ANNO 2013

SOMMARIO anno 2013

  1. Energia e coerenza per le fatiche di questo tempo (Livio Ferrari)
  2. Nuovi volontari allo sportello Pinocchio (Giulia Rociola)
  3. Abbiamo preso un bel 100 (Francesco Carricato)
  4. I libri che ci raccontano (Annamaria Visentin)
  5. Pensare che il potere, specie in una democrazia elettiva, sia il malvagio oppressore di una società virtuosa, è un alibi micidiale (Leopoldo Sartori)
  6. Chi ci salverà se non la solidarietà? (Federico Maronati)
  7. Libri in carcere (Anna Veronese)
  8. Sono volontario? mmm... (Sergio Temporin)
  9. Ascoltare: la porta dell'accoglienza (Fabio Furini)

[Sommario]

Energia e coerenza
per le fatiche di questo tempo

di Livio Ferrari

 

Stiamo percorrendo il venticinquesimo anno di vita del Centro Francescano di Ascolto,  in un momento storico segnato dall’aumento dei conflitti sociali e della povertà nelle fasce più fragili, il tutto condito dall’arroganza del potere e da un futuro che appare a dir poco nebuloso. C’è una impellente necessità di non farsi prendere dallo sconforto e dal pessimismo, ma è necessario tirare fuori ancor più energia e fantasia nello spendersi ogni giorno per alimentare un mondo migliore, rispettoso dei diritti dei più deboli e di denuncia dei soprusi.

L’assemblea diventa perciò un momento fondamentale di confronto e proposizione per riflettere sul cammino da percorrere insieme e su quanto è necessario per alimentare progetti di speranza. il Paese è segnato pesantemente dai problemi economici e di mancanza di lavoro che stanno mettendo in ginocchio tante persone e nuclei famigliari. Ecco che in una situazione così drammatica, dove tantissime persone non sanno come procurarsi ogni giorno il cibo, diventa fondamentale l’atteggiamento di attenzione, aiuto e sostegno da parte di chi invece ha la fortuna di avere quelle risorse che gli permettono di vivere serenamente. Dalle esperienze prodotte è risultato evidente che, anche in presenza di una discreta sensibilità, non basta la solidarietà spicciola che può esprimere una fetta di popolazione, ma servono interventi e risposte strutturate come quelle che da tanti anni sta producendo il mondo dell’impegno sociale in collaborazione con i soggetti pubblici di riferimento.

Il tema scelto è “L’incontro degli occhi non conosce confini”, per cogliere il tassello iniziale dei rapporti umani, perché il primo aspetto dell’incontro tra le persone è quello dello sguardo: gli occhi incontrano, abbracciano o scrutano, ma sono sempre veri nella luce dell’esistenza, perciò l’incontro degli occhi come elemento di verità!

Per l’occasione abbiamo pensato di confrontarci su questi temi con compagni di viaggio da anni immersi nel sottobosco della solidarietà, per uno scambio di esperienze che possa aprire nuovi squarci di “possibilità”, di azioni da promuovere soprattutto per coloro a cui sono tolte quasi tutte le possibilità, a cui sono negati i diritti e gli abbracci, che divengono troppo spesso oggetto di discriminazione e separazione dai territori di appartenenza, perché queste “possibilità” possano alimentare calore ed accoglienza, rispetto e opportunità, dando significato alle esistenze non amate e calpestate.

La nostra assemblea diventa, pertanto, una occasione di confronto e dialogo rivolta a tutti coloro che hanno ancora il desiderio di conoscere e comprendere, di non dare nulla per scontato, che ritengono di poter mettersi una volta di più in gioco, per un’esistenza che si nutri di rinnovati significati ed azioni, di riflessioni e scelte conseguenti, nella volontà di farsi promotori di cambiamenti per tutti quegli occhi che quotidianamente incontriamo e che ci interrogano.

