«Prospettiva Esse – 2003 n. 1/2»

I n d i c e

  1. Indulto o indultino: tante parole e speranze vane (F. Cantini)
  2. Prospettiva Esse oggi (F. Cantini)
  3. Il carcere nuovo (G. Princivalle)
  4. Le nuove Brigate Rosse (D. Previato)
  5. Cuochi e cuoche in cucina… una sfida (Maria, Valeria e Matilde)
  6. Incontro con una scolaresca del quinto anno di ragioneria (a cura della redaz.)
  7. Convivere (a cura della sez. femminile)
  8. La pace (D. Previato)
  9. Da che parte sto (D. Previato)
  10. Lettera al Presidente della Camera dei Deputati
  11. Natale in carcere (Maria, Patrizia, Ines)
  12. En fede (Mohamed Abdel Hamid)
  13. Tossicodipendenza (P. Bocchi)
  14. Il corso di teatro (C.D. Sanchez)
  15. Lettera ai miei cari (A. Sticcati)
  16. Guerra (G. Princivalle)

 

 

 

 

 

 

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Indulto o indultino:

tante parole e speranze vane

di Ferdinando Cantini

Le iniziative di protesta sono solo momenti, istanti in cui lo sfogo al disagio vissuto trova apice. Ecco perché qualsiasi controversia non dovrebbe mai affidarsi alla contestazione di massa per trovare la propria risoluzione. Le voci del coro si afflosciano in fretta, i problemi irrisolti rimangono tali ... "mal comune mezzo gaudio", così ognuno ritorna nel suo spazio silente, con la medesima croce, aggravato dal peso di un governo inutile in più.

Riprendendo il lavoro di redazione del nostro giornale, riassumiamo  le iniziative di contestazione al “ Sistema Carcere”, che i detenuti nella Casa Circondariale di Rovigo, nella piena condivisione di volontà di gruppo, hanno cercato di portare alle attenzioni esterne. Vorremmo ora che l’attenzione di chi ci legge non fosse focalizzata solo sulla sostanza delle nostre iniziative o sui disagi evidenziati nella pacifica protesta, ma che si cercasse almeno per una volta, di considerare  il carcere solo come un luogo di momentanea privazione della libertà, ma in cui rimangono inalienabili:

- Il diritto al riscatto sociale mediante l’espiazione della pena attraverso il progressivo inserimento lavorativo.

- La dignità individuale di potervi aspirare (riscatto sociale) senza incomprensibili interruzioni causate. 

La vicenda legislativa delle proposte di ‘’Indulto o Indultino’’ non si è ancora conclusa . Alla Camera è stata approvata (stiracchiatamente) una delle proposte di clemenza, però ora tutto si è insabbiato al Senato forse irrimediabilmente.

Le carceri non possono continuamente essere considerate terreno di scontro politico su cui coltivare slogan per raccogliere bassi consensi elettorali.

Le carceri sono un’istituzione sociale e con la società e nella società devono progredire e rinnovarsi.

Una società o un potere politico che non sanno gestire il problema odierno delle carceri, non possono aspirare a costruire nuove carceri che prima o poi, inesorabilmente, anch’esse verrebbero a riempirsi dei problemi oggi non risolti .

Le nostre azioni dimostrative che abbiamo effettuato nel caldo dell’azione legislativa, non sono azioni di protesta e contestazione, bensì sono la denuncia di un problema esistente e non ancora risolto. Quindi il loro senso di testimonianza si rinnova quotidianamente a specchio della nostra realtà reclusa.

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Prospettiva Esse oggi

di Ferdinando Cantini

“Prospettiva Esse”, oggi come ieri esse sta per speranza. Una prospettiva di speranza che ci impegniamo a mantenere viva per ognuno di noi che è oggi qui o che per  i più svariati percorsi di vita qui arriverà in seguito. Sono circa tre anni e mezzo che faccio parte della redazione, per me questa partecipazione è stata la prima esperienza del genere, anche se la mia frequenza nel mondo carcerario risale a molti anni prima.

Cosa significa per noi il giornale del carcere? Molti potrebbero pensare che è la ricerca di uno spazio per dare un peso e un senso alla propria voce. No, non è così! Perché non può e non deve mai esserlo. La voce è una manifestazione troppo individuale perché sia esercitata in un coro. Ne perderebbe la singolarità di ogni individuo e noi siamo qui innanzitutto per rivalutare e correggere le nostre singolarità.

Il nostro sforzo si concentra principalmente ad accendere e tener vivo un dialogo tra di noi e cercare di intraprendere ogni possibilità di apertura al nostro dialogo e alle nostre aspirazioni verso l’esterno del carcere.

Se i simboli materiali che meglio concretizzano l’idea del carcere sono le alte mura o un portone chiuso,  il giornale di un carcere vorrebbe e dovrebbe essere il simbolo che concretizza ideologicamente un detenuto nel suo tentativo di reinserimento nella società.

Un tessuto sociale è tanto più vivo quanto più sono radicate nel suo interno la tradizioni e i costumi di vita che tramandano la coscienza di essere e danno sicurezza nel momento delle scelte. Nonostante la reclusione e le molte preclusioni anche il carcere è un luogo in cui la vita deve continuare.

Siccome il carcere si esprime nell’arco della vita di un detenuto come una parentesi che momentaneamente lo separa dal conteggio del vissuto, ma poi lo restituisce senza che rimanga una traccia visibile da ricordare, in quanto ognuno entra ed esce con la sua storia, il giornale è la nostra memoria collettiva perché vive e si arricchisce della storia di ognuno di noi e resta a quanti ci seguiranno come preziosa eredità di esperienze già vissute per non ripartire ogni volta da un punto zero.

La più grande memoria che ci teniamo a consolidare e a mantenere sempre viva è quella relativa ai contatti con l’esterno. Anche l’esperienza di oggi è un  qualcosa che registreremo e tramanderemo affinché se ne seguiranno altre sia un passo successivo e non sempre un primo passo.

Le mura di un carcere non si abbattono, ma le barriere che segregano il detenuto in uno spazio a margine della società possono essere superate con un continuo dialogo aperto verso l’esterno. Ecco,  il nostro giornale “Prospettiva Esse” vuole essere una continua ricerca di dialogo con l’esterno aperta a chiunque voglia conoscere e contribuirvi.

Un piccola precisazione: un dialogo avviene quando si levano più voci distinte da posizioni diverse, altrimenti è un monologo o un coro. Il nostro giornale sicuramente si arricchirebbe e completerebbe maggiormente se potesse raccogliere il contributo di opinioni ed esperienze esterne, ma sono sicuro che se ne gioverebbe anche chi dall’esterno volesse parteciparvi.

Questa è una proposta, la nostra proposta al mondo esterno, sta a voi dirci se è interessante, se la volete raccogliere.

Naturalmente non sono qui solo per parlarvi del nostro giornale ma anche per rispondere alle vostre domande.

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Il carcere nuovo

di Gregorio Princivalle

Sono un detenuto del carcere di Rovigo, della redazione di ‘‘Prospettiva Esse’’. Ho sentito parlare della costruzione di un nuovo carcere e la mia opinione è estremamente contraria, sia per i milioni di euro  che si sprecheranno sia sui tempi materiali che servirebbero per costruirlo. In fondo sarebbe sufficiente migliorare l'esistente nei servizi che mancano, cominciando dalla cucina dove mancano diverse cose tra cui il servizio igienico, macchinari di vario tipo e soprattutto l’assistente responsabile all’interno della cucina stessa. Per non addentrarci nei svariati problemi che la struttura denota, quali la mancanza di acqua calda nelle celle, e forniture varie che vengono date col contagocce come la carta igienica. Per non parlare dei tagli economici in atto da parte delle Asl e dei Sert per i tossicodipendenti.

Ritengo quindi che le priorità rispetto alla costruzione di un nuovo carcere siano altre, quali quella di investire per poter alimentare strade di reinserimento per i detenuti. Usare il denaro in questione per borse di lavoro esterne, per dare ai detenuti un più adeguato inserimento nella società. Quanti di noi ristretti si potrebbe salvare, offrendoci qualche possibilità? Bisogna ricordare che siamo tutti esseri umani carcerati o no, giudici o no, politici o no.

Ritengo sia importante ed emblematico ripensare alla richiesta del Papa, fatta al Parlamento italiano, per promuovere un segno di clemenza a favore dei detenuti. Sono convinto che questo nasca pure dalla constatazione che la legge non è uguale per tutti e che in galera ci sono solo i più poveri, che non hanno spesso altra alternativa per sbarcare il lunario che di andare a rubare, vendere droga, insomma a delinquere per vivere. Se riflettiamo su un fatto di pochi anni fa possiamo comprendere quanto questo sia vero.

