«Prospettiva Esse – 1999 n. 1-2»

Indice

  1. PERIODICO AD USO INTERNO DELLA CASA CIRCONDARIALE DI ROVIGO
  2. La stanza dell’affettività (Mario S.)
  3. Iniziative culturali (Mario S.)
  4. Esperienze (Sara)
  5. Riflessione (Alessandro M.)
  6. Il giornalino (Alessandro M.)
  7. Il primo permesso premio (Amedeo R.)
  8. Diritto alla vita (Mario S.)
  9. Omaggio ad un senatore “umano”: Mario Gozzini (Mario S.)
  10. Pene e diritti (Giuseppe T.)
  11. La corsa del gambero (Roberto S.)
  12. La vita in carcere a Rovigo (Luigi R.)
  13. 1993 (Iliazi Eniceleida “Ida”)
  14. Assistenza sanitaria in carcere (Mario S.)
  15. Un calcio all’indifferenza (Amedeo R. e Luigi R.)
  16. Voli di dentro (poesie e quant’altro)
  17. Capro espiatorio (Ester)
  18. Ricordo incancellabile
  19. La S. Messa di Natale
  20. Cuori imprigionati
  21. Quale rieducazione! (Antonio C.)
  22. Tormento

 

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PERIODICO AD USO INTERNO DELLA CASA CIRCONDARIALE DI ROVIGO

 

Siamo convinti che per far cessare ingiustizia e impoverimento si debba denunciare e modificare i rapporti attuali tra cittadini e amministratori della cosa pubblica.

Ma in concreto cosa vuol dire?

La prima funzione è quella classica dei cittadini che votano. E’ importante mantenere un contatto costante con i parlamentari che hanno eletto ed informarsi sulle scelte effettuate dai partiti prescelti, facendo arrivare dei messaggi di approvazione, o disapprovazione sul loro operato.

Poiché sono detenuto, non avendo diritto di voto, a chi faccio arrivare in caso di necessità, le mie lamentele? E’un dilemma di non facile soluzione. In teoria posso scrivere a chiunque occupi un posto di potere e di responsabilità in qualsiasi istituzione dello Stato, ma in realtà non è altro che carta che va ad aumentare il volume dei cestini dell’immondizia.

La “parrocchia” di cui facciamo parte, si dice concepita come comunità educante attraverso l’attenzione e l’impegno concreto degli operatori che, un giorno chissà quando, dovrebbero restituire alla società persone rigenerate reinserite; ma purtroppo non è così. Mancano troppe cose, tutti lo sanno, ma fanno finta di niente.

E’ necessario ripristinare il rapporto interrotto tra il detenuto e tenendo ben presente che in questa particolare situazione è molto più deficitario il potere istituzionale che il reo. Chi viene, o è venuto, a farci visita non è colto da un sentimento di totale indifferenza. L’arrivo in carcere non concede sentimenti a metà: o lo sopporti o ne fuggi spaventato. Chi lo sopporta, dopo la terza visita si presenta a noi con la stessa facilità con cui andrebbe allo stadio o allo zoo, tanto poi basta una doccia per togliere quel puzzo di stantio che aleggia in tutte le carceri. Con questo non voglio essere irriverente, ma noi detenuti siamo gente strana e da non prendere in considerazione.

Cerchiamo per un momento di lasciare da parte demagogia e utopia. La realtà è una sola: i detenuti non hanno diritti, e i miglioramenti che si sono avuti sono solamente dovuti alla necessità del quieto vivere e all’illusione di programmi oramai zoppi e obsoleti. Il carcere è un altro pianeta, distante anni luce dalla realtà quotidiana. Cosa può mai apprendere un detenuto se a prima vista non si vedono che gesti di routine che nella sostanza non insegnano niente?

“Dare poco e promettere molto” diceva Machiavelli, e purtroppo di questo motto tutte le istituzioni hanno fatto virtù.

I finanziamenti alle carceri hanno subito drastici tagli, meno soldi, meno lavoro, quindi determinati problemi si sono acuiti e le misere paghe corrisposte ai detenuti non consentono certezza di spesa e 1’argomento permesso premio.

Il risanamento dei conti pubblici non consente ulteriori finanziamenti, ma almeno dateci i nostri. Quando un Paese, economicamente grande come l’Italia, non rispetta i più elementari canoni di civiltà ed elude gli impegni stabiliti per legge e pretende di rieducare il reo senza investire mezzi e risorse, allora ci sorgono dubbi, per meglio dire, diventano purtroppo certezze.

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La stanza dell’affettività

di Mario S.

Dopo molte riflessioni da parte degli organi competenti finalmente prende spazio la discussione politica e ministeriale sulla concessione delle cosiddette “Stanze dell’ affettività”, ossia si dà modo al detenuto che lo richiede di rendere più intimo il colloquio con il proprio partner, sempre all’interno del carcere in una stanza libera, con un letto matrimoniale, situata un po’ in disparte per dare un minimo di privacy alle persone che vi si recano. L’ultimo dibattito in televisione seguito con molta attenzione da noi detenuti, al quale partecipava l’on. Diliberto (attuale Ministro di grazia e giustizia) sostenitore di questa iniziativa, ci ha aperto il cuore alla speranza. A me personalmente è salito un nodo alla gola e commosso ringraziavo Dio perché finalmente una persona libera al di là del muro, capiva questa nostra “tortura psicologica”, pena accessoria che nessun giudice ci ha mai comminato e che purtroppo siamo costretti a subire in silenzio. In questa Italia, dove ogni giorno si fanno inchieste, vorrei proporne una io: perché non si porta a conoscenza di tutti i cittadini italiani di quante separazioni, quanti divorzi con persone detenute hanno come causa la mancanza di affetto, che non è fatto solo di strette di mano o di semplici baci dati furtivamente nelle sale dei colloqui, dove frapposto tra i colloquianti c’è un bancone largo m. 1,30 sormontato al centro da un vetro divisorio alto30cm. Questi, che all’inizio della detenzione sono “disagi”, moltiplicati per il resto dei mesi o degli anni, secondo la pena a cui siamo stati condannati, o semplicemente per la lunghezza stressante dei processi che non si celebrano più in tempi reali, diventano veri e propri traumi psicologici. Ora vorrei rivolgermi a voi persone libere che per scelta o per fortuna non vi siete scontrati con il pianeta giustizia, o non conoscete la realtà del carcere.

Provate ad immedesimarvi quale congiunto di una persona detenuta e privarvi per minimo 4-8-12 mesi di quell’affettività completa che è un pilastro portante che sorregge l’amore, anche la più ardente passione si raffredderà fino a spegnersi. Invece se sarà varata questa legge, anche se momentaneamente si è costretti a vivere separatamente l’unione familiare, difficilmente sarà interrotta evitando le tragiche conseguenze che ne derivano: prima di tutto i figli che innocentemente subiscono forti traumi psicologici, poi il genitore detenuto che, avendo le mani legate, non può risanare la situazione. Giorno dopo giorno si perde anche quel poco di tranquillità che è rimasta, diventando irascibile, arrivando per sfogo all’autolesionismo,all’aggressività verso gli agenti, verso i compagni e spesso al suicidio. Per evitare che accadano queste tragedie familiari, deve essere annullata questa tortura psicologica. Nessuna pena accessoria deve ricadere sulla famiglia, sulle persone care, vietando l’affetto completo con l’appagamento sessuale, distruggendo la felicità che scaturisce dall’unione familiare, a cui nessun giudice terreno può condannarci, e che il Giudice supremo ha sempre benedetto con queste parole: “Crescete e moltiplicatevi”. Siamo nell’anno 2000, facciamo parte dell’Europa unita con altre nazioni che da tempo hanno superato questo handicap (Svezia, Danimarca, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Germani, Spagna, e tra poco anche la Francia). Speriamo che presto anche in Italia venga riconosciuto questo sacrosanto diritto. Io, anche a nome dei miei compagni detenuti, invio un “grazie” all’on. Diliberto sostenitore della stanza dell’affetto.