La parola sulla quale soffermarci quest’anno è: coerenza! Sì, l’assoluta necessità di coerenza nella frammentarietà dei rapporti umani, degli atteggiamenti nei luoghi di lavoro, nella difficoltà di comprensione delle diversità, in tutto ciò che però da senso e significato alle nostre esistenze: coerenza che costa, ma che ci fa crescere nel rispetto degli altri e di noi stessi. Coerenza che non è un atteggiamento in voga oggi, dove ogni giorno si può rinnegare quanto affermato  in precedenza e dove i valori vengono spesso strumentalizzati e banalizzati per gli egoistici tornaconti personali. Una coerenza, comunque, non da sbandierare e di cui essere orgogliosi, ma da vivere nella dimensione della fatica di tutti i giorni, in umiltà, coscienti della nostra storia e del nostro essere.


Il nostro dispiegarsi

Se facciamo un excursus su quanto abbiamo prodotto nel corso del 2012, possiamo senz’altro cogliere come sia in continua crescita l’impegno verso i minori autori di reati attraverso l’azione dei volontari dello Sportello Pinocchio. Un’azione che si avvale di molteplici contributi e alimenta continue collaborazioni e coinvolgimenti con le agenzie sociali del territorio. Fondamentale il rapporto che si è determinato con l’Ufficio di Servizio Sociale Minori di Venezia-Mestre e i contributi economici avuti dalla Fondazione della Cassa di Risparmio di Padova e Rovigo, oltre che dal Rotary Club di Rovigo .

Prosegue sempre con grande intensità anche il servizio rivolto alle persone in esecuzione penale, interna ed esterna.

I volontari che operano nella Casa Circondariale di Rovigo incontrano i ristretti e intrattengono rapporti per alimentare un sostegno, in primo luogo, e successivamente  l’elaborazione di progetti per misure alternative e in vista della libertà. I servizi pubblici e i familiari delle persone condannate che si rivolgono alla nostra Associazione per segnalare chi è in questo stato da prendere in carico, sono sempre in numero ragguardevole e, allora, la nostra visita presso la residenza di chi è in detenzione domiciliare, diventa un incontro che vuole preludere un’occasione di lavoro o tirocinio formativo, per costruire quei percorsi necessari a ridare dignità alle persone.

La serata di luglio dell’ormai consueto appuntamento con “Il carcere in piazza” è poi il momento clou per cercare di coinvolgere la gente rispetto al tema della giustizia e della pena, perchè attraverso una corretta informazione possa aumentare la coscenza e la solidarietà verso chi commette reati ma desidera ritornare alla legalità nel rispetto delle regole.

La cultura è uno degli aspetti importanti su cui si dispiega l’attività del Centro sin dalla sua nascita, e la biblioteca negli ultimi tre anni ha visto un sensibile aumento di prestiti, circa un centinaio, fatti non solo nella nostra provincia ma, alcuni volumi, inviati anche in altre parti d’Italia.

C’è, insomma, un gran dispiegarsi di impegno e presenza da parte dei volontari nei diversi servizi e sportelli.

E proprio questo agire ci ha fatto comprendere, da tempo, di un’esigenza impellente che hanno le persone in difficoltà che vivono nella nostra città e che per il momento viene frustrato: quello dell’attivazione di un “centro diurno aperto”.

Intendo un luogo dove possano accedere tutte quelle persone che, per i più svariati motivi, vivono una quotidianità di emarginazione. Pensiamo a chi dorme all’asilo notturno o negli appartamenti alloggio comunali che dalle 8 di mattina alle 8 di sera non sanno come spendere il loro tempo. Il loro girovagare quotidiano senza mèta crea le condizioni di un ulteriore abbruttimento interiore, alimenta la repulsione da parte di persone che si sentono “disturbate” e l’accattonaggio che si determina, in dette situazioni, impoverisce ancora di più i soggetti in questione.

