«Prospettiva Esse – 1999 n. 4»

Indice

  1. PERIODICO AD USO INTERNO DELLA CASA CIRCONDARIALE DI ROVIGO
  2. Giustizia con gli occhiali (Mario C.)
  3. Proposte
  4. Intervista al volontariato
  5. Amicizia (Wahi A. B.)
  6. Sanità
  7. L’utopia (Mario C.)
  8. Falso (Paolo C.)
  9. Intervista all’operatore
  10. Intervista al cappellano
  11. Lettera dalla libertà (Edmund B.)
  12. L’aggressività in carcere (Pierangelo C.)
  13. Libertà (Pierangelo C.)
  14. Contatti con il mondo esterno (Mario C.)
  15. La lotta (Ulisse)
  16. Silenzio (Mario C.)
  17. Rovigo (Pierangelo C.)
  18. Braccialetto elettronico 1 (Mario C.)
  19. Braccialetto elettronico 2 (Antonio C.)
  20. Emergenza criminalità (Mario C.)
  21. Alla signora Ministro degli interni (Roberto G.)
  22. Voli di dentro (poesie e quant’altro)
  23. Lettera a…

 

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PERIODICO AD USO INTERNO DELLA CASA CIRCONDARIALE DI ROVIGO

 

Siamo in questo silenzio forzato che ci separa dalla società. Cerchiamo di comunicare con il nostro giornalino, accostandoci ad essa tramite gli articoli, i commenti e le testimonianze.

Stiamo vivendo gli ultimi scorci del secolo, il 2000 è alle porte.

Cosa ci aspettiamo dal nuovo millennio? Si parla tanto del Giubileo e di giustizia, una occasione importante per ricordare che anche noi detenuti siamo fratelli di questa società.

Dio è presente sia dentro che fuori delle mura, Dio è comprensibile per tutto il genere umano. Crediamo sia il pensiero più bello ed emozionante per cogliere il senso di sentire e vivere questo anno affidando a Dio il nostro cammino.

A volte piano, talvolta irto, trovare il senso della quotidianità per il detenuto costretto a vivere nel grigiore di una cella è particolarmente difficile.

Il perdono di Dio è assicurato, anzi lo chiediamo tutti, ne abbiamo bisogno per non ricadere nel baratro che ci ha portato in errori di cui ora stiamo pagando la pena.

Il Giubileo si vive come “anno di grazia” di Dio, di speranza. Noi detenuti ci rivolgiamo al nostro Vescovo Martino che faccia da intermediario con il Santo Padre affinché interceda con lo Stato Italiano in favore dei detenuti.

Dio perdoni i nostri peccati, lo Stato sia indulgente con un atto di clemenza. E’ un evento di particolare importanza che deve servire a non spegnere il piccolo fuoco dei nostri cuori.

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Giustizia con gli occhiali

di Mario C.

Per l’emergenza criminalità lo Stato fece ricorso, come il legislatore lo definisce, al “collaboratore di giustizia”, colui che dopo aver commesso delitti aberranti e brutali (omicidi, sciogliere un bambino nell’acido, etc.), si adopera concretamente per evitare che altre attività delittuose abbiano ulteriori conseguenze, ovvero aiuta l’autorità giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la cattura degli autori dei reati.

Per questi collaboratori di giustizia i benefici sono: congrua riduzione della pena, assegnazione al lavoro esterno, fino allo speciale programma di protezione con l’assistenza economica.

Più il reato è grave, più il collaboratore è considerato “importante”. Attraverso questa legge lo Stato offre a chi si è macchiato dei crimini più efferati, l’immunità e la possibilità di rifarsi una esistenza, pur se tra questi, dopo aver ottenuto immunità e ricchezza, alcuni hanno continuato a delinquere.

Sono stati adoperati i collaboratori di giustizia anche per processi rivolti a uomini politici .

Molti imputati, chiamati in causa da “pentiti” sono stati condannati per le dichiarazioni di questi, che sono state quasi sempre prese come “la prova della verità”.

Dopo l’assoluzione del senatore Andreotti, politici e magistrati discutono di “giusto processo” e della modifica della legge sui pentiti.

Queste richieste di modifiche sono alimentate dal fatto che trattasi di un “potente” a cui si da risalto, prima regnava assoluto silenzio, anzi, si coglieva l’occasione per riempire le prime pagine dei quotidiani per le “facili scarcerazioni” mettendo in discussione tutto l’apparato giudiziario e in particolare l’ordinamento penitenziario solo perché alcuni soggetti che godendo delle misure alternative al carcere commettevano altri delitti.

Purtroppo il problema esiste, quando viene emanata una legge si presuppone il margine percentuale di risultati positivi dei soggetti che beneficiandone riescono a inserirsi nella società e quanti di questi lo useranno commettendo ulteriori reati. La statistica in percentuale è al di sopra di ogni previsione, basta verificare che di coloro che godono delle misure alternative al carcere, solo l’1,5 % ha contravvenuto alle disposizioni, mentre diversi collaboratori di giustizia, che dai 1500 ora sono 1090 circa, 100 di questi oltre che a ritornare a uccidere hanno continuato a tirare le fila delle organizzazioni mafiose.

Ora si vocifera: “sconti di pena” con il consenso della parte lesa per evitare le cosiddette scarcerazioni facili. Oltretutto non si capisce bene chi godrà di queste facili scarcerazioni: i potenti, chi nella società gode di una posizione sociale elevata, i pentiti. Le carceri italiane scoppiano del sovraffollamento e la popolazione è quasi tutta composta di gente disastrata economicamente: circa il 50% stranieri, il 30% tossicodipendenti. Non siamo d’accordo che il perdono della parte lesa, deva essere prioritario, dovrebbe essere essenziale solo quando trattasi della concessione della grazia al condannato, tutti gli altri benefici contemplati nell’ordinamento penitenziario sono e devono essere di competenza del Tribunale di sorveglianza che previa relazione dell’équipe dell’Istituto, dove il detenuto espia la pena, può valutare il soggetto nella sua maturità, il proprio ravvedimento dal passato deviato, i tempi per essere reinserito nella società. Ciò che la parte lesa non potrà mai valutare con serenità, nella fattispecie il carcere non sarebbe più il luogo di rieducazione del detenuto. Purtroppo in questa Italia si vive perennemente sull’emergenza attribuendo le colpe a una legge che non funziona. Le leggi ci sono, mancano gli strumenti per farle funzionare bene e con risultati soddisfacenti. E’ giusto che chi sbaglia debba pagare, ma che il debito con la giustizia lo si paghi subito. Non ha senso che si faccia andare in carcere dopo moltissimi anni chi ha commesso il reato. Di questo se ne parla poco, mentre proviamo a pensare quanti di questi dopo essersi reinseriti nella società, messo su famiglia, lontani da atteggiamenti delittuosi, si ritrovano ad essere incarcerati distruggendo tutto quello che di positivo si erano costruiti. Questa è una realtà che esiste e un’emergenza attuale che non si vuole far vedere.