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Iniziative culturali

di Mario S.

Il 24dicembre nella Casa circondariale di Rovigo si è tenuta una rappresentazione teatrale recitata dai compagni extracomunitari qui detenuti. Tale rappresentazione, ben organizzata e diretta sotto la regia di Sara Piffer e Simone Brunello, ha ottenuto un gratificante e caloroso successo, nonostante gli interpreti fossero per la prima volta impegnati nella recitazione, dinanzi a tutta la popolazione detenuta, sia maschile che femminile, alla direzione, al comandante e agli agenti di custodia, agli assistenti volontari. “Caramelle da uno sconosciuto”, questo il titolo della rappresentazione. E’ la storia del percorso di integrazione di un extracomunitario raggirato nel suo Paese e allettato dalla facile prospettiva di lavoro all’estero. Viene strappato dalla sua terra d’origine e trasportato, in questo caso, in Italia, dove appena giunto gli viene tolto il passaporto e avviato sotto pesanti minacce ad entrare nel mondo degli stupefacenti, per spacciarli sulle piazze, al posto di chi è arrivato prima di lui, e che ora si trova a vivere una vita squallida di tossicodipendenza, o in carcere. Questa realtà raccontata con la recitazione vorrei che fosse stata capita da tutti, sfruttati e sfruttatori, affinché queste tragedie di vite raggirate, rubate e calpestate non avvengano più. Perché si può avere qualche soldo, qualche vestito, un po’ di benessere, ma spesso si perde la libertà. E la libertà non ha prezzo perché è la cosa più bella del mondo.

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Esperienze

di Sara

Mi chiamo Sara e la mia prima esperienza come tossicodipendente comincia a 2l anni. Ora ne ho quasi 31 e vi volevo parlare di un problema che per me è stato determinante in certi periodi della mia vita, e di come mi ritrovo nuovamente dietro a queste sbarre per colpa non credo solo mia. Come dicevo, sono una tossico dipendente, nel mio cammino non ho mai fatto né furti, né la prostituta, ma come tanti spacciavo quel po’ che mi serviva per bucarmi. Quindi non ho mai avuto giri grossi, anche se è risaputo che difficilmente chi si buca riesce a recuperare il denaro per i lussi o per mettere da parte qualcosa per il futuro. Come purtroppo succede a tanti, io abitavo in un piccolo paese di provincia (Cervignano del Friuli), dove ci si conosce quasi tutti, e dove ogni cosa viene messa in piazza. Di conseguenza, e arrivo al dunque, i quattro tossici del paese erano spesso presi di mira dalle forze dell’ordine.

Non trovo giusto che una persona, perché ha sbagliato una volta, venga ripetutamente fermata, perquisita e gli venga tolta ogni dignità sempre e dovunque. Per strada, sotto casa, o addirittura fuori dal bar o in supermercato. La mia storia, purtroppo, ha subìto un ulteriore colpo, quando stavo cercando di uscirne con difficoltà ma con impegno, perché nel frattempo avevo conosciuto un uomo meraviglioso e con il quale ho avuto una figlia, è andato tutto all’aria. Quando la bambina aveva circa tre anni me l’hanno portata via i servizi sociali. Vi lascio immaginare la mia disperazione e quella di mio marito. Stavamo lavorando, avevamo la nostra casa e a fatica la fiducia dei nostri genitori. Ora ci hanno tolto tutto e nell’emarginazione e nella disperazione siamo tornati a bucare e siamo finiti di nuovo in carcere. Ho l’impressione che questa disperazione non cambierà mai, anche se a volte mi illudo.

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Riflessione

di Alessandro M.

Nell’oscurità di questa solitudine scrivo pensieri così irreali, ripetendosi giorno dopo giorno come il pensiero di sentirti cambiato, ma con la possibilità di non poterlo dire, perché non sai mai come viene appreso un fatto così normale. Per esempio io credo che il detenuto, per sentirsi a posto, deve avere qualcosa in cui credere; io so che è più facile non credere che credere, ma, con la forza che a tutti noi il Signore ha dato, dobbiamo gestirla in qualcosa di utile per un domani. So che sembra strano questo all’interno di un istituto, ma se realmente vogliamo sentirci cambiati dobbiamo combattere per un cambiamento interiore, non solo esternamente; sarebbe solo, voler dire farci altro male. Dunque io credo molto nel reinserimento del detenuto, per un domani che si troverà a combattere con la realtà esterna senza conoscerne i valori positivi, come ad esempio avere un lavoro non è cosa da poco per un ex detenuto. E’ un cambiamento che dovrebbe fare in modo di non commettere ulteriori errori (reati), poi è anche un modo di staccare il tuo modo di vita con la realtà che non è che ti offra molte strade. Se vuoi cambiare devi per primo riconoscertelo di prima persona.

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Il giornalino

di Alessandro M.

Il giornalino nasce con lo scopo di aiutare noi reclusi attraverso un sostegno morale, in collaborazione con educatori e psicologi presenti in questa Casa di Reclusione, ai quali va il ringraziamento di tutti. Chi sfortunatamente fa ingresso in carcere deve sapere che il primo contatto utile è con l’educatore, il quale, nei limiti delle sue possibilità, offre l’opportunità di svolgere una serie di attività, tra le quali: l’iscrizione a qualche corso professionale. L’educatore si propone anche per la preparazione di istanze alla magistratura, quali la libertà provvisoria, gli arresti domiciliari, l’affidamento sociale: ci assiste inoltre un legale d’ufficio, per chi non può averne uno di fiducia.

Prospettiva Esse è strumento che ci aiuta a socializzare ed esprimere i nostri pensieri, ma soprattutto a farci sentire più uniti. Confidiamo nella collaborazione di tutti, per ampliare anche nella nostra struttura carceraria le esperienze positive di altri istituti, non sottovalutando l’importanza, anche ai fini del recupero della persona, che il carcere non venga dimenticato dal territorio.

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Il primo permesso premio

di Amedeo R.