Al tempo di tangentopoli molti personaggi politici ed "economici" sono stati inquisiti, ma ben pochi sono andati in galera. Questo per unico e fondamentale motivo: avevano le possibilità economiche per una buona difesa.

Tanti sono riusciti a farsi assolvere, altri hanno patteggiato pene minime e pecuniarie, altri ancora hanno ottenuto misure alternative senza approdare al carcere. Sia chiaro che nelle mie parole non c'è invidia o che altro, ma solo la constatazione dell'evidenza dei fatti. Mi consola comunque che al cospetto di Dio siamo tutti uguali, per cui ognuno avrà un giudizio vero ed equo.

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Le nuove Brigate Rosse

di Dino Previato

Questa mattina, come il solito, ascoltavo la televisione ed ho appreso con notevole apprensione della barbara uccisione dell’agente di polizia ferroviaria da parte della Br. Il pensiero è corso alla famiglia dell’agente, e la commozione nonché il dolore è stato profondo. Una parte della mia memoria si risvegliava e mi portava a ricordare gli anni cosiddetti di piombo e a ripercorrere il tutto sino alla morte di Aldo Moro. Quante parole di circostanza sprecate, quanti sentimenti di cordoglio rimasti sulla carta a testimoniare una presenza passeggera e certamente colpevole. Rivivere una sofferenza dimenticata è sempre difficile da superare e come affermare quanti morti vane dobbiamo ancora registrare senza poter cancellare il seme dell’ipocrisia che ci anima. Basta ricordare le vittime del terrorismo e le famiglie che sono state segnate dal dolore, che dopo l’evento sono state dimenticate e lasciate a se stesse ed al loro dolore. Ecco la storia si ripete. I corsi e ricorsi storici sono una realtà purtroppo sotto gli occhi di tutti. Si deve portare ancora la croce della sofferenza. Cristo abbia pietà di noi e della nostra ignavia.

Uscito dall’istituto (carcere) ancora prigioniero dei miei pensieri, guardavo i giornali, le locandine dell’edicola e mi rendevo conto di averle tutte gia viste. “Compassione e cordoglio per le vittime” era quello che veniva trasmesso dalle dichiarazioni dei potenti, sovrastati dall’apparire dei fantasmi di un tempo, di un ritorno al terrorismo ideologico del cui avvento troppo superficialmente era stato registrato quando il Ministro degli interni lo aveva agitato. Sono state vanificate esperienze trentennali con teorie sociologiche nascoste o sotterrate con la prima repubblica.

Come si reagirà a questo nuovo evento? E’ facile precorrere i tempi, dovremmo subire rubriche televisive a più non posso, tavole rotonde con esperti, filosofi e sociologi che si ripetono, politici con in mano tutte le soluzioni, dibattiti parlamentari e non che si sprecano. E’ purtroppo il male della società della comunicazione, una amplificazione che non potrà che giovare a questi pochi ed isolati estremisti che hanno osato turbare nuovamente i sonni non solo di chi governa.

Mi preoccupavo di pensare a quali azioni intraprendere come uomo comune per, prima, isolare tali elementi dalla società, e poi a come effettivamente combattere quell'ideologia e toglierla dalla coscienza dell’uomo. Varie le ipotesi da analizzare, diversi i progetti da definire, ma sulla spinta di una sola tensione quella di combattere l’ingiustizia e l’egoismo umano e rafforzare lo spirito di solidarietà fra la gente comune e condividere le pene e le sofferenze per avviare quel bene comune che è l’unico presupposto per ritrovare armonia e coraggio di dialogare.

Criticamente analizzavo questi ultimi vent’anni di storia, passando in rassegna i fatti più eclatanti e le tensioni prevalenti di questa nostra società. Le nuove povertà, le modifiche del capitalismo moderno, l’universalità del mercato e le loro logiche impostate sul profitto che da sempre si ripetono e diventano più ciniche, l’ondata dei no-global che alimentano la legge della piazza e del populismo senza regole, mirato a delegittimare tutto e tutti e dove pochi ed autarchici e selezionati elementi alimentano sentimenti di violenza e di esasperazione, la confusione sui principi basilari della convivenza civile che vengono sempre più minati. Questo è il tessuto che alimenta le nuove Br ed è il terreno dove ricercano adepti.

Ecco di contrapposto una dirigenza politica dove la contrapposizione non è più nei termini del rispetto delle idee altrui, ma dove domina “chi ce l’ha più duro” o ha pronto l’offesa più pesante. Non ci sono programmi contrapposti né teorie da verificare, ma solo scontro e contrap-posizione mirata a togliere spazio politico agli altri.

Non si accorgono che in questo contesto lasciano lo spazio della politica agli estremisti ed alimentano le tentazioni extraparlamentari.

Queste sono le assurdità di chi crede che con i girotondi e le manifestazioni piazzaiole si possano, se non sono unite ad un progetto politico condiviso, modificare il patto legato al voto.

Un recupero della “politica” intesa come tensione ideale di voler migliorare il governo della “polis” e la qualità della vita dei residenti può togliere spazio agli estremismi ed ai terroristi.

Certo non può una dirigenza, che approfitta della guerra in Iraq e quindi della politica estera per fini di parte e di ausilio alla loro politica interna, sperare di rafforzare il concetto di uno stato moderno che vuole l’interesse della popolazione e senza dubbio non si dà un'immagine di governo forte se se ne approfitta per togliere la speranza anche a coloro che oggi maggiormente sono colpiti nella privazione della libertà.

La tolleranza ed il rispetto quando mancano determinano il crescere di spazio di chi è contro, e se quello che oggi non è accaduto, come il legame tra terroristi e detenuti per altri reati, può diventare ben presto una realtà.

Il male di questa società sta proprio nella mancanza di ideali e di punti di riferimento certi e lo si vede anche quando un’alta personalità morale, che si sofferma per chiedere, nel nome della pace e della giustizia, un atto di clemenza, a questo viene risposto come se fosse un accattone all’angolo della strada e come un brigatista in guerra contro questa società.

Ecco perché mi ha colpito tutti i passaggi di questo “già visto” e soprattutto perché ritengo l'attuale società incapace di reagire.

Non c’è un “Moro”, né un “Berlinguer” che nella loro diversità hanno saputo trovare quella forza morale per rispondere uniti agli attacchi portati al cuore dello stato. Voglia il Signore evitare a questa nostra società il ripetersi di situazioni drammaticamente vissute e pagate, voglia quindi non confermare la storia ed i suoi continui ripetersi.

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Cuochi e cuoche in cucina

...una sfida

di Maria, Ornella, Valeria e Matilda

La Direzione ha proposto un cambio di gestione nel servizio di cucina e ormai da alcuni mesi è la sezione femminile ad occuparsi della preparazione dei pasti per entrambe le sezioni, servizio prima esclusivamente di competenza della sezione maschile. Durante la giornata siamo in quattro ragazze a turnarci, ci presentiamo: Maria, Ornella, Valeria e Matilda. Questo cambio di gestione è stato accolto nella nostra sezione con grande entusiasmo, per alcune ore possiamo uscire dalle nostre celle e dalla sezione per lavorare, un lavoro che per di più ci piace molto, cucinare!! La notizia ha portato un po’ di scompiglio nella sezione maschile, potremmo dire che è stata lanciata una sfida: non dovevamo durare più di quindici giorni, e invece eccoci ancora qui tra pentole e fornelli, anche noi in divisa per alcune ore, divise da chef!

Esiste una commissione vitto formata esclusivamente da uomini, perché non inserire anche qualche donna? In fondo i pasti riguardano entrambe le sezioni, non vogliamo pensare male, ma il fatto di sapere ciò che viene preparato in cucina e come, crediamo sia di interesse per entrambe le sezioni, anche per il fatto che al femminile sono poche le iniziative che creano particolare interesse, questa della cucina invece ci riempie di entusiasmo.

Molta soddisfazione per i pasti ci è giunta dal personale di sorveglianza, li ringraziamo e per quanto riguarda i nostri colleghi maschietti sappiamo come riuscire a conquistarli proponendo loro piatti speciali e diversi dal solito, ci impegneremo a fondo!

Ora torniamo a cucinare, per un attimo sembrava di essere a casa, profumi di cucina, rumori di pentole e stoviglie, chiacchiere tra amiche, una sigaretta vicino alla finestra mentre la pasta cuoce…speriamo davvero che questa esperienza continui, per noi è molto importante, ci fa sentire utili, ci impegna in un grosso lavoro ma molto piacevole e che stimola la nostra fantasia e la nostra volontà di essere bravissime cuoche, nella soddisfazione, speriamo, di entrambe le sezioni!