Il debito si deve pagare subito e senza vendetta, e che il carcere sia un luogo di riabilitazione.

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Proposte

 

Siamo a conoscenza che la parrocchia del Duomo di Rovigo sta procedendo da circa un anno alla ristrutturazione di uno stabile che vorrebbe destinare per iniziative a sostegno di bisogni emergenti nella città, e ancora non ha deciso a quale scopo utilizzarlo.

Noi detenuti della Casa Circondariale di Rovigo ci permettiamo di avanzare una nostra proposta alle autorità competenti della parrocchia e della diocesi: utilizzare quello stabile come casa di prima accoglienza per ex detenuti.

Al detenuto, una volta espiata la pena, viene aperto il portone del carcere ma se non ha nessuno, si guarda attorno e respira l’aria della libertà, si sente una persona diversa e si rende conto di trovarsi in una realtà di vita difficile.

Pochi riescono a trovare la forza di volontà e la fiducia; molti non ci riescono e spesso la pena per questi continua anche dopo averla espiata, perché persiste il logorio psicologico e la paura di non essere accettati. Il detenuto ha bisogno di essere guidato anche dopo la carcerazione e questo può avvenire se le autorità competenti intervengono concretamente ma, purtroppo nella maggior parte dei casi queste sono assenti. Quindi moltissimi si ritrovano a commettere ulteriori reati per necessità di sopravvivenza. E’ la cruda realtà che nelle carceri le persone sono spesso le stesse, tanti che hanno trascorso molti anni dentro sentono la difficoltà di tornare in libertà perché non hanno un tetto dove ripararsi dal freddo. Succede che qualcuno commetta di proposito reati nei periodi invernali, o per il Natale, solo perché in carcere troverà un letto e un piatto caldo.

Al rev.do mons. Martino Gomiero, a mons. Antonio Donà, a don Valentino Tonin direttore della Caritas, ci rivolgiamo fiduciosi che possano darci una risposta concreta per quanto nelle loro possibilità.

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Intervista al volontariato

 

Livio Ferrari (Direttore del Centro Francescano di Ascolto di Rovigo)

 

Voi del volontariato vi prodigate molto per la persona detenuta, non sarebbe necessario faceste lo stesso quando ha terminato di espiare la pena e guidarlo dopo la carcerazione?

 

L’impegno che i volontari esprimono attraverso le attività organizzate e alimentate all’interno dell’Istituto sono un tutt’uno con la disponibilità a continuare nel percorso di attenzione e sostegno alla persona nel momento della scarcerazione.

Se ciò non avviene è da imputarsi quasi esclusivamente al mutamento di atteggiamento delle persone detenute che una volta riacquistata la libertà non desiderano, nella maggior parte dei casi, avere ancora a che fare con coloro che gli ricordano la detenzione.

Perciò, ripeto, continuare il rapporto iniziato in carcere tra volontario e detenuto dipende quasi esclusivamente da quest’ultimo.

 

I servizi sociali del comune hanno, tra l’altro, quale competenza quella di aiutare gli ex detenuti, anche se sono spesso assenti. Voi del volontariato fate un’azione di sollecito verso questi organi affinché diano delle risposte concrete al post carcere?

 

Gli operatori sociali degli enti locali sono fortemente vincolati nelle loro attività dalle linee politiche che contraddistinguono le amministrazioni da cui dipendono.

Purtroppo le politiche di attenzione ai problemi carcerari non sono presupposti per consensi elettorali, da qui si spiega come le amministrazioni comunali soprattutto siano poco interessate ai problemi carcerari e la costante azione di proposta e di pungolo portata avanti dal volontariato non riesca ad incidere in maniera adeguata.

 

In diverse città il volontariato è stato fautore della formazione di cooperative per detenuti ed ex-detenuti, per la realtà di Rovigo ci sono programmi in questo senso?

 

Purtroppo il Polesine è alquanto avaro di iniziative che rispondono ad esigenze di accoglienza.

Certo questo stato di cose è il risultato anche di mancanza di progettualità e stimoli degli enti locali, che raramente si fanno promotori di iniziative che coinvolgono il territorio troppo preoccupati di far quadrare i conti. Ancorate ad atteggiamenti di separatezza dalle pulsazioni che provengono dalla strada, dalle associazioni; per fortuna qualche amministratore ogni tanto si discosta da questi atteggiamenti.

 

Non molto tempo addietro ci fu data la notizia di un finanziamento regionale per il carcere fatto al Centro di Servizio per il Volontariato dalla Regione del Veneto. Nonostante le vostre proposte l’indicazione regionale è che questi soldi vengano spesi per la stampa di un opuscolo informativo per i detenuti delle carceri venete. Secondo te non è uno spreco inutile che non risolve i problemi legati alla detenzione?

 

Ogni iniziativa culturale o pratica, è legata a degli obbiettivi da raggiungere. Poi, sia i progetti che alimentino la conoscenza del mondo detentivo, sia le iniziative che si rivolgono direttamente alle persone carcerate sono entrambe necessarie.

Nel nostro caso la possibilità critica di una scelta fatta rispetto ad un’altra è data dalla scala delle necessità attuali e dalla scarsità di finanziamenti che rendono più urgente investire in progetti per attività lavorative intra ed extra murarie, piuttosto che per opuscoli informativi.

E questo avviene perché continua la separatezza tra il territorio rappresentato in questo caso dall’ente regionale e il carcere, in quanto la maggiore conoscenza delle reali problematiche avrebbe indirizzato diversamente le scelte.

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Amicizia

di Wahi A. B.

Oggi sono stata portata in isolamento in una cella dove c’era stata una detenuta malata e quando l’ho saputo ho avuto paura, infatti la prima cosa che ho fatto è stata quella di pulire la cella nel migliore dei modi.

Facendo le pulizie pensavo alla mia cara amica di cella, avevo più dolore per lei che per me. Forse è la ragazza con la quale ho passato più tempo insieme, era più grande di me però era la piccola “Cuci”.

Nessuno nella mia vita è entrata nel mio cuore come lei, e stando in questa cella da sola mi sono accorta che nel mio cuore c’erano solo i miei bambini e la “Cuci”.