Ecco raggiunto il quarto della pena ed allora cosa fare? E’ presto fatto. La prima cosa è chiedere un permesso, sì proprio un permesso premio. Allora ti chiedi: sono stato corretto durante questo anno scontato? Penso proprio di sì. E così compili la richiesta con tutte le date della pena, con le carcerazioni fatte e, in fondo, il motivo di questa richiesta! Nel mio caso, per poter riallacciare i rapporti familiari interrotti bruscamente al momento dell’arresto. Questa richiesta va inoltrata al direttore dell’istituto in cui stai scontando la pena, il quale deve esprimere il suo parere, congiuntamente all’équipe del trattamento riguardante la concessione di questo “permesso premio”, e poi sarà il Magistrato di Sorveglianza che dovrà dire o no. Finalmente dopo circa un mese sei chiamato in matricola e qui ti consegnano la risposta: sì, permesso di tre giorni. In quel momento tutto cambia nella tua testa, mille pensieri ti invadono. Però sotto c’è una clausola: permesso sì, ma in ristrettezza familiare, che in quel momento passa in secondo piano. Giunge il giorno dell’uscita, la notte precedente non dormi, ti sembra di essere già fuori, o addirittura hai paura di un ripensamento, cioè che sia un errore o che ti venga revocato. Tutto questo è la tua testa che te lo detta, ma in realtà avviene il contrario. Alla mattina, alle 8, si apre la porta e sei fuori, sì proprio fuori, in strada, quella strada che hai percorso per entrare in carcere ora ti porta a casa.

A casa dai tuoi familiari, e questa volta è proprio vero. Appena giunto al tuo paese devi recarti alla caserma dei carabinieri, i quali hanno una copia del tuo permesso sulla quale viene apposto un visto con l’orario di arrivo, come su quella che possiedi tu e che devi sempre tenere in tasca. Poi viene redatto un verbale sul quale si stabilisce l’orario di firma giornaliero per il perdurare del permesso, dopo di che puoi andare a casa. Ecco casa tua, ecco i tuoi familiari, eccoli tutti increduli, tutti lì e tutti senza parole. Un anno è passato, eppure sembra ieri, tutto è rimasto uguale, proprio tutto, o quasi. Il primo giorno lo passi a raccontare quanto è successo, tutti gli amici del carcere, tutto quello che mangi; insomma tutto il programma carcerario proprio come se fossi tornato chissà da dove. Al giungere del secondo giorno, ecco, il tuo cervello incomincia ad incepparsi, incomincia a ritornare indietro, sì proprio così, ti riporta dentro e al giorno dopo, quando dovrai tornare. Quel pensiero non ti molla più. Sei continuamente assente, non ti sei ancora reso conto o meglio non sai ancora che sei a casa. Niente, proprio non c’è niente da fare, sembri vivere sulle nuvole. Quando magari ti rendi conto che sei proprio a casa, devi ritornare. Perché? Perché sono passati quei tanto attesi e sospirati tre giorni, sono proprio passati, ed ecco l’amaro, la seconda faccia della moneta, cioè del permesso: il rientro. Sì proprio il rientro. Con le tue gambe devi ritornare in carcere, devi suonare il campanello con le tue mani. E così è, la porta si apre e in quel momento ti accorgi che cosa è successo. E’ successo che sono passati tre giorni e non te ne sei accorto.

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Diritto alla vita

di Mario S.

Ho letto molte volte la nostra Costituzione e non vi ho mai trovato un esplicito riconoscimento del diritto alla vita! Si rimane sorpresi. Per fortuna però riconosce i diritti inviolabili dell’uomo. Penso qui di sicuro deve essere compreso anche il diritto alla vita. Per vivere, serve crescere e riprodursi. Per vivere in buona salute (recitano gli psicologi), è necessario amare ed essere amati. La Costituzione tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo, e nell’interesse della collettività. I detenuti hanno già poco tempo per amare, pensiamo poi all’aspetto sessuale. Certo che privare qualcuno della possibilità di procreare sembra, sulla carta, la violazione di un diritto inalienabile, che diventa una costrizione fisica e morale non regolamentata sulle persone sottoposte a privazione della libertà. Sarà forse l’ordinamento penitenziario anticostituzionale? Leggo (anche questo), ma non trovo da nessuna parte divieti di questo genere (per fortuna, dico!). Certo non c’è scritto da nessuna parte che i detenuti non possono amare. Dunque, in uno stato di diritto, valendo la regola, “Tutto ciò che non è espressamente vietato è consentito”, anche in carcere dovrebbe esistere questa possibilità. Invece è possibile fare solo quello che la legge espressamente consente; si tratta di uno stravolgimento dello stato di diritto? L’extraterritorialità del carcere induce anche l’extraterritorialità della legge?

Oppure è una terra di frontiera, fuorilegge? Per fortuna dovendo regolamentare gli orari dei pasti e i quantitativi di cibo, la legge si è ricordata di enunciare che i detenuti possono mangiare. Concludendo, mi rivolgo a tutte le autorità competenti in materia affinché raccolgano quest’appello, emanando un decreto legge per eliminare questa ingiustizia e non ci lascino questa pena accessoria, che ci condanna per tutta la detenzione a trovare l’appagamento sessuale da soli attraverso certi “giornalini”, che ci avvilisce e a poco a poco ci trasforma in robot senza sentimenti.

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Omaggio ad un senatore “umano”:
Mario Gozzini

di Mario S.

Ciao, compagno Gozzini, Senatore della Repubblica, un caloroso saluto commosso si eleva dalle “quattro mura” delle carceri nazionali e giunga fino al tuo cuore, per ringraziarti di quanto hai fatto per noi rendendo questo popolo di disperati, dimenticati, afflitti, che fino all’entrata in vigore della legge 663, da te proposta modificando la riforma del 1975, ci aveva reso simili a bestie, negandoci il diritto di vivere una pena non solo afflittiva, ma come strumento di reinserimento sociale di noi detenuti.

La 663 è stata appassionatamente applicata e instancabilmente osteggiata; direttori di carcere, magistrati di sorveglianza e poliziotti penitenziari l’hanno “diversamente” interpretata.

In circa 13 anni la tua Gozzini è stata disattesa, stravolta, congelata a tal punto da rendere necessaria una nuova riforma, quella legge Simeone che è entrata in vigore a giugno dello scorso anno, riesumando lo stesso clima dei tempi della tua legge: l’allarme “svuota carceri” che, seppur in forma diversa, è riaffiorato con le evasioni di dicembre.

La cosa che più ci ha lasciato sconfortati è che il senatore Mario Gozzini è morto senza vedere la sua riforma davvero realizzata: grazie ai permessi e agli sconti di pena (libertà anticipata), le massime tensioni nelle carceri si sono disinnescate; ma il lavoro per i detenuti, che avrebbe potuto permettere l’applicazione piena della più importante misura alternativa, è una scommessa affidata quasi esclusi-vamente a iniziative di privati. In qualche regione gli enti locali hanno fatto qualcosa, in alcune i tribunali di sorveglianza hanno tentato di cogliere lo spirito della legge. Non per quanto riguarda la scarcerazione dei malati cronici e gravi. Nonostante la Gozzini, in cella si muore di tumore, di aids e non solo. Ma questi episodi tendono a sminuire, ad offuscare, a nascondere. Anche il ministro di Grazia e giustizia, on. Diliberto, descrive la Gozzini come un faro della nostra civiltà giuridica. Anche per il procuratore Borrelli i benefici introdotti dalla legge sono sacrosanti, bisogna avere più coraggio per applicarli. I carcerieri devono ritrovare lo spirito della legge e la società riflettere sull’allarme, sul clamore che suscita un’evasione, pensare positivamente a quanti detenuti in tutt’Italia in misura alternativa, tutte le sere bussano alle porte del carcere per rientrare, che sono la stragrande maggioranza. Il mio pensiero, il mio modesto parere, sarebbe quello del rafforzare gli organici dei tribunali di sorveglianza e delle carceri. Dove c’è esasperazione prevale la custodia, dove il carcere è vivibile cresce lo spazio per il trattamento, per il reinserimento. Una preoccupazione che dovrebbe far riflettere è che, dopo le proteste e gli scioperi della fame dell’anno scorso, ha fatto ripiombare le carceri nel silenzio. E chi conosce il carcere stando dentro o stando fuori, sa che un silenzio è un segnale molto pericoloso.