Ci sono uomini e donne che provengono dalle strade della devianza, della dipendenza, della malattia psichica, e altro ancora, che necessitano di un luogo dove sentirsi accettati e dove mantenere la propria dignità di esseri umani. Dove poter colloquiare, bere da una tazza calda, leggere un giornale o rivista, magari dare una mano a mantenere un’orto, una serra, a sentirsi parte della comunità.

E’ urgente che i soggetti preposti se ne facciano carico e così si possa migliorare la qualità della vita del nostro territorio. Un obiettivo che dovrebbe porsi trasversalmente ad ogni intervento ed iniziativa, abbandonando definiti-vamente una certa modalità assistenzialistica di non risposta all’emarginazione.

In quest’ultimo decennio la nostra città ha visto un moltiplicarsi di tavoli pubblici e privati, senza che questo abbia prodotto un modificarsi significativo di tutta una serie di problematiche e disfunzioni. E’ ora di creare un contrapposto decennio in con-trotendenza: al posto dei tavoli, spesso scatole vuote e ana-cronistiche di sussistenza per gli addetti ai lavori,  mettiamo progetti da attuare, per  dare quelle risposte minime, che per diverse persone possono diventare un motivo di speranza, oltre che di sopravvivenza.

E, infine, non nascondiamoci dietro alla mancanza di risorse economiche, affermando che ci sono delle priorità, ma diamo ad ogni persona, nella sua unicità umana, quel segnale di solidarietà e quella risposta che non può essere procrastinata in continuazione, per un territorio che sappia ascoltarsi e riabbracciarsi ogni giorno.

 

 

 

 

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Nuovi volontari allo sportello Pinocchio

di Giulia Rociola

La mia attività al centro è iniziata con un percorso formativo in associazione, un passaggio necessario quando si ha a che fare con persone, soprattutto se si incontrano in un contesto disagiato come quello del carcere, bisogna prestare molto attenzione a ciò che si fa e dice, ed avere le conoscenze necessarie per poter interagire. Perché il mio desiderio era quello di fare del volontariato in carcere, anche se, ovviamente, non pretendevo di accedere subito al contatto diretto con le persone recluse, oltre che per le difficoltà burocratiche, permessi di accesso e tutto ciò che ne concerne, ma soprattutto perchè sono persone molto fragili che hanno bisogno di incontrare operatori competenti e soprattutto di esperienza, cioè che non siano alle prime armi come me, se no si rischia di provocare solo danni a persone che non ne hanno certamente bisogno. Però la questione si profilava complessa e lunga e, a quel punto, mi è stato prospettato un altro impegno, sempre nella giustizia, ma rivolto ai minori che commettono dei reati, inizia così il mio percorso di volontaria allo sportello Pinocchio. Devo dire che sono molto entusiasta di questa possibilità: oltre a mettermi in gioco con questi ragazzi, che non sono dei mostri o persi come li descrivono spesso sui giornali, ma hanno solo bisogno di ritrovare la retta via che in adolescenza è possibile smarrire a volte, anche il gruppo di cui ora faccio parte mi fa sentire a mio agio. E’ stata per me significativa la prima riunione in equipe, nel corso della quale noi volontari, con il supporto dell’assistente sociale del Centro Servizio Sociali Minori di Venezia-Mestre, abbiamo discusso insieme dei ragazzi che stavamo seguendo e quelli che avremmo seguito, interagendo e confrontandoci sui problemi che erano emersi e sulle scelte da produrre per rendere il più efficace possibile l’approccio con i soggetti e il percorso di fare insieme: mi è piaciuta la condivisione e lo scambio reciproco ad ogni caso. Anche se, tranne l’assistente sociale e il direttore dell’associazione, non siamo dei professionisti, negli incontri di sportello si ha come la sensazione lo fossimo, per il reale interesse per questi ragazzi, l’attenzione minuziosa ai particolari da tenere in considerazione e lo sforzo continuo ad essere punti di riferimento per questi giovani. Questa situazione mi ha coinvolto molto, è importante, per chi come me è appena arrivata, vedere lo spirito che anima i volontari, come ci credono e sono coinvolti, motivo per cui ritengo di essere sulla strada giusta.