Non riuscivo a pensare ad altro che a lei, come starà adesso, come passerà questi due giorni, forse li passerà peggio di me perché io con il mio carattere, sto bene anche da sola, invece lei stando da sola con altre detenute non sarà lo stesso contenta anche perché tutto il tempo che siamo rimaste insieme c’ero solo io per lei e lei per me, che sia Dio con lei e con me.

Non avevo mai avuto questa esperienza però ho avuto piacere di provarla perché mi ha fatto capire cosa vuol dire il valore di una persona quando non l’hai vicino e quanto bene provi per quella persona.

Comunque grazie a Dio ho capito quanto valgo anch’io per Cuci, lei era pronta ad essere rinchiusa al mio posto, è una cosa che non ha mai fatto nessuno per me.

Ti ringrazio Dio che mi hai regalato una amica come Cuci in questo brutto periodo, non so cosa avrei fatto senza il suo aiuto, senza la sua compagnia.

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Sanità

 

Dopo tante richieste, finalmente noi detenute della sezione femminile c’eravamo tutte alla riunione con la direzione. Il primo argomento ha toccato i problemi medico - sanitari che si fanno particolarmente sentire in questo carcere.

E’ difficile rendersi conto della situazione in cui viviamo,perché quando lo abbiamo fatto presente si è visto quasi meraviglia nei visi dei nostri interlocutori e incredulità.

Sappiamo bene della convenzione tra ASL 18 e Casa Circondariale di Rovigo, ma nella pratica quotidiana se una persona si deve curare dovrà aspettare molto tempo per avere il nulla osta dello specialista, psichiatra, infettivologo, ginecologo, dai quali non pretendiamo una consulenza immediata, salvo nei casi urgenti ma chiediamo più attenzione e rispetto e non solo farmaci considerato che non tutte le persone possono avere lo stesso trattamento.

In carcere si vive annullati e alcune di noi sono apatiche e allora è giusto somministrare antidepressivi, ansiolitici, ma in che quantità? E se non hanno l’effetto voluto annullano ancora di più la personalità e si cade in uno stato vegetale.

C’è chi è in aids o sieropositivo e paga le conseguenze di una legislazione che non aiuta a vivere in luoghi diversi chi è malato terminale.

Possibile che si debba morire prima per una sanità penitenziaria che non c’è e non solo qui, lo sappiamo che in altre carceri la situazione non è migliore.

Ma non si deve continuare così.

Per tutti i problemi o sbagli legati ad un passato, la legge non perdona la povera gente, sappiamo bene che ricchi e politici non hanno questo trattamento, allora almeno sul piano dei diritti sanitari sarebbe ora che anche per coloro che vivono in galera si potesse avere la stessa opportunità per non stare male fisicamente oltre che psicologicamente.

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L’utopia

di Mario C.

Giovani o adulti ci sentiamo spesso insoddisfatti, forse per la necessità di trovare stimoli più forti.

In ogni tempo, infatti, ognuno di noi si sente assillato da paragoni, critiche, che sempre ci vengono da questa o altra generazione, da parte della società di oggi, alla stessa stregua di un qualunque strano fenomeno, invece di considerare un normale periodo della vita.

Si parla dei reclusi come persone prive di ideali, senza valori, addirittura senza sogni, non si può rimanere profondamente delusi pensando che ormai questo sia divenuto il nostro ritratto, il segno che ci contraddistingue da una società diversa, incapaci di riuscire ad urlare i nostri ideali per essere considerati. E’ questo l’errore che oggi spesso commettono alcuni componenti di questa società: molti di noi preferiscono vivere in silenzio; forse molti di noi preferiscono sognare di non essere giudicati nel modo sbagliato.

Non vogliamo sostenere che ogni detenuto è legato agli stessi ideali dell’altro; faremo lo stesso errore di chi ci giudica incomprensibilmente, ma semplicemente che si sbaglia a giudicare guardando solo un aspetto della realtà.

Vogliamo dire che si dovrebbe smettere di giudicare quello che è stato il passato, considerando che sono cambiate non solo le persone, ma anche il meccanismo che ha indotto alla commissione delle azioni. Insomma, oggi ci si può sentire diversi, si può avere ripudiato il passato, si può guardare ad una realtà. Questo è il frutto del passato, ma il paragone con la persona crea l’unica funzione di sminuire ancora una volta quello che oggi ci si propone di meglio. Aprire gli occhi alla realtà per cercare di guardarla da un diverso punto di vista e che poi non è così demotivata come molti possono credere.

Probabilmente non saremo certo in grado di cambiare le opinioni, ma questo non ci fa smettere di sognare e di avere propri ideali, pur essendo ridimensionati, o soltanto diversi, a seconda dei punti di vista, di quelli della società esterna, c’è sempre chi mostra maturità e sensibilità alle nostre problematiche di reinserimento.

Comunque si è sempre fiduciosi che i nostri sogni, i nostri ideali troveranno uno sbocco per crescere, crediamo che i punti di riferimento sono quelli del dialogo con la società esterna che ci consideri con i valori e i nostri ideali.

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Falso

di Paolo C.

Falso. Falso. Falso, scopro tutto quello che è falso, in una società che mi da idoli in cui credere, e una politica da rispettare solo fine a se stessa, per l’esercizio del potere.

Falso è il tubo catodico che ci fa “mangiare” mentalmente quello che vuole.

Falso è una struttura restrittiva con una giustificazione a se stessa. Falso chi ci vive dentro per una cosa o per un’altra, anche qui tutto porta ad avere un qualche cosa di più di un altro.

Ma per trovare un po’ di onestà primordiale dove bisogna cercare?

Tante, troppe promesse urlate che ti portano a ripetere le stesse cose false.

Allora a chi posso credere se non solo a me stesso con la mia egoistica falsità dettata sopratutto dagli eventi esterni, dimenticati sin dalla nascita.

So solo che sono nato in un globo terrestre pieno di colori: rosso giallo verde blu, ecc..., e pieno d’amarezza quando scopre le sue falsità.

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Intervista all’operatore

 

Dott.ssa Cristina Iannini, (Educatrice della Casa Circondariale di Rovigo).

 

L’ordinamento penitenziario è redatto in forma che ogni beneficio da concedere al detenuto è premiale: il detenuto che durante la detenzione ha tenuto regolare condotta e ha mostrato segni di reinserimento “può essere concesso”. Secondo la sua opinione, ritiene giusta questa forma?

Il “può essere” e non il “deve essere”.

La concessione dei benefici in forma premiale al detenuto è stata introdotta con la legge Gozzini del 1986, mentre l’originaria riforma del ‘75 aveva previsto, ad esempio, solo permessi di necessità (eventi di particolare gravità).