Addio Senatore, addio Gozzini, per tutti noi detenuti sarai sempre vivo nella memoria, augurandoci che altri parlamentari seguiranno il tuo esempio per aiutarci, affinché la nostra pena sia meno afflittiva, più umana, e che ci conduca al reinserimento nella società in modo corretto.

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Pene e diritti

di Giuseppe T.

“L’intensità della pena è tanto maggiore quanto più le società sono arretrate e più assoluto è il potere centrale”. Chi il carcere lo ha visto da fuori spesso ha paura. Siamo cresciuti con l’idea del bene e del male, concetti separati che non possiamo e non sappiamo avvicinare. Le divisioni non ci aiutano: occhio per occhio, dente per dente. La politica non può fare nulla: è più facile difendersi con i consueti schemi, con le cose che abbiamo sempre creduto essere giuste, tralasciando quella che è una realtà molto evidente. Le condizioni di vita nelle prigioni italiane: negli ultimi anni non è diminuito il numero di detenuti, oggi si è raggiunta l’enorme cifra di circa cinquantamila. Le nostri prigioni potrebbero contenerne poco più di 41 mila. Da una relazione prodotta dal Ministero di Grazia e Giustizia emerge che negli anni 1995/96 i tentativi di suicidio sono cresciuti del 50%, che sono raddoppiati gli atti di autolesionismo, sono aumentate le proteste, sono aumentati anche i ferimenti e le aggressioni. Tossicodipendenza e sieropositività sono situazioni frequenti: almeno il 30% dei detenuti è tossicodipendente e in carcere mancano le adeguate strutture sociosanitarie. Viene registrato inoltre un calo delle ore di lavoro a cui ogni detenuto, nel rispetto della legge e della funzione educativa della pena, ha diritto. Per non parlare dei magistrati di sorveglianza che, nonostante i mancati rientri siano sempre intorno all’1%, hanno concesso sempre meno alternative alla detenzione. Se si sommano tutte queste carenze, ne viene fuori un quadro che assomiglia al primo cerchio dell’inferno dantesco. Si sentono situazioni pesantissime, in tanti istituti i detenuti sono ammassati in 10-12 in stanze da 5 posti letto, con un solo bagno. Fra questi, ragazzi affetti da aids conclamato. Per quanto attiene la salute ad alto rischio, le carceri italiane hanno il primato mondiale. Lo rivelano medici che si occupano di queste problematiche e un rapporto di qualche anno addietro stilato da commissari europei in visita alle carceri italiane. Naturalmente, si intende, l’abbandono fisico, il degrado totale, la sporcizia, la cattiva alimentazione, sono l’impronta di uno stato latitante. Noi detenuti lo gridiamo. Qualcosa bisogna pur fare. Sono passati due anni da quando il nuovo governo si è insediato, ma ancora delle promesse fatte in campagna elettorale buio totale; le belle parole farcite di ciliegine sono rimaste soltanto chiacchiere. Hanno varato la legge “Simeone”, nota per ridurre gli eccessi di carcerazioni per piccole condanne (fino a tre anni), e per reati di non grave entità, ma anche questa legge è più per chi è già fuori da queste mura, ma per chi è ristretto diventa ben difficoltoso usufruirne; del resto, dall’entrata in vigore, di persone detenute pochissime ne hanno potuto usufruire. Dunque le cose non sono certo cambiate come speravamo, e come sempre ci dobbiamo accontentare di tante belle parole e bei propositi che non portano alcun frutto. I politici devono sapere che dietro le sbarre la salute è un diritto, non un lusso. Il sovraffollamento, in un contesto appesantito dalla miseria, dalla disperazione, dalla promiscuità, potrebbe diventare una bomba che può esplodere da un momento all’altro. Noi detenuti chiediamo soltanto una condizione di vita più umana. Chiediamo che vengano rispettati i dettami Costituzionali in merito al reinserimento, alla finalità della pena atta alla rieducazione del reo, al diritto al lavoro. Tante cose che si perdono quotidianamente nei meandri della demagogia e dell’emergenza. “Basta!” Quindi chiediamo che vengano prese con coraggio le decisioni utili al risanamento di questa realtà.

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La corsa del gambero

di Roberto S.

“Fa più rumore un albero che cade che una foresta che cresce”. Penso che con questa metafora si possa rispondere efficacemente a tutti coloro che stanno mettendo in discussione la legge Gozzini, che oltretutto, a forza di essere rivista, dal giorno della sua uscita ad oggi, è già stata stravolta in gran parte. Credo che dietro a quelli, che con tanto zelo estraggono scheletri dagli armadi e si ergono a paladini della giustizia ogni qualvolta succede un mancato rientro dal permesso, ci sia un preciso disegno politico, ovviamente sempre vicino a momenti elettorali provinciali, regionali o nazionali; ad ogni modo desidero solo mettere in evidenza come anche quando una legge funziona ci sia chi per altri scopi la metta a repentaglio. In una trasmissione televisiva si è arrivati a mettere in discussione l’operato di Margara, uno dei pionieri dell’applicazione della “Gozzini”, accusandolo di aver concesso benefici ad un detenuto che è tornato a delinquere, dimenticando di evidenziare quante persone grazie a lui si sono rifatte una vita, quante famiglie ha riunito e quanti condannati a grosse pene hanno acquistato la speranza e la propria dignità. Negli altri Paesi europei dove la percentuale di mancati rientri è molto più alta che da noi, è già legge l’incontro prolungato privilegiato con il proprio partner e la propria famiglia per far sì che l’affettività possa trovare migliore espressione. Guardo con piacere anche la cattolicissima Spagna, quasi all’avanguardia su queste tematiche; la risposta italiana è stata mettere in discussione quei pochi e risicati benefici che ci sono stati concessi; abbiamo fatto l’euro moneta ma di sicuro ancora non ci sentiamo eurodetenuti. Proprio mentre scrivo ho avuto la notizia della morte del senatore Gozzini. Chiaramente dispiaciuto per questa scomparsa, con una punta di sarcasmo ho pensato che almeno non ha avuto la possibilità di vedere lo scempio che stanno facendo della sua legge.

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La vita in carcere a Rovigo

di Luigi R.