 

 

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Abbiamo preso un bel 100

di Francesco Carricato

 

Quest’anno parto dalla fine, ovvero dall’inserimento del mio nominativo da parte del quotidiano la “Voce di Rovigo” nell’elenco dei 100 polesani che si sono distinti nell’anno 2012. Al di là della soddisfazione personale, che pure è presente, penso che questo sia un piccolo riconoscimento, sia pure simbolico, a tutto il lavoro che da oltre a sei anni a questa parte, vede protagonista lo Sportello di “Avvocato di Strada” di Rovigo.

Il nostro indubbiamente è un impegno “silenzioso”, che non fa rumore, a tutela degli ultimi e degli indifesi, ed il fatto che una testata giornalistica locale abbia apprezzato il lavoro svolto è un segnale importante, oltre che un motivo d’orgoglio per tutti noi avvocati di strada.

Durante ‘anno appena trascorso, a parte l’attività ordinaria dello sportello, abbiamo visto risolversi favorevolmente l’emergenza umanitaria per tutti i richiedenti asilo provenienti dal suolo libico a seguito della guerra civile, dal momento che il Ministero dell’Interno ha deciso di riconoscere a tutti coloro che avevano proposto ricorso avverso le decisioni sfavorevoli il diritto ad ottenere un permesso di soggiorno di un anno per motivi umanitari. In questo modo tutti i ricorsi da noi incardinati nel corso del 2011 e del 2012 hanno assunto un significato decisivo per la vita di queste persone, che solo per il fatto di aver presentato il ricorso hanno potuto beneficiare della soluzione prima indicata, restando in tal modo legittimamente nel territorio nazionale.

Lo scorso 30 settembre ho partecipato, in qualità di referente dello Sportello rodigino di Avvocato di strada, all’iniziativa di sensibilizzazione e di informazione rivolta ai migranti moldavi “Nessuno è solo al mondo (Gente di nessuno)”, pensata dall’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni in collaborazione con le Associazioni della Diaspora moldava in Italia.

L’incontro, che ha contemplato prima la proiezione dell’emozionante spettacolo teatrale “Gente di nessuno”, del regista moldavo Dumitru Crudu, e in secondo luogo un intenso e a tratti toccante dibattito in sala, mi ha permesso per la prima volta di “cambiare occhi” e prospettiva, calandomi per un pomeriggio nei difficili panni di chi deve lasciare il proprio Paese e la propria famiglia per affrontare un “viaggio della speranza” denso di incognite e con pochissime certezze, spesso trovando enormi difficoltà di inserimento in Italia, anche a causa di una legislazione e di una burocrazia inefficienti ed ipocrite.

A partire dal 21 novembre e sino al 4 dicembre Livio Ferrari ci ha dedicato il suo tempo e la sua esperienza negli incontri di formazione “Perché vivere secondo le regole del mondo?”; il primo appuntamento è stato dedicato ai rapporti interpersonali e motivazionali, il secondo alle capacità relazionali dell’operatore sociale, mentre quello conclusivo si è incentrato sulla relazione d’aiuto. Tutte le lezioni sono state interessanti e coinvolgenti, ed hanno visto una buona partecipazione anche di nuove leve, che speriamo di poter coinvolgere a breve nella nostra attività quotidiana di Sportello. Sicuramente è stato importante dedicare degli incontri formativi non a temi di carattere strettamente giuridico o sociale, ma alle nostre motivazioni ed allo “stile” che il volontario e l’operatore sociale devono avere sempre ben presente durante il proprio servizio. Si è poi partecipato a molteplici incontri del Coordinamento delle Associazioni di Volontariato che si occupano di carcere e di persone senza fissa dimora.