Ma il permesso-premio non costituisce una semplice ricompensa al detenuto che ha avuto un comportamento regolare e, quindi, non costituisce un semplice strumento per umanizzare la pena e renderla meno afflittiva. A mio parere il permesso-premio dovrebbe rappresentare per il detenuto un’occasione per la risocializzazione e per un suo graduale reinserimento nella società libera, essendo il permesso-premio finalizzato al raggiungimento di obiettivi: il coltivare gli affetti familiari, gli interessi culturali e reperire opportunità di lavoro. Non voglio con questo negare che l’istituto del permesso la funzione di premio la conserva eccome, proprio perché la sua concessione è subordinata all’osservazione di una condotta regolare. Semmai gli operatori penitenziari, il Magistrato di sorveglianza, dovrebbero sempre tenere presente di utilizzare questa “grande risorsa” del trattamento come opportunità data al detenuto per responsabilizzarlo e metterlo in condizioni di scegliere di abbandonare o di riproporre il proprio vecchio stile di vita. Se utilizzato con questa finalità allora anche la forma del “può essere concesso”, una volta valutato il momento e l’opportunità di mettere un detenuto di fronte alle sue responsabilità, potrebbe essere sostituita dal ‘deve essere’.

 

L’ordinamento penitenziario indica i termini minimi perché al detenuto possano essere concessi i benefici, in primis i permessi. Questi termini non vengono mai rispettati, anzi spesso vengono concessi quando il detenuto è agli sgoccioli della condanna. E’ un orientamento generalizzato che viene implicitamente da organi superiori?

Non credo ci sia un orientamento generalizzato che dica implicitamente di concedere i benefici quando un detenuto è agli sgoccioli della pena.

Io credo nella crescita umana e nella possibilità di cambiamento delle persone, ma anche che ognuno di noi ha tempi e risorse che sono diverse da individuo a individuo. Questo principio va in parte a determinare il momento favorevole perché le condizioni interne ed esterne alla persona le permettano di accedere ai benefici, con una certa prevedibilità che lo stesso beneficio possa essere gestito dal detenuto in modo corretto e consapevole.

 

Il detenuto che espia la pena, spesso di parecchi anni, l’équipe lo osserva, redige una sintesi. Teoricamente viene giudicato idoneo, maturo perché gli vengano concessi i benefici, in particolare il permesso-premio. Molte volte questo beneficio viene rigettato dal Magistrato di sorveglianza con la motivazione: visto il parere negativo degli organi di polizia o dei carabinieri. Con quale supporto oggettivo questi organi possono giudicare quel detenuto col quale da anni non hanno più contatti? Su questo, non ritiene che venga sminuita la professionalità dell’équipe dell’Istituto preposta allo scopo, preparata professionalmente.

Non mi sento di condividere questa affermazione. Il rigetto di un permesso da parte del Magistrato di sorveglianza, qualunque sia la motivazione, è una legittima decisione del Magistrato che è appunto l’organo deputato a questa funzione. Nella mia esperienza di lavoro è accaduto raramente che il rigetto di un permesso sia stato solo e semplicemente motivato con un negativo parere delle forze dell’ordine; soprattutto negli ultimi due anni, in realtà, non è mai accaduto e mi riferisco naturalmente ai rigetti di permesso delle persone detenute in questa Casa Circondariale. Ad ogni modo, la professionalità dell’équipe non verrebbe sminuita neanche da motivazioni di tale natura in quanto le professionalità dell’educatore, dell’assistente sociale, dello psicologo si basano su conoscenze scientifiche e culturali ben distinte da quelle degli altri organi istituzionali che sono chiamati ad esprimere pareri sulla persona in stato detentivo.

 

Si stanno verificando eventi delittuosi commessi da detenuti che usufruivano della misura alternativa al carcere. Si vocifera di una restrizione della concessione dei benefici; si sta ingiustamente criminalizzando l’intero sistema penitenziario. Secondo la sua opinione, è giusto penalizzare quanto finora si è costruito, nonostante le statistiche siano favorevoli al sistema?

Non ritengo, ovviamente, che sia giusto penalizzare quanto è stato costruito. E non credo nelle scelte fatte a ridosso di eventi gravi che a me per prima toccano come cittadina di questo Paese. Sono convinta che in una società democratica c’è il dovere di garantire i diritti di tutte le persone e salvaguardare la sicurezza dei cittadini, perché dove vi è maggiore sicurezza sociale si può amministrare in modo più giusto ed equo. Personalmente spero che buone leggi come la Simeone possano resistere ancora a lungo in quanto danno la possibilità a molte persone di evitare gli effetti deleteri di una lunga carcerazione vissuta dietro le sbarre.

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Intervista al cappellano

 

Don Damiano Furini, (Cappellano della Casa Circondariale di Rovigo).

 

Quando le è stato proposto di svolgere la sua opera pastorale in un carcere ha avuto momenti di riflessione se poteva trovare ostacoli sul suo cammino?

Ricordo di aver accettato con entusiasmo, magari misto ad incoscienza, la proposta di svolgere il mio ministero di prete in un carcere. Non conoscevo affatto come funzionasse il carcere, non ne immaginavo la vita; a mala pena sapevo dove fosse l’ingresso di quello di Rovigo. Dopo più di 40 anni di generoso servizio di mons. Nereo Lamberti, il mio predecessore, mi sentivo tanto piccolo di fronte a questo nuovo incarico. Ma le cose nuove mi hanno sempre destato interesse e per questo ho accettato la proposta senza pensare agli ostacoli. “Ad ogni giorno basta la sua pena” è scritto nel Vangelo!

 

Ci sono più ostacoli a guidare spiritualmente una comunità carceraria o una comunità esterna?

E’ diversa la guida di una comunità parrocchiale rispetto alla realtà di un carcere. Qui le persone sono una piccola comunità, con una permanenza generalmente breve, che vivono la privazione della libertà e che si portano alle spalle un passato spesso difficile e deviante.

Vi è certamente un bisogno di Dio e di fede che spesso percorre strade originalissime dentro il cuore delle persone. Io mi trovo in carcere perché mandato dal mio Vescovo ad annunciare la speranza e le parole del Signore agli uomini e alle donne che stanno espiando una pena. E’ diversa la vita di un prete in carcere rispetto alla parrocchia, ma amo tantissimo le persone e l’esperienza che sto costruendo in questi anni.

 

Conosceva la realtà del carcere e quale è stato il suo primo impatto con la realtà?

Non conoscevo affatto la realtà carcere prima di farne l’ingresso. Sono entrato ‘in punta di piedi’ consapevole di dover spendere diverso tempo ad imparare tante cose e ad ascoltare i consigli e i suggerimenti di tante persone che mi hanno aiutato. Mi sono stati di grande aiuto il gruppo dei volontari, la direttrice di allora e diversi altri operatori che lavoravano in carcere.