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Incontro con una scolaresca
del quinto anno di ragioneria

a cura della redazione

Nella nostra società moderna, oberata dai continui mutamenti tecnologici, dall'isteria degli strumenti di comunicazione, si è perso il rito dell’”incontro”. L’incontro presuppone caratteristici convenevoli di accoglienza e dialogo che sono scemati di importanza nelle nostre abitudini. Ci è più semplice accendere la nostra curiosità ed il nostro interesse per una notizia di un fatto successo agli antipodi e appreso fugacemente durante il martellamento notiziario di un programma televisivo mentre eravamo immersi nel nostro “quotidiano” che riuscire a guardare in faccia per un attimo chi ci dice buon giorno, essendo apparso casualmente nel nostro arco visivo. All’interno di un carcere la situazione è un po’ diversa, anche se la popolazione che vi abita ci è confluita provenendo da situazioni di incomunicabilità interpersonali come quelle sopra descritte. Basta erigere un muro ed al suo centro inserirvi una porta che prima o poi, da ambo le parti, verrà bussata per conoscere chi c’è dall’altra parte e conoscerne la sua realtà.

La proposta di incontrare una scolaresca ci ha colti positivamente e ci siamo preparati a questo incontro. Non sapendo cosa presentare di noi come oggetto di dialogo e conoscenza, abbiamo pensato di presentare il nostro giornalino, che è il nostro metodo globale di comunicare.

Dal dialogo avuto con la scolaresca, quinto anno di ragioneria, abbiamo appreso che il loro interesse si era concentrato principalmente su alcuni aspetti della vita in carcere, quali i nostri rapporti interpersonali e con gli agenti. Altre domande in generale sul carcere riguardavano la “deterrenza della pena” e “il risarcimento del danno sociale”.

E' importante anche per il nostro cammino di reinserimento comprendere come siamo visti.

Dalle pagine del nostro giornale, prossimamente riprenderemo i quesiti postici in modo più approfondito di quanto abbiamo potuto fare durante l’incontro.

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Convivere

a cura della sezione femminile

Anche nel carcere è dura la vita di convivenza. I detenuti che ricevono in cella compagni di sventura con particolari problematiche devono in ogni caso accoglierli ed accettarli, sicuramente non emarginarli, anche se uno è sempre facile. Dobbiamo scontrarci giornalmente con detenuti il cui inserimento nella vita penitenziaria è difficile.

Anche fra di noi l'accettazione diventa un problema perché ognuno si sente migliore dell’altro. In galera il detenuto che arriva ha un supporto di tipo psicologico solo ed esclusivamente in quel momento, poi è rinchiuso nella sua cella e tutto sembra fermarsi . Il reinserimento appare come qualcosa  di impossibile da realizzare, cose di altri tempi. A prescindere dal tipo di reato non si dovrebbe fare distinzione o divisione fra di noi tutto dovrebbe portare ad una solidarietà. Solidarietà che nella pratica invece è difficile da attuarsi!

I vari problemi che la ristrettezza detentiva produce alimentano anche i dissapori tra di noi. Esempio il cambio lenzuola, che viene fatto quando va bene ogni venti giorni e questo passa quasi inosservato. Noi detenute questo non lo riteniamo giusto perché lede i nostri diritti.

Anche con il materiale di pulizia e igiene personale ci sono delle ristrettezze che a nostro avviso sono ingiustificate; siamo donne  e per un certo tipo di materiale di prima necessità ci dovrebbe essere più consapevolezza da parte di chi distribuisce. Anche questo fa parte della dignità che anche qui abbiamo. Essere recluse non vuol dire perderla o abbandonarla. Siamo persone come tutte con la sola differenza che dobbiamo pagare il nostro debito con la giustizia.

Ascoltare anche la voce del detenuto potrebbe portare a fare scelte diverse e più mirate.

Forse per le persone libere è difficile pensare che ci possano essere anche per noi delle esigenze e che non tutto ci deve essere negato! Un minimo di consapevolezza e un occhio anche per noi.

Noi compagne di galera, nel nostro piccolo, cerchiamo sempre di trasmetterci quel poco o tanto che abbiamo di sentimenti per tirarci su di morale e non farci venire idee strane, coscienti che le persone libere non pensano a noi nella stessa misura.

Questo è il pensiero di quattro detenute e forse di tutta la sezione femminile che scrive e che lancia un messaggio: esistiamo anche noi.

La nostra vita continua anche qui, come per tutti, e i sentimenti, i legami familiari, le radici che abbiamo lasciato nella città libera le portiamo sempre con noi in modo indissolubile.

Un pensiero di mamma, un grido dal cuore: sono sette anni che vivo con il desiderio di portare un fiore sulla tomba di mio figlio morto il 28 maggio dell'85, e questo a tuttora mi viene negato.

Eppure sono una detenuta-mamma sorridente, gioiosa, con tanta voglia di vivere e cerco di diffonderla con chi condivide con me questa esistenza, il cuore nonostante tutto non si è indurito.

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E' Pasqua

Voci dal carcere di Montacuto (Ancona)

La vita non finisce mai di stupirci, è proprio una continua scoperta.

Chi vive una vita “normale”, fatta di stress, di corse per raggiungere mete che forse non esistono o non riuscirà mai a raggiungere, spesso non riesce più a vedere e a dare il giusto valore a quelle piccole cose, a quei sentimenti che rendono la vita veramente degna di essere vissuta.

La stessa giustizia terrena, quando condanna chi ha indubbiamente sbagliato, è convinta di conoscere non solo il perché di tali errori, ma lo stesso animo umano. Per castigare e redimere rinchiude fra quattro mura e in un piccolo spazio aperto per l’aria , circondato da sbarre disumane, colui che ha sbagliato ma non può imprigionare il suo animo, non può togliergli i suoi sogni, la sua umanità. Chi si trova in questa condizione di privazione, spesso è costretto a subire  soprusi da parte di quegli stessi esseri umani messi a sua custodia, che forse hanno dimenticato o non  hanno mai conosciuto il significato di umanità. Ma, proprio in questa situazione, che vuole umiliare la sua dignità, ecco che risorge il suo orgoglio, si manifesta la forza del suo animo.

Anche se privato di tutti gli affetti a  cui è legato riesce a restare aggrappato ad essi con la sua anima, con quell’anima che nessuno può togliergli.

Proprio quando l’essere umano si trova “costretto” a riflettere ed è privato dei più elementari e naturali diritti riesce a vedere la vita con occhi diversi. Si rende conto che è molto complessa, fatta di tanti piccoli attimi, di frammenti buoni e cattivi, che non vanno mai rinnegati, perché la vita è sempre degna di essere vissuta. Scopre allora dentro di sé una grande risorsa perché si rende conto che ha conservato ancora  nel proprio animo sentimenti e ingenuità proprie del bambino.

La vita di oggi porta irrimedia-bilmente a nascondere, quasi a reprimere questa nostra capacità tanto che siamo sempre più cinici, freddi, quasi innaturali. Poi all’improvviso la nostra vita cambia, attimi tremendi e brutali la sconvolgono e allora cerchiamo e riscopriamo il bambino che è in noi.

L’unico capace di restituirci la forza di vivere, il solo che ci permette di gustare nuovamente tutte quelle piccole, semplici, situazioni che prima non riuscivamo ad apprezzare e che ora sono capaci di restituirci il gusto di vivere anche nelle circostanze più difficili e disumane.

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La pace

di Dino Previato

In questo periodo più volte mi sono chiesto ma che cos’è la pace? Sento e leggo, ma mai trovo un termine uguale o comunque un punto di riferimento omogeneo. Per alcuni è una sorta di equilibrio armato per cui con la forza si creano le condizioni per la non aggressione, per altri è la giusta sintonia tra giustizia sociale e ingiustizia legale, per altri il dimostrare con la non-violenza, per altri ancora marciare per le strade per testimoniare con atti ed atteggiamenti il proprio desiderio di pace, per altri rispetto delle regole della convivenza civile, per altri uno stato d’animo che esprime serenità e tranquillità, per altri la continua ricerca di essere in sintonia con se stessi e le regole della legge naturale.

Ma ai  miei figli come debbo rispondere? Certamente è un termine complesso che richiede una pluralità di definizioni per darne un’idea (Sarà forse vero?).