Come potete vedere lo Sportello rodigino è ben vivo, attivo ed impegnato, ed accumula sempre più nei propri aderenti quell’esperienza e quelle capacità che senz’altro all’inizio erano carenti e che sono quanto mai preziose per affrontare consapevolmente e con convinzione un’attività di volontariato. I giovani che si sono avvicinati all’esperienza di Avvocato di Strada hanno proseguito convinti e motivati anche dopo la laurea e l’inizio del praticantato; pur non potendo in prima persona patrocinare cause o assistere casi, hanno collaborato attivamente e con entusiasmo alle nostre attività, anche quelle formative e di supporto.

Lo Sportello di Rovigo di Avvocato di Strada inizia ormai a “diventare grande” e ad essere considerato un punto di riferimento all’interno della realtà sociale rodigina, sia per le Istituzioni: Comune, Provincia, Casa Circondariale, sia per le altre associazioni di volontariato presenti sul territorio che si occupano di disagio sociale e di assistenza ai senza fissa dimora. Ciò ci consente di acquisire sempre più consapevolezza del nostro ruolo e dell’importanza della nostra, seppur piccola, attività di volontariato. Tra l’altro, nel 2013 vorremmo riprendere il proposito, mai sinora attuato, di svolgere il nostro servizio, oltre che nella sede presso il Centro Francescano di Ascolto, anche andando a trovare direttamente le persone nei luoghi ove si concentrano i senza fissa dimora, come l’asilo notturno e le mense.

Di tutto questo, e di tutto ciò che siamo riusciti e riusciremo a combinare di buono, non possiamo che ringraziare il Centro Francescano di Ascolto, che ci ha dato e continua a darci l’opportunità di svolgere un servizio così delicato ed importante all’interno della realtà sociale rodigina.

 

 

 

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I libri che ci raccontano

di Annamaria Visentin

 

Dalla collaborazione  tra l’Archivio di Stato e il Centro Francescano di Ascolto è nata nel mese di ottobre la rassegna “Storie e pensieri per riflettere. I libri che ci raccontano”. Sono stati scelti temi diversi, proprio con l’intento di offrire uno sguardo ampio su vari aspetti del vissuto umano, così da interessare un pubblico quanto più eterogeneo possibile.

Le presentazioni dei libri si sono tenute nella sala Sichirollo dell’Archivio di Stato che, nella figura del suo direttore Luigi Contegiacomo, ci ha dato tutto il supporto tecnico e operativo necessario.

L’apertura del ciclo è avvenuta con don Gianni Azzi, autore di “Pastori, educatori e guide”, volume presentato da don Bruno Cappato, direttore del periodico diocesano “La Settimana”. Don Gianni Azzi ha una lunga militanza apostolica, è stato infatti ordinato sacerdote il 28 giugno 1959 ed attualmente è delegato vescovile per gli Istituti di vita consacrata e incaricato per la promozione del sostegno economico della Chiesa; opera nella parrocchia di Santa Maria delle Rose a Rovigo. Ha pubblicato il volume “Protagonisti ed apostoli” e, tra l’altro, scrive per il giornale diocesano La Settimana per il quale, da anni, cura proprio le biografie dei sacerdoti diocesani. “Pastori, educatori, guide” raccoglie il ricordo dei sacerdoti per i quali don Gianni ha scritto sul settimanale diocesano, su “Avvenire”, su “L’Osservatore Romano”, in pubblicazioni o nei fogli parrocchiali. Contiene tre gruppi di figure: i vescovi, gli educatori del seminario e i sacerdoti nel ministero delle parrocchie. “Dai pur brevi tratti il lettore – afferma don Azzi nella prefazione - potrà avere ben chiara la consapevolezza che sono stati, questi nostri preti, dei veri pastori e che han volato alto nella loro vita spirituale. Volumi sono stati scritti per mons. Giacomo Sichirollo, mons. Ernesto Vallini, mons. Adelino Marega, don Alberto Settimio Rigolin, mons. Mario Giulianati, mons. Olinto Secchiero, mons. Agostino Partesani, padre Giuseppe Santi, don Lazzaroni, don Dal Ben, don Stocco, don Lavarda e per altri che qui sarebbe lungo elencare. Quella che i nostri preti hanno dato è stata un’alta testimonianza di vera carità, possono considerarsi solo la punta di un grande iceberg”.