 

Lei raccoglie il nostro soffrire, il nostro dolore, noi privati della libertà e degli affetti familiari. Secondo lei la società esterna sta maturando per accettarci, una volta espiata la pena, senza essere emarginati?

La scelta che ho fatto iniziando il mio servizio di prete in carcere è stata, ed è ancora, quella di dedicare il mio tempo ad ascoltare e condividere la vita di tante persone. La storia di tutti coloro che ho conosciuto è intrisa spesso di tante sofferenze e dolore.

All’esterno purtroppo trapela ancora molto poco delle problematiche che vive chi è ristretto all’interno. L’impressione è che la società non consideri parte di se stessa la realtà del carcere, quasi delegando allo Stato e ai servizi sociali la soluzione di tutti i problemi. Molti pregiudizi approssimativi sono ancora troppo diffusi nella testa della gente.

Terminata la pena che cosa succederà? Per molti ancora forse un tragico salto nel buio. A volte sento la paura che tanti si portano dentro mano a mano che si avvicina il fine pena.

 

La sua missione non è facile. Gli ostacoli che trova li supera “in primis” per la sua vocazione pastorale. Trova che i detenuti la aiutino moralmente nel darle forza per superarli?

Ho sempre riscontrato in tutte le persone incontrate un forte aiuto morale al mio servizio. Sia gli italiani che gli stranieri mi hanno sempre accolto con simpatia e benevolenza. Sento spesse volte la difficoltà e l’impotenza di fronte a tante situazioni e problemi. Sono un prete assolutamente normale, capace di fare poche cose e incapace di tantissime altre. Ma, a dire il vero, non sono mai stato rimproverato per questo: mi sento capito e a tutti va il mio grazie!

 

Ha mai avvertito il pericolo di tollerare detenuti per reati gravi o ignobili e sentirsi di difendere un assassino?

In carcere io non mi atteggio a giudicare rispetto alle persone: sono già molti i giudici che fanno di professione questo lavoro, e a Dio lascio svolgere questo compito che Lui stesso si è riservato per il giorno del giudizio. Io mi sento mandato ad incontrare gli uomini e le donne in quanto persone, creature umane: e in ognuno di noi vi è un cuore, vi sono dei sentimenti, vi sono intolleranza e volontà che a volte sono molto ben nascosti. Nel Vangelo è scritto che con la nostra misura sarà misurato a noi, e nella preghiera del Padre nostro diciamo a Dio di perdonare a noi come noi perdoniamo ai nostri debitori. Cerco semplicemente di ricordarmi di queste parole ogni volta che incontro una persona.

 

Cosa ne pensa dell’affettività in carcere?

E’ un problema serio e importante. Permettere alla persona di mantenere sani rapporti affettivi con la propria moglie o convivente, i figli, la famiglia di origine è di capitale importanza.

Anche la sessualità deve continuare ad essere vissuta in modo normale: non si può costringere il detenuto a viverla in modo castrante. A mio avviso vanno studiate e promosse iniziative, anche nuove e coraggiose, che rispondano in modo positivo a questo bisogno. Non si può certo dimenticare o pretendere di ibernare la sessualità come se fosse un aspetto accessorio. Ogni volta che si chiudono gli occhi su dimensioni fondamentali della persona non si va certo nella direzione del recupero della stessa ad un contesto di vita normale e sano.

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Lettera dalla libertà

di Edmund B.

Carissimi compagni, io ora respiro aria di libertà.

L’ultima cena per festeggiare il mio fine pena è stata per me emozionante, vi avrei voluto portare via con me tutti.

Ora vi ricordo nel grigiore di quelle celle. Vorrei dirvi della libertà di cui godo, vorrei almeno in sogno dedicarla anche a voi. Sappiate che ho vissuto una cruda esperienza, nonostante le troppe negatività ho avuto modo di riflettere sul mio passato, essermi impattato con un sistema non facile, spero di essermi fatto accettare, certo voi mi avete aiutato a non sentirmi diverso. A parte il ricordo di voi, il più bello ed emozionante che ho fissato dentro è il 15 agosto giorno in cui mi sono stati impartiti i sacramenti del battesimo, cresima e comunione. Ho esaudito almeno questo desiderio che ho portato dentro sin dalla prima infanzia, ma che non ho potuto esaudire a causa della situazione politica del mio Paese.

Devo ringraziare la mia catechista Chiara, che mi ha fatto anche da madrina, il cappellano del carcere don Damiano, che mi ha iniziato per ricevere i sacramenti.

Vi abbraccio tutti con affetto.

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L’aggressività in carcere

di Pierangelo C.

Dopo avere conosciuto varie carceri in ognuna di esse l’unica cosa che ho trovato uguale è l’aggressività.

Già dal primo giorno che metti piede in un istituto trovi un’aria cupa, grigia, “sembra che perennemente ci sia una nuvola nera che copra il tutto”.

Tutti ti osservano con sospetto, non solo gli agenti carcerari ma soprattutto i detenuti, come se solo tu fossi il delinquente e loro no.

Capisco che c’è un istinto di autoconservazione per il proprio posto, sia psicologico che materiale.

Ecco, il carcere produce una aggressione biologicamente induttiva, che poi diventi difensiva o reattiva e non giustifica il fine.

Con gli anni è divenuta accentuata con l’ingresso di persone di varie etnie. Questo dimostra che con la pena inflitta della restrizione carceraria, l’aggressione viene dettata dagli eventi esterni.

Allora le carceri servono a rieducare l’essere oppure a prepararsi ad essere aggressivi per quando si sarà liberi?

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Libertà

di Pierangelo C.

Ma quale libertà! I carcerati la sognano, cercano persino di toccarla con mano, ma sanno che è solo un’illusione.

Dopo aver scontato la pena, riescono a passare quel fatidico portone, e la prima cosa che fanno respirano a pieni polmoni, si sentono liberi.

Ma che liberi e liberi! Da un carcere passano ad un altro.

Se quando erano ristretti facevano le stesse cose per anni, al di fuori ripetono tutto, con di più qualche piccola variazione che va dal cinema, alla sagra paesana e forse, se hanno un lavoro, 15 giorni al mare con la famiglia.

Si, per carità, esiste un centesimo del mondo che può permettersi il cosiddetto svago culturale importante, ma la maggior parte di noi deve centellinare tutto quello che spende, per non parlare di 1/4 del mondo che si trova persino senza mangiare. E’ l’eterno discorso: siamo comandati, anche da liberi un pugno di uomini tiene in scacco miliardi di altri, e questa è libertà?

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Contatti con il mondo esterno

di Mario C.