Dall’enciclopedia si apprende che la parola “pace” deriva dal latino “pactum” e nella condizione cosmica ha assunto il significato di sistema di relazioni tra uomini e uomini, tra uomini e dei, in definitiva equilibrio universale fondato sul mantenimento delle relazioni stabilite (“pacta”, i “patti”), quindi oggi assume il significato di:

- armonia, unità di intenti, buon accordo tra due o più persone;

- ordinata coesistenza fra gli Stati (concordia sociale, pubblica tranquillità, assenza di conflitti e tensioni).

La situazione odierna, vista secondo quanto sopra richiamato, attribuirebbe agli Stati Uniti, unica entità politica forte e di riferimento, la giustificazione di portare la guerra contro Saddam, che tali regole non rispetta, con o senza il mandato dell’Onu che alla fine sarebbe una semplice copertura.

E’ lecito chiedersi, tuttavia, ma quante aree di tensione esistono nel mondo, magari anche sollecitate dai poteri forti? quante nazioni non rispettano le norme del convivere civile sia in termini di libertà che di giustizia? Che gli Usa debbono inseguire tutti? Sono esenti le potenze mondiali da questi “peccati”?

Quando Papa Giovanni Palo II parlando al corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede il 13 gennaio si diceva “..impressionato dal sentimento di paura che dimora sovente nel cuore dei nostri contemporanei…” aveva presente il problema non risolto del Medio Oriente, le tensioni in Sud America, i conflitti in cui sono coinvolti numerosi Paesi Africani e che impediscono a questi di dedicarsi al proprio sviluppo, i problemi della fame, i comportamenti irresponsabili che contribuiscono all’impoverimento delle risorse del pianeta e tutti i flagelli che minacciano la sopravvivenza stessa dell’umanità, la serenità delle persone e la sicurezza delle società.

Affermava inoltre che “…tutto può cambiare. Dipende da ciascuno di noi”. Aggiungeva che “Ognuno può sviluppare in se stesso il proprio potenziale di fede, di probità, di rispetto altrui, di dedizione al servizio degli altri”. E dall’alto della sua "autorità morale" da tutti riconosciutagli, davanti ai rappresentanti del mondo ripeteva alcuni imperativi necessari per evitare che popoli interi, addirittura l’umanità stessa, precipitino nell’abisso, ed erano: si alla vita, rispetto dei principi comuni intangibili, dovere della solidarietà, no alla morte, no all’egoismo, no alla guerra.

Semplici parole ma ricche di significato, sulle quali ognuno dovrebbe riflettere ma anche rivedere il proprio atteggiamento. Un “cuore nuovo” non può prescindere da una revisione del nostro modo di affrontare la realtà, e quale realtà!

Oggi con la globalizzazione non esistono più confini e per affrontarla non si può contare solo sulle proprie forze ma essere consapevoli che tutti sono legati nel bene come nel male, cioè esiste una interdipendenza reciproca che lega le varie accezioni di nazionalità e di popolo, per cui i valori primordiali della legge naturale concepiti nel loro valore assoluto devono essere sempre più presenti nei patti che legano uomini agli uomini, famiglie alle famiglie, comunità alle comunità, popoli ai popoli, nazioni alle nazioni, legittimati da un saldo riferimento a forti convinzioni etiche.

In questo contesto la nostra testimonianza diventa il modo per far salire dal basso questa voglia di migliorare il mondo. Infatti in forza di queste convinzioni è possibile rifiutarsi dal compiere atti ingiusti e deviazioni rispetto all’ordine morale della cose e costituiscono un’esigenza basilare per assicurare la pace nell’umanità.

Un semplice gesto di coerenza prima con se stessi e poi con gli altri diventa il fulcro di una nuova stagione. Un contributo per migliorare il mondo.

La disobbedienza civile, il freno ai treni, sono gesti che possono essere giustificati se non sono espressioni di volontà di prevaricazione, ma un utile contributo al bene dell’umanità. Certo sono illegalità che esprimono forse uno stato d’animo contro questa società impazzita e che guarda all’interesse dei potenti, ma proprio per questo un momento di riflessione ritengo debba essere posto proprio per tutelare il futuro dei nostri giovani.

La storia ci insegna che il dopo guerra non è mai tutto eguale a prima, e l’ordine costituito ne risente. Certo le condizioni non sono sempre le stesse, ma una guerra oggi assume connotati diversi e non è detto che il dopo sia sempre lo stesso. Non è l’istinto di conservazione quello che deve prevalere, ma la consapevolezza che l’odio chiama odio, che la guerra non può nascondere i disegni di dominio che l’hanno ispirata. L’11 settembre deve insegnarci che non esiste sicurezza per nessuno quando si semina odio, occorre supplire con l’amore e sacrificando qualche cosa.

Per questo la pace, in tale contesto, deve essere non solo una aspirazione ma il simbolo di una umanità che vuole cambiare e, come in passato non ha accettato la pax romana, oggi non vuol dire accettare la “pax” degli Usa. Sarebbe un equilibrio improprio, fondato su regole imposte e non accettate, ed alla fin fine sarebbero solo “carte convenzionali” il cui valore sarebbe limitato nel tempo.

Occorre un cambiamento radicale di noi stessi, dei nostri comportamenti, dei valori indissolubili che ci qualificano come esseri a cui è stato destinato la tutela ed il governo della terra.

Un cuore rinnovato ed una forte testimonianza nei valori dell’amore e della solidarietà sono il presupposto per vivere una pace vera e duratura.

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Da che parte sto!

di Dino Previato

Il Papa, nel suo intervento al Parlamento Italiano, si è rivolto ad ogni persona e famiglia e a chi ha maggiori responsabilità politiche ed istituzionali avendo come obiettivo l’uomo con tutti i suoi difetti e debolezze invitandolo ad affrontare le difficoltà della vita alla luce degli ideali che gli sono propri. Non si è rivolto alla coscienza individuale, come diversi oggi (politici e non) affermano, anzi ha rivolto un invito a guardarlo nella sua realtà, cioè componente attivo di una società piena di contraddizioni, ed ha espresso la sua idea di società e quali sono le strade per realizzarla avendo presente i valori universali e non solo cristiani.

Ecco perché, leggendo e rileggendo il suo intervento, trovo motivi e sfide che ognuno è libero di accettare o no, ma che è bene non travisare.

Da uomo che ha sbagliato, io, trovo in questa sua lezione diversi motivi per impegnarmi e per fare la mia parte all’interno di questa società e per migliorare il mio essere uomo. E da uomo che ha sbagliato cerco di operare nell’ambiente in cui vivo, consapevole dei miei limiti e difficoltà, ma teso a migliorare me stesso ed incitare a fare lo stesso con i miei simili.

Per questo non mi associo a coloro che plaudono ed affermano di condividere le parole del Papa e ritengono che ad altri spetti il compito di portarli avanti, e che non è compito loro cominciare a fare la proprio parte.

In questo atteggiamento vedo già il definitivo accantonamento e sepoltura del discorso del Pontefice.

Condivido il discorso del Papa non solo come cattolico ma proprio come uomo e mi ritrovo nella sua espressione… “all’occhio del saggio .. l’uomo conta come uomo per ciò che è più che per quello che ha”, e soffro per l’incapacità di poter essere utile.

Riconosco che in questo mi ha dato la dignità di essere uomo, e soprattutto la consapevolezza che anche se debbo trascorrere il tempo futuro rinchiuso nel carcere, nessuno, giudice o no, me la può togliere.

Farò mio il moto, del resto mi ha accompagnato sino ad oggi e mi ha dato serenità, “convivere con l’inevitabile” certo di trovarmi pronto per ogni evenienza, anche affrontando tutti coloro che vedono in noi detenuti i rifiuti della società. D’altra parte, in nome della certezza della pena, questo è la considerazione e la linea interpretativa che questa società ci offre.

Oggi purtroppo, davanti a noi detenuti, alla luce dei diffusi stati di insicurezza personale, mitizzati nella certezza della pena, resta solo quello di tornare ad essere cittadini “normali” e se, in assenza di una famiglia che accolga, (caso sempre più attuale), magari finire di vivere da barbone o/a morire sotto un ponte o in alternativa ritornare nuovamente in carcere.

Il marchio del carcere resta sempre, è indelebile e rappresenta un biglietto da visita che segna per tutta la vita, incute timore e preoccupazione e ci qualifica come esseri umani da emarginare.

Purtroppo il Carcere è il contenitore di tutti quei problemi che la società civile non vuole vedere e tanto meno sentire, né parlare, è una barriera tra chi è considerato per bene e chi è un pericolo per la società.

