalle forze dell'ordine e portato in carcere. Questo determina soddisfazione negli agenti che, ritengo, dovrebbero però riflettere sull'accaduto.

Voglio dire che se l'arrestato è un cliente abituale allora possono anche avere ragione di essere contenti, ma per chi è al primo incidente di percorso e magari non ha fatto un reato grave, a volte indotto dal bisogno, allora non sono d'accordo!

L'arrivo in carcere, per la prima volta, è traumatico. Viene messo in osservazione nella zona "isolati", poi a seguito dell'interrogatorio con il giudice per la conferma dell'arresto nello stato di custodia cautelare, viene trasferito in sezione. E da quel momento inizia la sua storia e scuola di carcere.

La chiamo scuola perché è veramente così e in questo caso si commette un errore: far cioè convivere con i ristretti abituali una persona "normale", che non è detto abbia tendenze delinquenziali solo perché arrestato. Ne è prova che se prima uno è buono poi diventerà cattivo, perché gentilezza ed educazione non sono di casa in carcere. Con la frequentazione, poi, inizierà a conoscere come si fa a rubare, a rapinare, a spacciare, sino ad uccidere.

Questa mia riflessione vorrebbe essere di aiuto per evitare questo grande sbaglio che avviene per le persone al primo ingresso e che, spesso vengono poi prosciolte e scarcerate. A loro a cosa è servito il carcere? Solo a venire a contatto con situazioni devianti e per qualcuno, quelli più fragili caratterialmente e psicologicamente, forse l'occasione per perdersi definitivamente.

La detenzione dovrebbe avere altri presupposti, almeno secondo la legge italiana, oltre al fatto da rimarcare e cioè l'abuso dell'istituto della carcerazione preventiva.

E perciò, in relazione a tutto quanto detto, rifaccio la domanda: a cosa serve il carcere?


 

 

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I detenuti in sciopero della fame

Lettera inviata ai giornali

Egregio direttore,

le scriviamo per avere un riscontro dal suo giornale. Noi detenuti nella Casa Circondariale di Rovigo da lunedì 13 a venerdì 17 di questo mese di giugno attueremo uno sciopero totale della fame, per aderire allo sciopero che stanno conducendo altri detenuti nelle diverse strutture penitenziarie italiane, con la adesione e partecipazione di familiari, politici, volontari, garanti e altri, e in questa nostra azione siamo sostenuti anche da alcuni agenti della polizia penitenziaria.

Scioperiamo per lo stato in cui siamo ristretti, per il sovraffollamento che ci rende gli spazi a noi adibiti assolutamente insufficienti, in alcune carceri la popolazione detenuta è più del doppio della capacità, la polizia penitenziaria è sotto organico e sottoposta a turni estenuanti, cosa che si ripercuote anche su di noi, e perché venga rispettata la nostra dignità umana.

La ringraziamo per l’aiuto che vorrà prestare al nostro appello.

 

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Voli di dentro

(poesie e quant’altro)

STRETTO A ME STESSO

Seduto in un angolo del letto…

Avvinghiato, stretto su me stesso…

Chiedendomi mille volte, perché?

Dopo una vita, passata in un mare

in tempesta… io naufrago…

 

Con te, avevo ritrovato la calma,

e la quiete…

 

Poi, in un giorno di calma

apparente…

In un luogo, mi sono ritrovato

in un’isola deserta, travolto

da un uragano…

 

Stretto a me stesso, solo, ferito…

Solo come un cane bastonato…

che si lecca le ferite…

impaurito, abbandonato…

Stanco…

 

UN VIAGGIO VERSO LA FELICITA'

Miglia dal nulla,

credo me la prenderò con calma,

oh si per arrivare laggiù.

Guardo alla montagna lassù che devo scalare

Oh sì per giungere laggiù.

Signore, il mio corpo è stato un buon amico,

ma non mi servirà quando arriverò alla fine.

Ho la mia libertà,

posso farmi le mie regole

oh sì, il mio corpo è stato un buon amico

ma non mi servirà quando arriverò alla fine,

io amo tutto, così non lasciarti intristire

perché mi prenderò di te, cara figlia

ci penserò io!

Abrahim Adam Karim

 

PRIGIONIERA DEL SILENZIO

Prigioniera del silenzio

sbocciata da una scelta del destino

e ai bordi il filo spinato che ho cercato!

Negli occhi il grande dilemma,

ogni sera salgono lacrime,

inutili i passi.

Il dolore si accende in tragiche ombre

piange il mio silenzio,

piange il mio volto,

piange il mio cuore,

sorrido alla vita.

Inutile gioia,

rimane sempre un sogno,

sorrido alla vita

per non affrontare la realtà.

Rosalba Del Gatto

 

SOLITUDINE E PRIGIONIA

Un prigioniero e lontano dalla sua terra sono io,

da me stesso,

e dovessi io ardire a parlare la mia lingua.

Talvolta mi guardo dentro e osservo il mio io.

Un io nascosto che ride dentro e piange, che osa e che teme.

Allora il mio essere si stupisce del mio essere e il mio spirito chiede il mio spirito.

Ma io resto un prigioniero ignoto, perduto nella nebbia rivestita di silenzio.

Un prigioniero sono io del mio corpo

e quando sono davanti ad uno specchio, ecco,

sul mio viso vi è quello che la mia anima non ha pensato

e nei miei occhi quello che la mia profondità non contiene.

Al mattino mi sveglio per ritrovarmi

imprigionato in una oscura cella fredda,

quando io cerco la luce esterna,

l’ombra del mio corpo marcia davanti a me,

verso dove? Non so.

Mentre cerco ciò che non comprendo

anelando a ciò che non mi necessita,

strani pensieri mi seducono,

insieme paurosi e gioiosi,

e i desideri mi assediano con dolore e diletto.

Abrahim Adam Karim

 

LA STRADA FINALE

Ho lasciato la mia casa felice per vedere cosa avrei potuto scoprire.

Ho lasciato parenti e amici con lo scopo di schiarirmi le idee.

E ho intrapreso la vita di strada,

e tanti ragazzi ho incontrato.

Ho udito tante storie sul modo di arrivare là.

Così avanti e avanti vado da solo, i secondi scandiscono il tempo.

C’è ancora così tanto da conoscere,

e sono sulla strada per scoprirlo.

Poi ho trovato me stesso un giorno che nemmeno ci pensavo,

e a questo punto devo dire che non serve mentire,

sì la risposta è dentro.

Così perché non gli dare un’occhiata,

cacciare via il peccato del diavolo,

e prendete un buon libro adesso.

Sì la risposta è dentro.

Abrahim Adam Karim


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