L’ordinamento penitenziario stabilisce che per il recupero del detenuto si agevolino i contatti con il mondo esterno, in particolare con i familiari.

Al detenuto che non usufruisce di colloqui da oltre 15 giorni è concessa una telefonata di 6 minuti, in sostanza chi non fa colloqui, due al mese, per la stessa durata. E tutto previa autorizzazione del direttore con domanda scritta e motivata.

Non accenniamo minimamente al fatto che se poi il detenuto desidera comunicare con un parente, bisogna interpellare anche il Magistrato! Se si desidera comunicare con il familiare rintracciandolo sul cellulare questa poi diventa un’eresia.

Scusate, ma la telefonata non è addebitata al detenuto? La telefonata se non è registrata è ascoltata. Allora perché questa burocrazia che complica ancora di più l’esistenza? Sembra che lo status del detenuto definitivo non sia mai realmente quello del recuperando, ma piuttosto dell’indagato.

Per l’indagato è pure una sorveglianza eccezionale motivata da accertamenti ai fini processuali. Non si riesce a capire quali ragioni trattamentali impongano al detenuto definitivo il controllo telefonico, quando invece per i colloqui si garantisce il solo controllo visivo.

I colloqui sono entro giorni stabiliti dall’amministrazione, sempre feriali. E se i familiari svolgono attività lavorative tutti i giorni feriali peggio per loro.

I colloqui sono rari, senza preventivare che quel giorno il familiare dovrà perdere un giorno di lavoro e conseguentemente perdita di parte del salario, qualche lira la lascerà in portineria... certo che avere un familiare in carcere costa molto sia in soldi, che affetto.

Con sei minuti a disposizione per telefonare, come può un detenuto padre di famiglia, rinforzare i legami affettivi con i propri cari, la moglie , i figli , i genitori, dedicando circa un minuto a persona? Molti detenuti pur non essendo analfabeti, per lettera non riescono certo ad esprimere le sensazioni che provano, lo stato d’animo, ma tutti sanno parlare, in italiano o in dialetto, tutti sanno piangere e ridere con le parole, con il tono tutti sanno esprimere le sensazioni.

Dunque, per tutti il telefono dovrebbe essere concesso con regolarità, ma senza tutta questa burocrazia. E’ un mezzo importantissimo per non perdere i contatti, anzi per rinforzarli e allargarli.

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La lotta

di Ulisse

Io in carcere, non ci credo, non ci so stare anche se mi vedo costretto, perché tutto intorno mi è chiuso, perfino la finestra non mi lascia passare molta luce.

La luce, unica risorsa di colore che ho ora, che scalda il mio corpo, che illumina la mia mente, che mi possa rigenerare.

Mi scervello, per la maggior parte della giornata per capire quello che mi è accaduto; nel ricordare i fatti provo un senso di dispiacere e di sofferenza, quella sofferenza morale e fisica che da molto portavo dentro di me e che nessuno, o quasi, ha mai ascoltato anzi respinto.

Mi ripeto: “Caro..., anche questa prova contribuirà a temprarti, e a farti intendere che la vita è una continua lotta per superare le resistenze che si frappongono durante il nostro cammino verso la meta. Coraggio, perseveranza e fermezza occorrono e con questo si riesce a tutto...”.

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Silenzio

di Mario C.

Il silenzio è indecifrabile, bisogna saperlo comprendere.

C’è il silenzio della soddisfazione, dell’inutilità del parlare, della sottomissione e della paura.

Ci sono silenzi che suonano come grida.

Questi tipi di silenzi vengono dall’interno del carcere, in particolare da chi affronta il percorso carcerario che non gli consente di dare parola alla propria dimensione segregata. E’ un modo d’espressione del soggetto in base al maggiore o minore adeguamento alla vita detentiva.

Le tappe di un percorso graduale per il reinserimento sociale sono subordinate in modo discrezionale e premiale.

Così il silenzio è diventato come un non comunicare per non trovarsi di fronte a dinieghi o rigetti.

Ne consegue che il silenzio non può dunque essere letto come un elemento tranquillizzante.

Allora occorre ridare parole a questi silenzi. Chiediamo che agli interventi legislativi seguano dei segnali istituzionali che riaffermino la finalità che la pena non risulti afflittiva, che il nostro sistema penitenziario eserciti una funzione e sempre più rieducativo sociale.

L’attuale momento di transizione al vertice dell’amministrazione penitenziaria alla quale succede il dott. Caselli, colga l’occasione di seguire la linea intrapresa dal predecessore dott. Margara.

Continui la necessità del detenuto connesso tra carcere e mondo esterno, che è necessario rendere sempre più visibile l’interno del carcere, recuperare quella trasparenza che da anni ormai si sta lavorando per farla apparire meno opaca.

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Rovigo

di Pierangelo C.

Dopo cinque mesi trascorsi alla Casa Circondariale di Padova vengo trasferito a Rovigo e il posto, da quello che vociferano tra i detenuti di altri istituti, si dice che è buono, così mi tranquillizzo. Arrivato a “Rovigo non mi intrigo” al primo vedere non è un carcere, ma più assomigliante ad un convento con muri spessi 50 cm.

Tra me e me dico: ma questo posto da dove salta fuori!

Arrivo in matricola e conosco direttamente i primi agenti e mi sento chiamare, signore deve fare le fotografie, li per li non ci faccio caso, con calma poi vengo accompagnato alla mia cella.

Al mattino c’è il consueto conta detenuti e battito delle inferriate ma come entrano sento dire “buon giorno” e un agente mi viene a chiamare per essere accompagnato dall’educatrice, come apre la cella io dico grazie e la sua risposta è “prego”, ecco che mi salta alla mente il rispetto che ti viene dato dove negli altri istituti è molto restio. Sono “felice”, in quello arriva la ciliegina sulla torta, vengo a sapere che domenica c’è il battesimo di un ateo ed è un grande stupore, siamo in cella assieme.

Così sto aspettando con ansia per partecipare alla Santa Messa che per me è importante. So che tutto questo mi farà crescere la fiducia sugli altri. Non si finisce mai di imparare.

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Braccialetto elettronico 1

di Mario C.

Il 1999 e il 2000 dovrebbero essere gli anni delle riforme della giustizia, almeno quelli in cui ci sono tutte le condizioni perché le riforme finalmente si creino, in altri termini, che si possa giudicare l’imputato con il “giusto processo”.

In fondo potremmo essere d’accordo anche per la proposta del “braccialetto elettronico” purché porti ad un allargamento delle concessioni delle misure alternative al carcere.

Potrebbe essere uno strumento aggiuntivo all’ordinamento penitenziario per ridurre in modo sostanzioso la criminalità.