Ho avuto la “pessima” idea di voler scrivere e descrivere il carcere, luogo ai più sconosciuto, coperto da un alone di mistero. Anche se non è un luogo “normale”, tuttavia anche nelle patrie galere si consuma una quotidianità. Dentro queste mura si muove ogni giorno un nutrito numero di persone, ognuna con un proprio compito, chi per lavoro chi per studio, qualcuno per mansioni di pulizia, chi si diletta nello sport e chi (pochi per fortuna) affogano nell’ozio, in un intersecarsi di persone della comunità esterna e detenuti. Pensate, per esempio, che per mandare in tipografia questo giornalino, nato principalmente come voce delle persone detenute delle sezioni maschile e femminile, ci sono circa 15 persone impegnate, divise tra “scrittori provetti” e collaboratori esterni, per lo più assistenti volontari, che con il loro contributo lo rendono una realtà da oltre due anni. Un po’ più recente, invece, è l’esperimento del corso teatrale, con il quale grazie all’aiuto di due giovani di una compagnia teatrale cittadina, è stato portato in scena, per Natale, un atto con il quale si racconta in forma fiabesca “il martirio” al quale è sottoposto un immigrato dell’Africa nella nostra tanto amata Europa. Un’altra esperienza, che anche qui a Rovigo abbiamo sperimentato, è un corso di computer. Circa 15 ragazzi hanno infatti partecipato ad un corso che ha consentito loro di conoscere le basi di questo complesso strumento, molto importante nella società odierna. Un altro corso attuato nella Casa Circondariale è stato quello di lingua italiana per gli extracomunitari, che consente loro di avere quelle nozioni basilari per instaurare un dialogo e una lettura iniziale o che consenta loro di partecipare al corso di scuola elementare e media inferiore, che sono stati istituiti dal Provveditorato agli studi di Rovigo, in collaborazione con il Comune di Rovigo e la Direzione, che ha presentato richiesta, e al quale prendono parte circa 10 persone. Una delle necessità per i detenuti è tenersi in forma, facendo ginnastica, giocando a pallone o a pallavolo; sono queste principalmente le nostre attività motorie ben supportate da un insegnante dell’Isef, che per quattro mattine a settimana ci dedica il suo tempo, insegnandoci i corretti movimenti negli esercizi oppure allenandoci al gioco del calcio a 5 (dal momento che non disponiamo di un campo grande ci dobbiamo accontentare di un campo da calcetto fatto di cemento, che nelle altre ore funge da area di passeggio) e sul quale recentemente si è svolto un mini torneo per quattro squadre, che ha visto la netta vittoria di una rappresentanza extra comunitaria sulle altre tre squadre composte da italiani. Tutti premiati con un trofeo, la cui grandezza è dettata dalla posizione in cui si è classificata la squadra. Non è retorica dire che è la solidarietà e la convivenza, anche fra etnìe diverse, a vincere. Convivenza palpabile anche la domenica a Messa davanti al Cappellano, il nostro parroco, che noi stimiamo moltissimo per il suo bagaglio di umanità e la sua carica di energia, sempre pronto a spendere una parola con il fine di infondere quel coraggio ad andare avanti che molto spesso viene a mancare; Messa che viene preparata anche con la collaborazione di alcuni di noi, circa 4-5 persone che fungono da chierichetti e che vede la partecipazione di un gruppo di animazione di giovani di una parrocchia di Rovigo, i quali rendono la funzione domenicale più armoniosa grazie al suono della chitarra ed alla graziosa voce di alcune ragazze. Oltre a questo c’è sempre la possibilità di una buona lettura pescata dalla vastità di libri presenti nella biblioteca di cui disponiamo, o chiederne di nuovi al volontario che settimanalmente rileva le domande e poi recupera i libri presso la locale Accademia dei Concordi, che li mette a disposizione. Scivola via così la giornata, tra l’attesa della posta, di colloqui con i familiari e gli incontri con gli operatori e i volontari. Questo è il tran tran della nostra piccolissima comunità nella quale viviamo e che confidiamo non sia mai dimenticata dal territorio e dalla gente di Rovigo.

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1993

di Iliazi Eniceleida “Ida”

Allora avevo 20 anni compiuti e appena finita la scuola media; non valeva la pena di andare avanti con gli studi. A quel tempo in Albania studiare non significava niente, era ritenuto inutile. Così mio padre decise di mandarmi in Italia dove aveva lavorato per un anno e sapeva come era la vita. Ero molto contenta, anzi non aspettavo altro che partire, mio papà mi avrebbe accompagnata. E così il giorno arrivò. Il 17 settembre 1993, alle 20:30, abbiamo salutato la mamma e nei suoi occhi ho visto uscire delle lacrime che, talmente contenta di partire, non capivo. Ho salutato così anche le sorelle e i parenti. Presa la borsa con il necessario per il viaggio, siamo andati via. Mio papà mi teneva la mano e con l’altra salutava tutti finché i loro volti sono spariti nel buio. Al porto ci aspettava una nave per andare in Italia. Siamo saliti e oltre all’equipaggio eravamo in tanti, e capii subito che il viaggio non era affatto facile come io l’avevo immaginato. Mio papà mi disse che non dovevo preoccuparmi perché lui mi stava vicino. Visto che ero l’unica ragazza ebbi la possibilità di dormire nella cabina del proprietario della nave con mio papà, invece gli altri dormivano come potevano. Eravamo molto stanchi e ci siamo subito addormentati. Dentro la cabina passammo tutta la giornata e la notte. Il mattino dopo vidi il sole e il mare illuminarsi. Però dentro di me era cambiato qualcosa: ero triste, cominciavo a sentire la mancanza della vita che avevo lasciato alle spalle, ma era troppo tardi, non si poteva più ritornare indietro. Capii che avevo perso tutto: la mia vita con la famiglia, i miei parenti, i miei amici, e capii che la vita senza di loro doveva essere dura; io non dissi niente a mio papà perché non volevo farlo sentire in colpa, che mi stavo allontanando da tutti. E cominciai a capire cosa volessero dire quelle lacrime di mia mamma, perché lei immaginava tutto, invece io dalla gioia di partire non avevo pensato più profondamente a queste cose. E così dopo tre giorni di viaggio arrivai al porto di San Benedetto e per me cominciò una vita nuova: altra gente, altra lingua, tutto diverso. Prendemmo il treno e arrivammo a Padova, dove siamo andati a trovare una famiglia italiana, che il mio papà conosce. Da questa famiglia sono stata ospite 15 giorni, mi hanno tenuto come una loro figlia, e perfino mi hanno aiutato a trovare lavoro. Così cominciai a lavorare. Dalle persone dove andavo a lavorare mi hanno anche dato l’alloggio. Appena fui sistemata mio papà tornò in Albania e mi sentii ancora più sola, comunque era quella la vita che avevo scelto. E così andavo avanti sperando che arrivasse il giorno che tutto ciò che avevo lasciato alle spalle, con un po’di pazienza avrei potuto riaverlo: la mia casa, la mia vita, sempre vicino alla mia famiglia, nel mio paese in Albania. E ho capito che, nella vita, la famiglia è una parte fondamentale, e bisogna fare di tutto per non perderla. Se perdi la famiglia è come se perdessi una parte dite stesso.

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Assistenza sanitaria in carcere

di Mario S.