L’emotività popolare ce lo insegna quotidianamente, Infatti, quando qualcuno uccide barbaramente a sangue freddo e senza plausibile motivo un capofamiglia indifeso, se non addirittura i propri genitori, i figli, la colpa è del detenuto che magari oggi ha il coraggio, meglio la sfrontatezza di richiedere l’applicazione di un atto di clemenza o delle leggi che non garantiscono la certezza della pena.

Ci saranno anche delle vere ragioni in questo atteggiamento, ma a me pare un ragionamento troppo semplicistico. Quante volte ci siamo chiesti se questi atti sono insiti nel gene umano o sono i frutti di questa società malata che ha perso di vista, in nome del proprio status-simbol, i valori che dovrebbero animarla. Si è cercato sempre la via più breve.

Questo sono le scelte che la società civile impone a noi detenuti in nome della “certezza della pena”, per cui condivido quanto scrive un mio collega detenuto "a nessuno piace stare in carcere, neppure chi ci lavora, ma sono convinto che inconsciamente questo"  è un ambiente di protezione, sì ma dalla profonda ipocrisia che anima questa società, dove conta solo quello che appare e deve essere in linea con i modelli che il consumismo ci propina.

Nella mia piccola esperienza mi sono accorto di due fatti fondamentali, come è cambiata la società anche la popolazione carceraria è mutata e questo nell’arco di quasi dieci anni.

Infatti ieri il recluso aveva connotati diversi da quelli odierni. Ieri infatti si trattava di furti, rapine, atti di violenza sessuale, cioè delitti cosiddetti “comuni” già assorbiti dalla società, oggi si nota la forte presenza anche se differenziata di colletti bianchi, di appartenenti alla criminalità organizzata, di tossicodipendenti, di extracomunitari. Il carcere presenta problematiche e connotati culturali e sociali diversi, una società interrazziale globalizzata per usare termini in voga.

Ed in questo contesto si pone il problema del volontariato in carcere.

Visto dall’interno tale presenza rappresenta ancor oggi una pausa di pace, un momento di tranquillità che aiuta a superare le difficoltà e le esasperazioni della vita di rinchiuso.

Quante volte ho atteso il volontario del lunedì per avere la possibilità anche di un solo scambio di opinioni o anche solo per due chiacchiere in libertà. L’ho sentita questa presenza molte volte liberatoria e ne ho tratto quegli elementi che mi hanno consentito di sopportare con tranquillità il peso della galera per altri otto giorni.

Questo per dire di quanta rilevanza assume nel ritmo quotidiano della vita in sezione stabilire un contatto con qualcuno che non sia il rappresentante dell’istituzione.

Sono convinto che al detenuto offrire un momento di attività e stimolarlo affinché partecipi attivamente e si impegni significa alleviare e rendere accettabile la detenzione. Anche se questa attività del volontariato è preziosa non può essere l’unica e sarebbe una diminutio della persona che vuole assistere il condannato.

Per cui i cineforum, i corsi di percussione, la scuola, la presentazione di libri da parte degli autori, sono iniziative lodevoli e significative, ma tendono solo ad alleviare l’asprezze del carcere.

Nello spirito della legislazione vigente ben altri sono gli spazi che il volontariato ha a disposizione, proprio partendo dal presupposto che l’amministrazione penitenziaria non è in grado, non per colpa dei singoli operatori, ma proprio per la sua conformazione strutturale, di affrontare tutti gli aspetti che una politica della rieducazione e del reinserimento richiede.

Oggi la stessa collaborazione offerta per i programmi trattamentali, che per un verso danno spessore all’attività del volontario, anzi lo qualificano, risulta essere a fasi alterne e soffre delle difficoltà legate all’incertezza dell’applicazione della norma, dall’altra evidenziano ed in termini operativi risaltano le carenze dell’amministrazione penitenziaria.

Credo che il problema reale stia in questo: il permanere di un retaggio storico legato alla convinzione della preminenza dell’azione custodialista su quella rieducativa mirata al reinserimento, e l’applicazione della stessa legislazione ne risente.

Questo prevalere della mentalità custodialistica si nota anche nelle piccole cose, che incidono profondamente nell’attività individuale. Cito un esempio, fare la doccia in orari diversi da quelli stabiliti e che valgono per tutti, è un problema di ordine organizzativo che tocca la sicurezza dell’ambiente carcerario, così settorializzato ed impostato sul dogma della sicurezza. A volte viene risolto dalla sensibilità degli operatori e altre volte occorre burocratizzarlo mediante la solita “domandina”.

A volte contribuisce a questo sia il comportamento del detenuto ma anche da non sottovalutare l’intervento e le decisioni della Magistratura di sorveglianza. Quante volte si sono registrate tali difficoltà che frenano l’azione dell’educatore e del volontario, questo per limitarci solo ai rapporti interni tra le realtà che operano nel carcere, i detenuti, i volontari e gli operatori.

Scrive Celso Coppola nel libro ”Non solo carcere” – la popolazione del carcere è così cambiata: da una massa quasi indistinta di condannati per reati “comuni” a una folla differenziata di colletti bianchi, appartenenti alla criminalità organizzata, di tossicodipendenti, di extracomunitari ed il vecchio modello uniformatore e meramente custodialista non era, e non è, più sufficiente a far fronte questo cambiamento qualitativo, prima ancora che quantitativo, per questo necessita per tutti gli operatori volontari o non accostarsi con iniziative e metodi diversi - .

Recita l’art. 27 della Costituzione : "le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e debbono tendere alla rieducazione del condannat”. Per molti decenni questo importante principio è rimasto una semplice enunciazione. Ha cominciato i primi passi attuativi, dal punto di vista legislativo, solo dal 1975 con l’approvazione del nuovo ordinamento penitenziario e si sono visti passi avanti con la legge “Gozzini”.

Con tali leggi è stato archiviato il vecchio Regolamento del ’31 e si sono inserite novità sostanziali, quali l’individualizzazione della pena, lo studio della personalità del condannato, il trattamento dello stesso, le misure alternative e si sono istituiti i ruoli di operatori tecnici, quali gli assistenti sociali e gli educatori.

Con quest’ultima legislazione il carcere è stato aperto anche al volontariato  e nel Regolamento d’esecuzione il volontariato è stato posto in condizione di operare, non solo in termini assistenziali ma collaborare con i centri di servizio sociale parificando gli operatori professionali e quelli volontari.

Questo avrebbe dovuto mutare le condizioni del detenuto, specialmente nel nostro carcere, di piccole dimensioni e se vogliamo più simile ad un convitto che ad casa di reclusione, con condannati a pene limitate nel tempo e dove, in condizioni ottimali, avrebbero potuto trovare applicazione le nuove norme regolamentari. Purtroppo le cose così non sono.

Oggi si avverte una profonda lacerazione tra le istanze di trattamento e di reinserimento, le opposte istanze di sicurezza e di punizione e quelle centrate sul “garantismo” cioè sulla tutela dei diritti del cittadini di fronte all’azione penale.

Tre istanze tutte legittime, ma il cui intersecarsi con i diffusi stati di insicurezza nazionale ed i polveroni emotivi determinano difficoltà crescenti al sistema penitenziario ed a coloro che ci vivono in restrizione.

Difficoltà che non accennano a diminuire, sia perché la popolazione detenuta è in costante crescita ed il problema del sovraffollamento diventa sempre più pesante e pieno di incognite, maggiormente se pensiamo che queste stanno assumendo carattere strutturale giacché il fenomeno è destinato a mantenersi costante nonostante le oscillazioni, ma anche perché l’applicazione della norma più avanzata, in questo contesto, segna il passo, non solo per la carenza di risorse ma anche perché è gestita come da routine quotidiana, frutto del diffuso senso di insicurezza che è proprio della nostra società.

Un secondo aspetto che determina delle difficoltà è la necessità del ristoro alle vittime del reato. Anche qui vi è un diffuso equivoco, come ritenere che l’espiazione della pena, non sia un modo per riparare al danno creato, se si deve aggiungere anche il ristoro del danno, il detenuto deve essere considerato l’eterno dannato e come tale sarà costretto a ripetere il reato.

Mi rendo conto che l’ansietà di avere giustizia da parte della vittime sia legata alla condanna e quindi alla certezza dello scontarsi di essa. Ma vedersi restituito il danno diventa problematico. Un ricco difficilmente va e resta in prigione, anche se si tratta di un reato accertato e provato. Il povero ed il debole purtroppo non possono godere di questa possibilità e tante volte l’unica scappatoia è rappresentata dal chiudere rapidamente l’iter processuale. Non va sottaciuto che tutto questo porta maggiori sofferenze ai detenuti, che avvertono il tutto come una ulteriore condanna oltre a quella richiesta di scontare la pena.