Il carcere, per molti che ci entrano la prima volta, è una scuola del crimine. E’ risaputo che chi per la prima volta viene incarcerato, anche per piccoli reati, viene messo con chi ha commesso reati più gravi, ovvero, se così si può dire con i malavitosi incalliti.

Questi ultimi vantano con orgoglio le imprese delittuose, di possedere potenti auto, disponibilità di parecchio denaro.

Il detenuto neofita probabilmente svolgeva qualche attività lavorativa mal remunerata si è trovato a commettere quello sbaglio, lentamente si autoconvince che c’è una “strada” più semplice per arricchirsi.

A questo punto la persona acquisisce psicologicamente un passaggio di mentalità. Non comincia più a gradire di vivere di duro lavoro, con un salario che non gli permette il lusso di avere potenti auto, frequentare locali notturni, ecc., ora comincia desiderare di apprendere come e cosa dovrà fare, una volta rimesso in libertà, per riuscire ad avere facili guadagni.

Ecco dove comincia l’apprendistato del crimine.

Il tossicodipendente trova lo spacciatore che lo indirizza in quel settore, il piccolo rapinatore trova il rapinatore professionista che lo consiglia e così avanti.

Comunque quando uscirà sarà sempre un ex detenuto che si sentirà emarginato dalla società.

L’uso del braccialetto elettronico potrebbe dare un drastico ridimensionamento a questi fenomeni, agevolare i detenuti anche colpevoli di gravi reati che hanno dato segni di ravvedimento, e un drastico sfoltimento del sovraffollamento delle carceri, senza contare il risparmio di denaro dello Stato per il mantenimento dei detenuti in carcere.

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Braccialetto elettronico 2

di Antonio C.

Sono un detenuto che desidera esprimere la propria opinione favorevole al braccialetto elettronico, messo su ogni detenuto ristretto ai domiciliari per verificare che il detenuto non esca di casa.

Se venisse applicata questa modalità tanti detenuti con piccole pene residue o in attesa del processo di primo grado potrebbero ottenere gli arresti domiciliari.

Inoltre ridurrebbe il grandissimo problema del sovraffollamento delle carceri tenendo conto che in Italia ci sono ancora detenuti che dormono per terra come bestie al canile.

Con l’approvazione del braccialetto elettronico il Governo ridurrebbe le spese economiche che utilizza per il mantenimento dei detenuti nelle carceri e potrebbe utilizzare quei soldi per le attività trattamentali.

Con l’uso del braccialetto elettronico andrebbero a casa in tempi più brevi molti padri e madri che magari hanno figli in tenera età, oppure molti giovani detenuti.

Attenzione, comunque, non sto dicendo che le pene non devono essere scontate, ma scontate con pene alternative al carcere per i reati minori soprattutto e per coloro in attesa di giudizio.

Si sa benissimo che il carcere è molto duro e crudele e serve ben poco a rieducare il detenuto. Anzi, tenendoci chiusi come bestie feroci in gabbia, non è foriero di azioni rieducative.

Questo sistema peggiora la mentalità del detenuto, dato che un giovane, si “specializza” dentro queste mura maledette tramite voci carcerarie sul come si compiono altri reati.

Quindi si potrebbe benissimo evitare che la gioventù del presente e del futuro peggiori e si trasformi, anche se non lo sono, in delinquenti e che dei ragazzi si rovinino stando in queste mura.

Chiederei a tutti i responsabili per l’approvazione del braccialetto elettronico di approvare al più presto possibile questa proposta, così che molti detenuti possano usufruire dei benefici delle pene alternative al carcere.

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Emergenza criminalità

di Mario C.

Ci risiamo. In questo periodo assistiamo al sorgere del fenomeno dell’enfa-tizzazione di alcuni fatti di criminalità organizzata, microcriminalità.

Inevitabilmente si giudica in maniera sfavorevole lo strumento della legge Gozzini che favorisce i detenuti, i quali durante la detenzione hanno dato segni di ravvedimento e maturati per l’inserimento graduale nella società.

Ogniqualvolta succede un fatto di sangue ascrivibile ad un detenuto in misura alternativa su questa legge ricadono tutte le responsabilità di questi fenomeni criminosi.

Così la rapina e uccisione di un carabiniere a Milano, e varie rapine e ferimenti hanno dato modo ad alcuni esponenti politici di criminalizzare la legge, chiedendo limiti restrittivi alla concessione dei benefici per accedere alle misure alternative.

Se queste richieste fossero ascoltate porterebbero le carceri ad essere solo quel luogo di espiazione di pena e che tutto sia ancora da costruire.

Chi ritiene equo un trattamento restrittivo della legge Gozzini non ha statisticamente menzionato quanta bassa percentualità di casi negativi si sono verificati in rapporto a quanti hanno usufruito di tali benefici.

Sono, sottolineiamo irrilevanti: su 100 detenuti che escono in permesso neanche l’1 % non rientra. Un’altra statistica della Legge 663: dall’entrata in vigore è stato calcolato che dei 600.000 detenuti che hanno usufruito misure alternative, ben 500.000 non hanno più commesso reati.

Dunque, il fatto che la pena debba essere rieducativa, ovvero flessibile deve essere e restare una priorità e non si deve prospettare l’abolizione del contenuto rieducativo della pena.

Dobbiamo renderci conto che c’è in atto un processo di cambiamento del carcere, non come luogo di pena, ma come luogo rieducativo. Un periodo della nostra vita in cui trovare l’equilibrio per un cambiamento interiore idoneo con la prospettiva di rientrare all’interno della società civile. E’ vero che viviamo in una struttura sociale piena di paure e grandi insicurezze, si amplia sempre l’allarmismo nei confronti della criminalità e c’è il desiderio di dare maggiore e sproporzionata punizione, rispetto alla gravità dei reati.

Questi risentimenti della società non devono produrre mutamenti nelle forme della giustizia.

Ormai si è costruito un equilibrio tra magistratura, istituzione penitenziaria, detenuti e società esterna, quindi non disperdiamo la realtà rieducativa della pena per esigenze e forzature dell’opinione pubblica. Lasciamo che sia il “carcere della speranza”.

Solo così la pena può assumere un carattere e una funzione realmente rieducativa, può essere usata come mezzo di progettualità per il futuro e non solo come senso dell’afflittività e della punizione per quello che ha commesso.

L’obiettivo di un effettivo reinserimento nel contesto sociale del detenuto può essere raggiunto attraverso il processo rieducativo e non quello esclusivamente punitivo.

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Alla signora Ministro degli interni

di Roberto G.

Sono rimasto molto perplesso di alcune affermazioni di un Ministro dell’attuale Governo riguardanti una nuova modifica della legge Gozzini, che di fatto è stata talmente stravolta che del testo originale è rimasto assai poco.