Se un cittadino italiano sa che avere a che fare con il servizio sanitario pubblico alle volte purtroppo è pure un problema, chi si trova a dover curare la propria salute all’interno di un carcere affronta un’incognita minacciosa. Perché, mentre da una pane lo stress, la scarsa igiene, la bassa qualità dell’alimentazione concorrono a peggiorare le condizioni di salute del detenuto, dall’altra l’insufficienza delle strutture fa in modo che, proprio i soggetti maggiormente esposti alle malattie siano anche quelli meno garantiti: un dramma nel dramma. Al di là dei casi eclatanti, lo stato di salute della popolazione carceraria è fotografato dalla diffusione di alcune malattie infettive. In testa, sull’onda del grande afflusso di tossicodipendenti, il problema dei sieropositivi. Nel 1998 i casi accertati di infezione sintomatica da Hiv sono stati circa 1700; ma i casi stimati (solo una parte dei detenuti si sottopone ad analisi) sarebbero almeno più di 4000. Molto comuni anche le epatiti virali, in particolare la C, correlata a cirrosi e cancro al fegato. Un quarto dei detenuti inoltre è colpito da varie forme di parassitosi. Un altro quarto soffre di problemi psichici. Ci sono anche molti casi di tubercolosi. In realtà i malati sono molti di più di quelli individuati. Un guaio, perché la tubercolosi è molto pericolosa in un ambiente chiuso. Le cosiddette visite di primo ingresso, offrono ai nuovi arrivati alcuni esami di routine mirati ad individuare tubercolosi, sifilide, Hiv, ma non tutti, come già detto, si sottopongono a tali visite. Le carceri più vecchie sono spesso sovraffollate e non rispettano tutte le norme igieniche, anche se a onor del vero con tutti i loro problemi restano più umane.

Le nuove, saranno pure più pulite e organizzate, ma sono strutture completamente aride, che facilitano il processo di perdita di identità, lo stress, il senso di separazione dal mondo.

E il carcere, prima che fisicamente, fa ammalare psicologicamente. Arriva la depressione, che, come si sa, fa abbassare le difese immunitarie. Sempre il malessere psicologico in carcere si trasforma quasi regolarmente in malattia fisica, con comportamenti estremi come l’autolesionismo. In infermeria c’è sempre qualcuno che si è tagliato o mutilato. Da parte delle istituzioni (a parte gli psicofarmaci) si tende a ignorarle, anche quando un minimo di supporto sarebbe indispensabile. Penso ai tossicodipendenti che entrano in crisi di astinenza proprio in concomitanza con l’ingresso in carcere, o a maggior ragione quelli che in carcere scoprono di essere sieropositivi.

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Un calcio all’indifferenza

di Amedeo R. e Luigi R.

In occasione della fiera rodigina, il giorno 24 ottobre 1998 si è svolta un’importante manifestazione, almeno per i detenuti della Casa Circondariale di Rovigo: una partita di calcio vera e propria che si è tenuta allo stadio Gabrielli di Rovigo. Le squadre composte, da una parte dagli amministratori comunali e dall’altra una selezione di detenuti più alcuni volontari ed organizzatori di questa partita. Lo scopo era di sensibilizzare tutta la cittadinanza sulla detenzione e sulla possibilità di reinserimento sociale dei detenuti, ed anche per capire che chi è in carcere sono persone che hanno sbagliato e stanno pagando il loro sbaglio, a volte anche più del previsto, ma con il desiderio di riprendere il loro posto nella società. Questa partita aveva anche un altro aspetto positivo per i detenuti, quello di dare la possibilità ad alcuni di usufruire di un piccolo permesso e così dimostrare a tutti chi veramente siamo e far capire la nostra sensibilità a tutti coloro che si battono per noi. Con questo un particolare ringraziamento al Comune di Rovigo, al Ministero di Grazia e Giustizia ed alla direzione della Casa Circondariale di Rovigo. Il risultato di questa partita è stato di uno a zero per gli amministratori, ma come già detto, il risultato non conta, l’importante era divertirsi e far divertire tutti coloro che sono intervenuti fisicamente e moralmente, così che per 90 minuti la libertà si è fusa con l’amicizia. Tratto di unione, quel pallone così piccolo e tondo, ma anche tanto grande da far dimenticare quella sofferenza che c’è tra le mura fredde del carcere. Speriamo che iniziative di questo tipo si ripetano ancora e che portino fuori altri detenuti meno fortunati di me; sì perché io sono uno di quei “magnifici” che sono usciti e che aveva sulle spalle lo scopo di dimostrare la nostra sensibilità, a nome di tutti, verso tutti. Un grazie a tutti coloro che hanno contribuito a questa iniziativa (Amedeo R.)

 

Un calcio all’indifferenza” è stata l’iniziativa voluta dagli assistenti volontari e che ha visto confrontarsi i detenuti della C.C. di Rovigo con una rappresentanza di amministratori e dipendenti comunali di Rovigo, che ha visto sopravvalere di misura (1-0) la squadra comunale su quella dei detenuti, per altro rimaneggiata in quanto sono scesi in campo detenuti che non toccavano un pallone da anni, ma d’altronde sono gli unici che previo i requisiti necessari hanno potuto usufruire del permesso premio per così poter partecipare. E’ parso doveroso quindi, da parte degli stessi amministratori locali, nella fattispecie “squadra avversaria”, concederci la rivincita che si è disputata all’interno della Casa Circondariale di Rovigo, nel campo di calcetto 5+5 e che li ha visti avversari prima di una squadra di extracomunitari tunisini, perdendo una partita molto combattuta anche se agonisticamente molto corretta. Il secondo incontro invece gli amministratori lo hanno disputato avendo come avversari gli italiani e qui hanno avuto una netta supremazia; quindi il terzo incontro gli italiani lo hanno disputato contro gli extra-comunitari, perdendo. Ne è scaturita quindi una classifica che ha visto primi classificati gli extracomunitari tunisini, secondi gli amministratori comunali e terzi la squadra degli italiani. Questo il risultato avuto sul campo, ma ce n’è uno più importate: il calcio all’indifferenza, che si rifà appunto al titolo della manifestazione. Indifferenza che i detenuti vivono sulla propria pelle da decenni e che solo gli assistenti sociali, e spesso i volontari, cercano di colmare con il proprio lavoro, riuscendoci come qui a Rovigo. Ben vengano pertanto queste iniziative affinché si possa colmare quell’indifferenza radicata nelle persone che continuano a vivere della convinzione che noi non esistiamo, senza pensare invece che una delle leggi alla quale loro si affidano dice testualmente che una persona che ha sbagliato deve pagare la sua condanna, ma che non deve però rimanere fine a se stessa, non deve essere quindi puramente punitiva. Una condanna deve tendere invece alla rieducazione del reo al fine di un suo reinserimento adeguato nella società, alla fine della pena. Ripeto, quindi, ben vengano queste iniziative perché sommate alle altre danno fiducia, non solo a noi (e ne abbiamo bisogno), ma anche a chi di noi ha sentito parlare solo dai giornali o occasionalmente senza sfatare quel pregiudizio radicato in loro. Ringraziamo, quindi, tutti coloro che questa iniziativa l’hanno pensata, voluta, creata, attuata, e chi ha partecipato perché con il loro comportamento hanno sicuramente dato la speranza ad altri in futuro di poter vivere la stessa esperienza. Grazie. (Luigi R.).