Davanti poi a tante diversità di approccio ideologico e culturale al problema penitenziario, non va sottaciuto le diversità di giudizio e di trattamento che si registra sia nella magistratura ordinaria che di sorveglianza, sia negli operatori, se poi confrontate con le vistose differenze applicative a livello regionale, ci si rende conto di come sia più facile rifugiarsi in una routine gestionale il più cauta possibile, perciò la soluzione più confacente appare quella della chiusura a tutte le innovazioni.

Fra di noi detenuti vi è la convinzione che invece di sottostare all’attuale struttura di sorveglianza è preferibile trovarsi in altri posti, non perché l’erba del vicino è sempre la migliore, ma per l’applicazione che viene fatta delle norme.

Quante volte ho sentito dire (cito una località a caso) … se fossi a Persiceto oggi sarei a casa, si perché lì il Magistrato se sei sotto i tre anni ti manda ai servizi sociali… Oppure da altri detenuti in via di passaggio, da noi solo coloro che hanno pene superiori ai tre anni sono in carcere …

In un testo che ho letto in questi giorni ho trovato la conferma, infatti si affermava che nell’applicazione della norma diverse erano le interpretazioni. Nella nostra Regione la cauta applicazione delle norme, non è ispirata alla verifica dei risultati raggiunti col programma trattamentale previsto, ma bensì dalla durata della pena, meglio da quanto resta da espiare.

Ritengo che sia più saggio allora garantire un percorso rieducativo in cui siano presenti le varie mete prefissate. Cioè esempio a tre mesi si applica l’art. 21, ad otto la semilibertà, e la libertà certamente a pena scontata, ma se ti sei comportato bene può essere che tu esca prima, nel frattempo devi dare dimostrazione di aver capito l’errore commesso.

L’azione del volontariato in questo contesto si limita all’assistenza e viene confinata al fatto di alleviare e rendere meno dure le condizioni del detenuto, sono strette, non so se dalle regole e norme o più per lo spazio “gestionale” che possono prendere.

Di tale stato di cose posso essere testimone, infatti quando la direzione, non so se per scelta o precisa volontà, si ispira al trattamento ed al reinserimento sociale dei condannati, gli spazi del volontariato aumentano, quando invece, o per fatti interni o per le difficoltà insite nel sistema penitenziario, si caratterizza nella direzione la custodia e/reclusione gli spazi del volontariato si restringono se non addirittura si annullano.

Ora se il fine della pena è il reinserimento tante cose debbono essere riviste nell’organizzazione penitenziaria e forse in questo è utile il volontariato.

Il volontario rappresenta anche il territorio, il “fuori” del carcere, l’anello di congiunzione da cui il detenuto a fine pena deve passare se non vuole sentirsi sbattuto all’esterno ed iniziare una nuova trafila, conscio che se manca l’aggancio con il territorio (famiglia o gruppo di operatori) sarà ancora costretto per vivere a delinquere.

Lo spazio del volontario sta proprio nell’affermazione "accompagnare il detenuto dal periodo di osservazione inframuraria sino all’inserimento nella società".

E’ una sfida rilevante ma che può dare soddisfazione. Dovrebbe essere questo anche un impegno dell’amministrazione penitenziaria ma pone a rischio se stesso e la struttura, il coraggio non sempre esiste.

La prospettiva però è una visione diversa del mito “certezza pena” e delle sicurezze determinate dalla custodia.

Trasformare il carcere da momento esclusivo di reclusione a momento attivo dei progetti di reinserimento significa vivere il carcere in maniera diversa, significa essere capaci di diventare elemento attivo della società ed allora le risorse risulterebbero ben spese.

In questo contesto il volontario può diventare la mano lunga della società civile ed il carcere una realtà viva e centrale nella vita di un territorio e la sua funzione, non sarà quella di essere citato solo esclusivamente sottovoce, ma bensì un luogo da dove partono uomini consapevoli degli errori commessi ma in grado di essere ancora attivi per la società.

Prendono senso allora i circuiti differenziati e i progetti mirati, diventano una risposta in cui l’univocità di indirizzi tra custodia e trattamento individualizzato danno risultati e soprattutto contribuiscono anche a limitare il sovraffolla-mento nelle carceri ma soprattutto ricavarne per la società anche quel ritorno quanto mai doveroso.

Verificare queste esperienze, analizzarle per migliorarle, adattarle ai bisogni dei vari gruppi sociali che costituiscono la popolazione detenuta, magari aprendoli, secondo le necessità ed i bisogni ed i gradi di apprendimento ad iniziative sul territorio, può consentire di guardare allo sfollamento degli istituti con minore preoccupazione ma con certezza di aver ridato alla società un suo elemento attivo.

E' da sottolineare infine, e non sarà mai a sufficienza, l’attività meritoria del volontariato, non solo per la continua e preziosa presenza, ma anche per l’attiva azione di sensibilizzazione effettuata sull’opinione pubblica e su tutto il territorio, e vi posso dire che non è poco, ed è notevolmente apprezzata all’interno della casa circondariale di Rovigo.

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Lettera al Presidente
della Camera dei Deputati

 

On.le Signor Presidente,

Ella sta per dare inizio ai lavori camerali conclusivi inerenti alla proposta di legge che a noi si è resa nota come “indultino”.

Noi sottofirmati nella presente, siamo alcuni dei reclusi presenti nella Casa Circondariale di Rovigo.

Come logico presupporre la legge in Vostro esame sarà destinata a dover incidere nelle nostre situazioni personali relative al nostro stato di reclusi; ragione questa che ci porta a voler esporre alla Vostra istituzionale conoscenza alcune nostre considerazioni nel merito della legge che è in sede di discussione parlamentare.

Partiamo nella nostra esposizione da una scontatissima premessa: “ Ogni legge che porrà in essere nei nostri confronti una riduzione di pena, porterà sollievo nelle nostre vite e ci sarà luce di speranza nel concludere il nostro recluso cammino”. Ciò comunque non esclude che le nostre aspettative positive possano essere contestuali a negativi giudizi riguardanti le molte incongruenze presenti nella legge in sede di esame e che la stessa possa essere ingiusta ed irrispettosa nei nostri confronti.

Ella voglia prestare cortese attenzione ad alcune nostre considerazioni:

- la legge in discussione trova i suoi natali come possibile “misura di clemenza” per alleviarci il sovraffollamento, il disordine ed il disagio presente oggi nelle carceri. Ci chiediamo se è decoroso che uno Stato, irrispettoso ed insolvente nei confronti delle stesse sue leggi regolamentatrici della vita nelle carceri si possa anche arrogarsi la presunzione di voler essere clemente. Ovviamente riteniamo che prima di voler essere clemente,dovrebbe essere rispettoso e solvente verso le sue stesse leggi. Nell’impossibilità di esserlo,dovrebbe ricorrere a misure atte a sanare (sanatoria) le situazioni. La clemenza potrà essere solo un passo successivo; ed allora si, ricco di valori di umanità elargibile.

- Individuiamo l’insolvenza dello Stato nel mancato rispetto e/o attuazione del Nuovo Regolamento Penitenziario del 2000: la distribuzione pasti in appositi refettori, ridimensionamento delle cucine per il servizio di un numero non superiore di 200 detenuti, acqua calda e docce nelle celle, la possibilità di utilizzo di apparecchi elettrici nelle celle, la possibilità di comando di punti elettrici-illuminazione dall’interno delle celle, lavoro – borse lavoro che agevolino il reinserimento esterno, lavoro per tutti i reclusi, studio – borse di studio che consentano la possibilità di indirizzi solidi, sanità, vuoto legislativo aggravato da inadeguata disponibilità economica, vestiario, dovrebbe essere fornito, ma ciò non avviene.

- I detenuti non vivono la loro reclusione nei tempi e noi modi ordinati dalla legge e se anche il nuovo regolamento concede una deroga applicativa fino al 1° gennaio 2005, non si notano in atto i lavori che lo renderanno applicato nei tempi prescritti e comunque il Regolamento è già legge dello Stato, la deroga applicativa solo eccezione. In contrapposizione sentiamo i continui tagli nei bilanci destinati alle carceri. Ci chiediamo cosa succederà a noi nel 2005?

- Nel nominare il lavoro evidenziamo ulteriormente che sussiste anche un vuoto legislativo successivo all’abrogazione (Corte Costituzionale 10 maggio 2001) del 16° comma dell’art.20 Ord.Pen. L’equiparazione e la retribuzione del lavoro svolto dal detenuto pari al lavoro svolto da ogni cittadino sono stati riconosciuti nel rispetto costituzionale, ma poi non sono più stati articolati nell’Ordinamento Penitenziario in modo da poter risultare effettivi.