Di fatto, ha proposto di condizionare la concessione in certi casi dei benefici ai detenuti al perdono dei parenti delle vittime o delle vittime stesse.

Non togliendo nulla al dolore che sicuramente è stato arrecato alle famiglie e non dilungandomi su questo, mi chiedo fino a che punto una persona che ha subito un torto può alleviare il proprio dolore decidendo sulla libertà di un altro essere umano.

Se così fosse non dovremmo più parlare di giustizia ma di vendetta.

Ora io sono cosciente del rancore che persone innocenti possono provare nei confronti di chi gli ha fatto del male, ma di riflesso i primi ad avere una vita rovinata potrebbero essere proprio loro, perché l’essere giudici della vita di un uomo, avergli negato la libertà e la possibilità di rifarsi un’esistenza, significa vivere con lo stesso ricordo e con lo stesso odio e rancore che nel tempo rovinerebbe la loro esistenza e diventerebbero vittime per la seconda volta.

Signor Ministro, guardi che l’occhio per occhio è praticato solo nei paesi del terzo mondo, dove ogni cosa viene strumentalizzata per distogliere l’attenzione della gente dalla loro condizione di arretratezza, mi auguro che in questo caso non ci sia la politica dietro queste affermazioni.

Si parla di emergenza criminalità, ogni giorno certe reti televisive escono con notizie di detenuti che evadono dagli arresti domiciliari e compiono reati, come se questi fatti accadessero solo ora.

Emergenza emigrazione, come fosse solo il nostro Paese ad avere questo problema quando in realtà tutte le nazione europee lo hanno moltiplicato per tre o quattro volte.

Mi auguro solo che di questo passo non saremo solo noi la causa del debito pubblico, della disoccupazione, del rincaro benzina, della sanità che non funziona e dei container dimenticati a Bari.

Ora, uno schieramento politico in cerca di consensi attacca gli ultimi che non possono difendersi, e che sono scomodi da difendere, e dall’altra parte politica, per non essere da meno, fanno la stessa cosa. Solo Nostro Signore ha preso le nostre parti assicurandoci il Regno dei Cieli in caso di vero pentimento.

Ora, metafore a parte, signora Ministro, vorrei dirle che non è con la repressione che si curano i mali della giustizia, non creda alla “tolleranza zero” del sindaco Giuliani, ma si dia da fare nel potenziare le strutture sociali finanziando gli enti, anche privati, che si adoperano per reintrodurci nel circuito lavorativo quando saremo fuori dal carcere.

Apra maggiormente le porte ad iniziative culturali ed a corsi di formazione che ci tengano impegnati ed accrescano le nostre conoscenze.

Cerchi di incentivare con finanziamenti le imprese che possono portare del lavoro all’interno dei penitenziari.

Concludo sperando di aver stimolato delle riflessioni, non crediate che il male che è stato fatto non abbia lasciato un segno, forse non lo lasciamo vedere, ma vive in noi per sempre. Ad ogni modo non è la vendetta che sanerà il tutto.

Mi auguro solo che queste strane proposte siano state dettate dal particolare momento politico che il nostro Paese sta vivendo e non siano il frutto di un disegno politico precostituito. Siamo un paese democratico e tale dovrebbe rimanere.

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Voli di dentro
(poesie e quant’altro)

Vicenza, fine gennaio 1997

Parlo per un attimo

poi... silenzio.

Chissà cosa frulla nella mia testa

non voglio parlare...

e le lacrime mi scendono lentamente...

mi dico che non serve piangere

ma violenze... droga...

rabbia...

fallimenti...

portano a questo stato vegetale

della mente e del corpo

e mi chiedo continuamente

a cosa serve vivere?

Questo momento di vita è passato

con tanta fatica, volontà e aiuto dalle persone

ho ritrovato me stessa e la voglia di vivere

da protagonista la mia vita.

Debora M.

Vita stroncata

Figlio mio

sei bello... bellissimo

dentro, molto di più.

Chissà quanto hai sofferto

prima di morire lì.

Quel buco nella tua vena

ha stroncato i tuoi vent’anni.

Quanto sei stato male

prima di morire lì

da solo,

abbandonato da chi

ti ha fatto quel buco,

lo credevi amico

invece ti ha lasciato lì

agonizzante.

Potevi essere salvato

e invece...

Undici anni fa

il venti di agosto

dell’ottantotto

Dio ti ha voluto.

Muore colui che

in cielo è caro.

Mario C.

Dimenticami

Non chiedere al sole di splendere in eterno:

non può c’è la notte.

Non chiedere all’uomo di vivere in eterno:

non può c’è la morte.

Non chiedere a me di dimenticarti:

non posso: ti amo, Mara.

Mirko B.

Sognando

Questa mattina ai piedi del mio letto

ho trovato un sogno dimenticato dalla notte: tu.

E ancora una lacrima è scesa lungo il viso.

Mirko B.

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Lettera a…

 

Il gruppo redazionale di “Prospettiva Esse”, tramite questo periodico vuole rendersi portavoce delle problematiche di tutti i detenuti ristretti alle autorità di competenza.

Questa volta l’appello è al Ser.T. di Rovigo. C’era una volta il “gruppo del giovedì”! e il fulcro dell’iniziativa aveva come oggetto il reinserimento per i tossicodipendenti.

Per il reinserimento i tossicodipendenti detenuti devono essere guidati, solo così si possono ridurre i rischi di ricadere nell’uso della droga e conseguentemente il ritorno in carcere.

E’ inutile nascondere che questa rappresenta la categoria più a rischio e trova maggior difficoltà nel reinserirsi dopo l’espiazione della pena.

Perché la permanenza in carcere del tossicodipendente non rimanga solo il fine di una pena, il Ser.T. deve farsi carico di reali opportunità mirate, e diano il senso al tossicodipendente che non è abbandonato a se stesso.

Gli operatori del “gruppo del giovedì”, degli anni passati, avevano focalizzato la vera radice di tanti disagi che queste persone incontrano per rompere il circolo vizioso “droga-criminalità-carcere”. Avevano intrapreso concretamente il modo della rieducazione portando risultati positivi.

Proprio per questi risultati il Ser.T. di Rovigo si dovrebbe rendere ampiamente disponibile a riprogettare un altro “gruppo d’incontro” mirato nella medesima direzione e non lasciarci un poco abbandonati a noi stessi, come avviene da diverso tempo.

Nutriamo speranze che questo scritto non cada nel vuoto. ma che possa stimolare gli organi preposti, tenendo conto dei bisogni su cui ruotano le problematiche dei detenuti tossicodipendenti.

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