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Voli di dentro
(poesie e quant’altro)

LIBERTA’

I nostri cuori piangono,

le nostre lacrime sono amare,

una stella è caduta per noi.

E’ come una vita senza gioia,

tutti han bisogno di un cuore caldo

che scalda il corpo,

tutti han bisogno di gioia.

Libertà.

AMICO MIO

Lasciami parlare,

dammi ascolto un attimo.

Voglio scrivere senza fine

perché sei vivo amico mio,

sì, siamo vivi.

Che bisogno abbiamo d’amore, e di coraggio!

Perché tu per me sei unico,

e anche di più:

come le prime gocce d’acqua

in un deserto assetato di pioggia,

sei la goccia più dolce

per me che sono assetata,

e le gocce, che bevo

e che restano in me

mi fan dolce la vita

e fan dolce il mio cuore.

Sei così,

non so chi sei,

sei amore o sei ombra,

sei la mia bella stellina,

o sei la luce del mio cuore.

UNA STELLA PER ME

Guardando sù nel cielo

ho visto la mia stella,

guardo un altro giorno

e la mia stella non c’è.

L’ho cercata sempre

ma la mia stella

non è più tornata.

La mia stella è caduta,

caduta nella terra

come il mio cuore.

Adesso non c’è più luce,

il buio copre

il mio corpo freddo.

Vorrei vederti ancora

o mia dolce stella

perché mi riscaldi il corpo

e fai luce al mio cuore.

CARCERE

Rinchiuso tra queste “quattro mura”

ti diventa la pelle dura.

Tra sbarre e cancelli

si perdono gli anni più belli,

dalla finestra s’ode il vociare lontano della gente

sulla via

mentre qui trascorrono giorni sempre uguali.

Seduto sullo sgabello sto coi miei pensieri

che mi fanno compagnia

mentre bevo l’ennesimo caffè

e tra le dita c’è una sigaretta sempre accesa.

 Mario S.

IL SOLE

Il sole si sta spegnendo,

il cuore sta piangendo,

le lacrime scendendo,

l’amore si sta perdendo.

come il sole stanco

si spegne nel tramonto

così il mio amore si perde piano, piano.

PENSIERI

Ricordo un giorno,

ricordo una notte.

Un giorno di sole forte,

una notte con luna piena.

Mi ricordo di te, amore mio.

Che giorni pieni di sole caldo.

che notti piene di magie.

Magie che rimangono dentro

anche dopo anni e anni.

LA FELICITA’ DEGLI SCARCERATI

All’improvviso qualcuno deve uscire

da queste squallide mura,

non si è invidiosi né gelosi,

ma contenti e felici nel vedere qualcuno

raggiungere la tanto attesa libertà.

Libertà che a tutti noi manca

per quanto tempo non si sa.

Qualora ella arrivasse

noi tutti felici saremmo

nel cogliere la tanto attesa

libertà.

PENSIERO D’AMORE A STEFANIA

Sta arrivando la sera,

disteso sulla branda, nell’assoluto silenzio

sto pensando a te Stefania,

all’immensità del nostro amore.

Ad un tratto, sento lo svolazzare

di un colombo sulla finestra,

mi volto

lo guardo, mi guarda

gli affido un pensiero d’amore

con un battito d’ali vola e lo porta a te, anima mia!

Mario S.

Bisogna provare

Bisogna provare la solitudine per insegnare la convivenza,

serve la rabbia per capire l’infinito valore della pace.

Dio si serve del silenzio per fornire insegnamento sulla responsabilità delle parole.

Serve la stanchezza perché si possa comprendere il valore del risveglio.

Serve la malattia per sottolineare la benedizione della salute.

Solo la morte fa capire l’importanza della vita.

Bisogna provare a stare chiusi in una cella per capire il grande significato della libertà?

Lettera

Caro figlio,

oggi ti aspettavo ma non ho visto nessuno e sono stato un po’ male.

Caro figlio lo so che è un po’ difficile venire qui dentro per te, hai

sempre qualcosa da fare quando tuo papà ti chiama.

Tu lo sai che io mi sento male quando non ti vedo, ed è già un po’ di

tempo che non ci vediamo, e desidero vederti al più presto perché

tu sei sempre nel mio cuore.

Anche tu devi farmi vedere che io sono dentro al tuo cuore.

Tu sai come soffro a non vederti.

Mi farebbe piacere vederti ogni tanto perché mi sei rimasto solo tu.

Io ti voglio tanto bene.

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Capro espiatorio

di Ester

Ero da tre mesi in Italia, perciò non capivo la lingua italiana. Non conoscevo nessuno a Padova, frequentavo solo un’amica mia connazionale.

Un giorno un’altra nostra connazionale era appena tornata dall’ospedale e stava ancora male. Questa divideva un appartamento di tre stanze con altre 2 persone, che non conoscevo. Decisi di farle visita. Quando feci per tornare a casa, uno di questi ragazzi mi disse di non buttare i soldi per il taxi perché un loro amico che era andato a trovarli mi avrebbe accompagnato lui. Io accettai. Ero però all’oscuro che lui avesse con sè della droga, e che fosse pedinato dai carabinieri, i quali hanno cominciato a seguirci mentre lui cercava di seminarli, io non riuscivo a capire. Poi sono riusciti a fermarci e appena lui è sceso dalla macchina questi hanno cominciato a picchiarlo e l’hanno ammanettato. Lui però è riuscito a scappare, gettando via la droga, che è stata poi rinvenuta dai carabinieri . In conseguenza di questo avvenimento sono stata accusata di essere la fidanzata di questo ragazzo e di essere a conoscenza della droga, che a detta delle forze di polizia era di entrambi. Dopo molte ricerche questo mio connazionale non l’hanno più trovato. Perciò per questa droga sono stata condannata io a 4 anni di carcere, ed è ormai quasi un anno che sono qua solo per avere accettato un passaggio da una persona che non conoscevo. Devono sempre avere un colpevole.

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Ricordo incancellabile

di Fatima M.

Mi trovo in questa situazione da vera disperata, un’ingiustizia che mi ha condannata.

Ho dovuto scontare un anno per un grammo di droga, e mi sento troppo lontana dalla cosa che ho di più cara al mondo: mia figlia. La cosa più difficile è stata quella di spiegarle dove sono. Troppo piccola per capire. Troppo grande per sapere. Per fortuna tutto questo incubo sta finendo, così potrò tornare ad occuparmi di lei. So che mia madre fa di tutto per lei e non le fa mai mancare nulla. Ma con me sarà tutta un’altra vita: anche se sarà dura da dimenticare e ancora più difficile ricominciare a vivere.

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La S. Messa di Natale

 

Riteniamo doveroso scrivere queste righe di ringraziamento a Mons. Martino Gomiero, Vescovo di Adria Rovigo, che anche quest’anno ci ha onorati della sua presenza, officiando la S. Messa di Natale, alla quale noi tutti abbiamo partecipato con molto interesse soprattutto durante l’omelia incentrata su un tema molto attuale e carico di significato. Un grazie all’impegno di don Damiano, da poco Cappellano del carcere, ma già in possesso di una conoscenza profonda delle problematiche ed esigenze di noi ragazzi/e detenuti/e, che io, ma penso sia un pensiero comune, ritengo un punto di riferimento importante per la nostra sopravvivenza umana spirituale. Grazie a lui è stato un Natale celebrato come si deve.