- Se non verranno prima sanate queste situazioni, noi sottofirmati reclusi di Rovigo, riteniamo che lo Stato non è nelle condizioni di potersi ergere in azioni di clemenza che non sono specificatamente chieste dai detenuti, i quali chiedono invece giustizia e protezione allo Stato. Giustizia e protezione richieste anche in difesa da applicazioni indiscriminate della “custodia cautelare” visto che buona parte di noi non è in espiazione di pena, ma in esecuzione di provvedimenti restrittivi delle libertà personali.

- La legge che ci è nota come “Indultino” da noi viene anche valutata nella sua precipua sostanza. Pur non avendo la presunzione di esprimere a riguardo della legittimità costituzionale della stessa, da nostro esame emerge che vi sono punti di contrasto con le leggi già esistenti e con la Costituzione stessa.

Alcuni punti da noi analizzati:

- L’Indultino essendo operante in sede di esecuzione penale e non una mera riduzione della pena, ogni preclusione temporale presente in esso,  di fatto, pone in essere disparità di trattamento esecutivo tra chi ha compiuto il proprio reato antecedente-mente il 31dicembre 2000 e chi lo ha fatto posteriormente a questa data. Questa non può essere considerata una preclusione soggettiva, bensì oggettiva, dunque preclusione che è vietata, per la propria sostanziale diversità applicativa in sede esecutiva, anche dalla Costituzione.

- Altra situazione di incongruenza la individuiamo nella determinazione che indica l’indultino applicabile solamente a chi è detenuto, dunque sottintende che per beneficiarne necessità l'instaurarsi del rapporto esecutivo della detenzione. Attualmente questo rapporto esecutivo è normato ex art. 656 c.p.p.,cosi come modificato dalla legge Simeone-Saraceni e in questo rapporto esecutivo sono previsti i tempi e i modi delle misure alternative alla detenzione e della sospensione pena. L’approvazione dell’indultino porrebbe in essere modi esecutivi diversi e contrastanti tra i “pre” 31 dicembre 2000 ed i “post”. Si ripetono le considerazioni già fatte in relazione alla liceità costituzionale di  questa legge.

- L’esecuzione penale per chi soffre detenzione relativamente a  problemi di tossicodipendenza viene demandata dall’art.656 cod. proc. pen. alla L.309/90 per l’assunto giuridico che il recupero del reo attraverso l’espiazione della pena non prevale sulle necessità curative dello stesso. L’indultino non si pone questo problema-necessità. Da qui la nostra sottolineatura di un nuovo possibile caso di illiceità costituzionale o di vuoto regolamentativo della Legge. Comunque è evidente anche in questo caso una disparità di trattamento esecutivo tra chi è tossicodipendente ”pre” 31 dicembre 2000 e chi “post”. L’indultino vuole essere una sospensione condizionale della pena che si applica agli ultimi tre anni della pena da espiare se risulta scontato almeno1/4 della stessa. La sospensione condizionale della pena attualmente viene normata dall’art.163 del cod. pen. L’indultino se verrà spogliato delle sue preclusioni temporali potrebbe venire ottimo sostituto dell’art.163 cod. pen. ovvero integrarsi ad esso arricchendolo e completandolo ottimamente.

- Ci sottofirmiamo ribadendo e riassumendo la nostra contrarietà a chi parla di misure di clemenza in nostro favore, quando constatata la realtà delle carceri e l’incapacità dello Stato di por rimedio nel rispetto di ogni legge vigente, sarebbe più decoroso e opportuno parlare di una legge atta a sanare la situazione che vede noi principali attori non protagonisti. Ci siamo presi la licenza di formulare anche delle considerazioni sulla sostanza della legge ”indultino”, ben sapendo di non essere giuristi e nemmeno degli esperti, comunque confidiamo che siano considerate e non derise. Cogliamo l’occasione per ringraziare della cortese attenzione accordataci e per porgere deferenti ossequi.

I reclusi presenti nella casa circondariale di Rovigo.

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Natale in carcere

di Maria, Patrizia, Ines

Natale in carcere… siamo qui sedute attorno a un tavolo, il tema di quest’articolo ci lascia senza parole…o meglio non sappiamo cosa scrivere, ci sarebbe così tanto da raccontare sul Natale. Quello di quando eravamo bambini, il Natale trascorso con la nostra famiglia, il Natale vissuto in libertà…luci, canzoni, colori, il freddo, il calore di un camino acceso… Qui niente di ciò che ci circonda ce lo ricorda, il Natale è difficile sentirlo arrivare, tanto siamo “occupati” a pensare alle nostre famiglie, a ciò che ci è accaduto, a come trascorriamo il nostro tempo, a noi stessi…Ma ecco che è il carcere stesso a farci ricordare che c’è, quasi come, anche questo fosse un comando. Gli agenti ti dicono che si deve preparare l’albero, il presepio…chissà, forse dipende anche un po’ dalla compagnia, dall’atmosfera che si vive in un certo carcere, a volte il Natale in questo modo quasi lo si sente davvero…ma come sarebbe bello poterlo trascorrere mangiando tutti insieme, magari un pasto diverso dagli altri giorni, la sola fetta di panettone, perdonateci, non basta….Qui a Rovigo il giorno di Natale ci sarà il Vescovo a celebrare la S.Messa del pomeriggio, per tutte noi sarà una gioia partecipare, anche per chi non è cristiana, chissà se sentiremo all’ora che è Natale! Il Natale arriva negli ultimi giorni dell’anno, per noi vuol dire che un nuovo anno sta iniziando, che finalmente uno è finito, che la pena sta giungendo al termine…solo fuori lo festeggeremo, ecco che allora il giorno di Natale si trasforma in speranza.

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En fede

di Mohamed Abdel Hamid

Ho trentatrè anni, sono algerino. Da diciotto anni sono fuori dal mio Paese, ero minorenne quando sono arrivato in Italia. Sono fuggito dall’Algeria perché c’era e c’è ancora la guerra civile. Ho sofferto tanto e sono stanco di tanta sofferenza.

Siamo nel 2003: com’è possibile che ancora ci sia la guerra in tutto il mondo? Per fare la guerra servono tanti soldi, l’America per esempio spende ogni giorno 300 milioni di dollari in guerra e nel mondo c’è chi continua a morire di fame e mancano le medicine. Noi preghiamo Dio e anche il Papa per fermare quella maledetta guerra.

Perché accrescere solo l’odio fra di noi, nell’umanità, è giusto?

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Tossicodipendenza

di Patrizia Bocchi

Bhe, arrivata a questo punto che dire… Ho voluto continuare a giocare e giocando a sclerale e sclerando a impazzire fino a giungere qui: in carcere in ogni senso, partendo dalla mente! E mentre il tempo scivola lentissimo fuori dal corpo, dentro l’anima risuona l’eco del mio strazio e non esiste più spazio. Sono stretta e costretta in questa miserabile realtà di pentimenti e pagamenti. Vani i tanti detti liberatori, i getti e i rigetti della proprie sensazioni… forse tutto sarà solamente vano! E sono qui all’inferno e penso a tutti noi, a tutti voi… vedo la realtà e vorrei fosse una bugia, un incubo… ma non mi sveglio mai!

Riesco a toccare la solitudine che mi avvolge ma non riesco a riempire il vuoto che è dentro me! Ho la mente e il cuore frammentati in mille pezzi e non so cosa fare di me stessa! … Guardo il cielo che da qui dentro, è una scacchiera ed io gioco, ancora gioco e soffro, soffro e gioco, gioco soffrendo e soffro giocando! Chi vincerà questa partita se non la vergogna ?!

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Il corso di teatro

di Juan Carlos Dominguez Sanchez

In realtà io non avevo mai fatto teatro, conoscendo però il significato del termine. All’inizio del corso ero un po’ in imbarazzo, non sapevo come fare l'attore, però piano piano sono andato avanti. Con il corso ho imparato qualcosa come stare in compagnia con tutti i ragazzi, guardando loro ho preso coraggio e ci sono riuscito.

L'attività si tiene ogni sabato dalle dieci alle dodici. Si impara a fare teatro perché gli insegnanti sono veramente bravi, e poi serve tantissimo per uscire dalla routine del carcere, intanto fai un'attività e mantieni la testa occupata. Io in particolare faccio tutti i corsi perché mi interessa imparare, per comprendere meglio ciò che serve nella vita e nel mio futuro. In pratica il teatro è un esempio di quello che non capita a noi nella realtà della vita. Recitare una parte ti aiuta a comprendere molte cose e anche a sognare un tipo di vita che quasi sicuramente non avrai l'opportunità di sperimentare. Il teatro è bello perchè è uno specchio della vita, nei suoi difetti e nei suoi pregi. Mette a nudo, spesso, le nostre difficoltà umane, le isterie, le contraddizioni, le povertà degli esseri umani. Con i sentimenti, gli egoismi e tutto quello che condisce le giornate degli uomini e delle donne. A noi reclusi ci aiuta in qualche maniera ad "evadere".

Al corso di teatro partecipano in totale una decina di ragazzi, puntuali tutti i sabato. Qui nel carcere di Rovigo i nostri insegnanti si attivano per far capire a noi che cosa davvero significa teatro. Il corso di teatro si svolge all'interno di una saletta, in quanto la struttura non ha spazi adeguati per queste attività e bisogna accontentarsi. Stiamo preparando uno spettacolo che forse alla fine di maggio o all’inizio di giugno potremo mettere in scena. Lo costruiamo insieme ai nostri registi e insegnanti, Simone e Michele. Per Simone è un'esperienza che ormai va avanti da circa quattro anni, e in precedenza l'aveva portata avanti con Sara. Dallo scorso anno invece è subentrato Michele.

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Lettera ai miei cari

di Antonio Sticcati

"Non è sicuramente con il carcere che l'individuo si rimette sulla retta via" è la frase emblematica di questa lettera che parte dalla cella del carcere per arrivare ai familiari. Un'affermazione per molta parte della società difficile da comprendere ma profondamente vera!

   Carissimi,

spero che G. non si sia arrabbiato troppo, se l’ho preso un po’ in giro nell’ultima lettera. L’ironia e la sua accettazione è il sale dell’intelligenza, perché smitizza l’orgoglio personale,riporta a terra la presunta superiorità sia di chi è colpito, sia di chi la usa.

L’importante è che non si ferisca per cattiveria voluta e la mia non lo era. Sono felice per te, e per le tue doti, che dimostri sia negli svaghi, che negli impegni universitari. A proposito, bravo  per il 30 nella tesina, non ti smentisci mai. Ti allego, per la tua maggiore conoscenza, un articolo su un designer tra i più famosi.

Anche a L. un bravo, sia per aver dato un esame difficile, sul cui esito non avevo dubbi, sia per aver mantenuto un ruolino di marcia da carro armato.

Ho trovato in cella, che stiamo pulendo a fondo, una cartolina scritta in arabo, che tu stai imparando, e te la allego  per un tentativo di traduzione, Indubbiamente è una lingua graficamente armoniosa, senza le asperità dell’italiano; pare la trasposizione in lettere dei geroglifici egiziani, splendidi nella loro fluidità, se tale armonia, fosse anche parte integrante della religione e comportamento sociale degli arabi, il fondamentalismo islamico avrebbe poco terreno fertile, ed il mondo intero avrebbe prospettive più tranquille di pace e di coesistenza pacifica.

Cara L. grazie di aver ritirato il documento, che finalmente ristabiliscono un po’ di verità, sino ad oggi a me negata.Come dice Pirandello, la vita è piena di infinite assurdità, le quali sfacciatamente non hanno neppure bisogno di pareggi verosimili, perché sono vere!

Speravo di leggere il pro-forma dell’articolo che hai predisposto per il giornale sull’intera vicenda. Sono comunque tranquillo su di te e sul tuo equilibrio, che, nonostante tutto e tutti , non è mai mancato. Un grande abbraccio per un’enorme stima che ho per una madre e moglie tenace, che lotta fieramente per ristabilire la verità e mantenere unita la famiglia. Anche se non è nel tuo carattere esprimere a parole i tuoi sentimenti, sono sicuro che mi vuoi bene, ed io te lo dirò ogni volta che posso!

Sto facendo, durante le lunghe, solitarie notti di dormiveglia, piani lavorativi per il futuro, ormai vicino, di libertà.

Non capisco come Dio ci abbia potuto combinare questo scherzo tremendo; evidentemente era occupato in faccende più importanti. Comunque, dillo alla zia, non mi è crollata la fede, che invece mi ha fatto compagnia anche in questo anno di carcere, inutilmente sottratto alla mia famiglia ed alla mia vita.

Indubbiamente ho sbagliato, ma non è sicuramente con il carcere che l’individuo si rimette sulla retta via, anche perché non c’è alcun aiuto in tal senso dalle strutture, teoricamente preposte, ma in realtà inesistenti. Non c’è nessun rapporto umano, nessun tentativo, esterno a te stesso, che agevoli la rivisitazione dei tuoi errori. E chi nella vita non li ha fatti?

Non ho dubbi che avremmo tempi migliori e che Dio continuerà a vegliare su tutta la famiglia, e ci ricompenserà per gli enormi sacrifici che abbiamo sino ad oggi fatto insieme, nel nome di una giustizia non più fallace come quella terrena.

Buon lavoro, buoni studi e tanta felicità.

Bacioni, bacioni, bacioni.

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Guerra

di Gregorio Princivalle

Vorre lasciare delle mie idee in base a come sia stata costruita questa guerra . Premetto innanzitutto che sono contro la guerra . Sono un pacifista.

Innanzitutto non riesco a capire perché l?Europa non si sia stretta in una morsa per poter lasciare spazio all’ONU per continuare le ispezioni in Iraq per lo smantellamento delle armi di distruzione. Si sa che Saddam è un gran dittatore e per la sua grandezza di orgoglio insensato ha ucciso e tenuto la sua gente al culmine della fame per anni.

Forse la diplomazia mondiale in più di dieci anni non ha fatto certo un lavoro ben appropriato per far capire a Saddam di smantellare le armi di distruzione chimiche. C’è anche la possibilità che Saddam nonostante appelli ed altro avesse già la decisione di non disarmarsi  per qualche altra distruzione di massa come ha già fatto ai Curdi . Proprio per questo l’ONU doveva essere più prodigo in questi dieci anni e con diplomazia far ragionare Saddam in maniera totale per non arrivare a questa guerra.

Ora che sto scrivendo la guerra è già iniziata e in sincerità non so come andrà a finire, spero nel miglior modo possibile, con minor persone che lasciano le loro famiglie da ambo le parti.

Poi in realtà non si è ancora capito se questa guerra è stata veramente per lo specifico Saddam, e questo potrebbe essere un bene,o la guerra è stata fatta per altri motivi politici o onerosi come il petrolio? Oppure per altro?

Ora si può solo sperare che con il minor danno venga preso Saddam e venga uniformato un paese democratico per poter avere un più buon colloquio da parte della diplomazia europea e mondiale e dare supporto al popolo e soprattutto ai bambini iracheni.

Poi ci sarebbe l’altra faccia della medaglia; se non si riuscisse a catturare Saddam e figli? Forse veramente sarebbe una catastrofe mondiale per rabbia,per ritorsione, per politica e non dimentichiamo il terrorismo.

A questo punto si potrebbe spaziare all’infinito ma dentro al cervello delle persone non ci si può entrare per capire realmente il perché di tutto quello che succede attorno a noi. Sarebbe un infinito punto di domanda da parte di tutti i politici del mondo visto che pendono le nostre vite da loro. Infatti abbiamo le prove sotto i nostri occhi sia per la guerra sia per la politica interne italiana  che non riescono a mettersi d’accordo in nessun argomento specifico cominciando dalla giustizia per andare a finire al più piccolo e semplice argomento venga proposto. Allora io dico: non è meglio farci un esame di coscienza tutti in generale e pensare che forse le guerre interne o esterne che siano è anche un po’ colpa nostra.

A me sembra che a questo punto giustamente guardiamo al di fuori di quello che sta succedendo, ma non guardiamo noi stessi e i problemi interni, ma a noi italiani ci interessa più guardare la pagliuzza che ha nell’occhio l’altro e non la trave che abbiamo nell’ occhio nostro.

Se in tutti i popoli del mondo avessero dei politici seri, giusti, comprensivi e adatti a fare veramente i politici, io penso non ci sarebbero guerre, dissensi da parte di nessuno, bianco o nero che politicamente sia. Anzi più lavoro meno criminalità per tutti. Ma per fare questo bisogna dare la possibilità alle famiglie di vivere in un contesto adeguato finanziariamente, che possano vivere in serenità. Il contrario di quello che esiste ora che una famiglia con due stipendi non riesce a sbarcare il lunario. Ovvio che poi ci sia amarezza, litigi, separazioni e una diffusa criminalità piccola o grande che sia. Leggendo sembra sia andato fuori argomento parlando di guerra ma non è vero perchè anche noi in Italia abbiamo la nostra piccola guerra che serpeggia per il malcontento di tutti gli italiani.

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