Un ringraziamento particolare lo rivolgiamo anche al gruppo corale che con canzoni e accompagnamento musicale ha dato alla cerimonia quell’armonia che la ricorrenza meritava. Un ringraziamento a tutti, e quindi anche all’Amministrazione, per l’impegno dato per far sì che si svolgesse questa celebrazione, e per aver fatto in modo che almeno una volta fossimo tutti uguali, così come siamo, per averci fatto sentire tutti uniti con un unico scopo: ascoltare la Parola del Signore, a dimostrazione che tra noi ed il mondo esterno esiste sì un muro di cinta, ma che si può, anche se simbolicamente, abbatterlo.

Chiudo nella speranza di non aver dimenticato nessuno nei ringraziamenti, ma anche di non essere dimenticati, sperando di poter avere ancora in futuro di questi incontri senza dover aspettare il Natale prossimo, e sperando che anche altri prendano esempio dalla Diocesi di Rovigo, affinché si vogliano sentire più vicini a noi, facendoci sentire parte integrante di quella società dove un giorno ci reintegreremo.

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Cuori imprigionati

 

AA.VV. “CUORI IMPRIGIONATI”, Rovigo 1998. Raccolta di poesie delle persone detenute nella Casa Circondariale di Rovigo.

Per uno “scriba” macerato fra i libri, che durante tutta la sua esistenza ha ritenuto che il mondo sia una prigione, come dice il titolo di un libro famoso scritto da un uomo che non ha avuto mai pace fino al giorno in cui ha chiuso gli occhi, ricevere fra un’alluvione di libri di ogni genere una raccolta dattiloscritta di liriche, intitolata “Cuori imprigionati” ha rappresentato una mezza sorpresa. Tanto più che sul muro del mio studio ho fatto appendere una sorta di avviso a grandi lettere, nel quale è detto: “Iddio benedica chi non mi porta poesie, chi non mi fa perdere tempo”. Invece una volta lette le prime rime, intitolate “Cuori imprigionati”, “Tu” ed “Occhi intorno”, la scoperta che, al contrario di quanto viene raccontato sulle patrie gazzette, il sentimento è ancora una realtà che esiste, addirittura vibrante, mi ha indotto a tuffarmi con grande interesse nella lettura del centinaio di pagine che costituiscono l’antologia curata da un gruppo di amici che si ricordano degli altri. Una volta terminate le liriche “Sogno riflesso (a Claudia)” e “Fili d’erba”, la sensazione provata è stata la stessa che si prova quando si riceve un dono inatteso. Perché in tutti ho trovato accanto ad ingenuità e forzature di tono, riscontrabili talora addirittura nei poeti laureati come diceva il mio amico Giacomo Noventa, una della voci più alte del nostro novecento letterario, una freschezza espressiva rara.

Al punto che mi viene da suggerire loro di continuare nel lavoro estenuante di affidare alla pagina bianca le vibrazioni dell’animo, perché ne avranno soddisfazioni insolite. In fondo più che dall’ispirazione cara alla retorica di stampo romantico, nella fatica creativa quella che conta forse di più è la tenacia del lavoro. Meglio ancora, la durata nello sforzo, come insegnano a Recanati le infinite correzioni portate da Leopardi alle sue liriche.

La mia speranza, una volta data notizia dell’emozione provata nel fissare lo sguardo su non poche liriche del dattiloscritto, è di conoscere in futuro i volti, probabilmente nascosti dietro i nomi di Rosa, Ivana, Mario, Paolo, Quirino, Luisa, Mary (cito i primi che mi vengono alla mente), per ringraziarli d’avermi permesso una cosa ai loro occhi forse assurda. Vale a dire d’avermi permesso con la loro successione di nostalgie, rimpianti, attese, sfoghi, di uscire per breve ora dalla prigione che si chiama vita, della quale parla nelle sue opere il grande Kafka. Una prigione dalla quale non si esce mai, fino al giorno in cui un angelo invisibile posa una mano sulla nostra spalla, dicendo che è arrivato il momento degli addii.

(Dalla prefazione di G.A. Cibotto. Pubblicazione curata dall’Associazione di volontarlato Centro Francescano di Ascolto, via Mure Soccorso, 5 - Rovigo).

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Quale rieducazione!

di Antonio C.

Mi chiamo Antonio, sono nato a Milano, vivo a Milano, anche se per il momento sono ristretto in carcere a Rovigo. Ho 25 anni e dall’età di 17 anni, tolto qualche mese di libertà, non ho fatto altro che girare per vari carceri del nord Italia.

Con questo non voglio fare del vittimismo o giustificare i miei reati e le mie relative condanne e neanche lanciarmi contro il sistema. Vorrei solo brevemente raccontare, per originare una riflessione sia per me che per i miei compagni che si trovano nella medesima situazione. Il grosso problema è “a mio parere” lo stato d’animo e di necessità che prova un detenuto dopo anni di ininterrotta carcerazione nel trovarsi “persona”, all’uscita di un portone, in mezzo alla società.

Economicamente a zero. Moralmente demoralizzato. Sentimentalmente senza punti di riferimento. Ed in particolare con una cattiveria interna accumulata. A mio parere ciò nasce nel modo in cui si arriva a fine pena.

Sì perché rieducare con il sistema penitenziario è difficile; però mi sembra che nella maggior parte dei casi non vengano riconosciuti nessun tipo di benefici.

La legge, e in particolare la famosa “Gozzini”, è stata creata appunto per far tornare il detenuto “persona”.

Però l’applicazione è problematica e per la maggior parte dei casi appannaggio di un ristretto numero di detenuti. Questa è una penalizzazione che vanifica le possibilità per molti di noi, perché possiamo usufruire ancora di un’opportunità.

Come un cane viene addestrato a portare un cieco, così dovrebbe un detenuto essere aiutato a ritrovare la propria dignità.

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Tormento

 

Quanto dolore ti ho dato,

tu che da tanto amore sei nato,

con tanti sacrifici ti ho cresciuto.

Sei tu la mia forza,

la luce che illumina le mie grigie giornate,

piene di tristezza e rimpianti,

sei sempre tu che sogno in queste notti segnate dalle lacrime.

Tu che al mio amore ti sei aggrappato!

Perché?

Odio chi ha costruito queste mura che mi separano da te!

 

 

 

Che cosa sanno loro di quanto ho sofferto? Credono forse di punire così la mia persona? Stare qui inerte a vegetare, sempre chiusa in una cella a non fare niente?

Ma lo sanno che a soffrire di più è la mia famiglia, come fa mio figlio ad arrangiarsi in tutto? Chi gli fa da man giare? Chi risponde alle sue domande? Chi gli rimbocca le coperte prima di dormire? Chi lo mantiene?

Ecco chi! Mia sorella che adesso deve trovare tempo anche per me e mio figlio.

E’ lei che piange tanto per me, che deve fare tanta strada per vedermi un’ora, e magari ritarda 5 minuti perché ha trovato traffico o nebbia e non la fanno entrare, così ritorna a casa disperata e mi scrive un telex che mi fa scoppiare di tristezza.

Questa è la mia grande sofferenza, cosa posso fare io?

Niente!

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