Nel secondo incontro, Luigi Contegiacomo ha presentato “Era d’estate” di Daniela Zampirollo, un’insegnante che ha trasformato la sua battaglia contro il morbo di Parkinson in una rinascita artistica diventando scrittrice e pittrice di talento. Daniela Zampirollo è nata e vive ad Adria, ha insegnato per tanti anni in una scuola statale per l’infanzia. Nel 2004 è uscita la sua prima raccolta di poesie, dal titolo: ”E io, come loro…”, nel febbraio 2005 la seconda: ”Tempo di girasoli”, poesie d’amore, entrambe pubblicate da Apogeo Editore. A maggio del 2005, per una mostra di pittura-poesia con il pittore Renzo Rovoletto, è uscito il libretto “Emozioni”. Ad aprile 2006 esce: “Era d’estate. Io e il signor Parkinson”. A maggio del 2008 è uscito un libro di fotografia di Roberto Conti “Ortigara, montagna degli alpini”, dove Daniela ha commentato con emozione le sequenze fotografiche di Roberto. Sempre nel 2008 viene pubblicato il libro di poesie “Il pescatore di ricordi”. Da circa tre anni Daniela ha iniziato a dare forma alle sue emozioni anche attraverso il colore. Nel marzo del 2007 ha esposto i suoi primi quadri con il pittore Renzo Rovoletto presso la sala Cordella di Adria. In settembre dello stesso anno espone per la prima volta da sola. La sua seconda mostra personale da sola è nel 2008.

Il terzo libro “Il delitto della pena” è stato presentato da Livio Ferrari, quale garante dei diritti delle persone private della libertà del Comune di Rovigo con gli autori Franco Corleone e Andrea Puggiotto che hanno sostenuto che difendere i diritti dei detenuti non è un problema umanitario, bensì di legalità costituzionale: i diritti sono universali, se si restringe il campo di applicazione, vengono trasformati in privilegi. Per l’occasione è stata allestita una mostra fotografica con una serie di istantanee di Luca Pasqualini scattate nel carcere di via Verdi.

Alle vite di transessuali e transgender è stato dedicato l’incontro successivo con la presentazione da parte mia, in quanto responsabile dello “Sportello a Colori”, del libro “Evviva la neve” della giornalista Delia Vaccarello. Con grande partecipazione affettiva e totale mancanza di pregiudizi, l’autrice segue il percorso di cambiamento, meglio dire “transizione”, di alcune persone che hanno deciso di adeguare il loro corpo al loro “sentire”. “Evviva la neve” è un libro inchiesta sulla transessualità. Tra i più delicati, avvincenti, documentati, importanti sull’argomento, che fa tabula rasa di tanti luoghi comuni e stereotipi, apre interrogativi e suscita emozione. Racconta di rinascite. Di vite offese dai pregiudizi che scuotono le nostre coscienze, dice Giovanni Bachelet. Voci sferzate dai rigori del gelo sociale che all’improvviso può allentarsi, svanire persino, se a un tratto, morbida, cade la neve.

Come ci si prepara a un’operazione di cambiamento di sesso da femmina a maschio o viceversa? E il dopo, come sarà? Lo raccontano i protagonisti, mentre un reportage dalla sala operatoria fotografa il lavoro dei chirurghi, i dubbi e le conquiste. Il libro racconta le spinte che portano a una decisione da cui non si torna indietro. Registra le reazioni di familiari, colleghi, amici (“Tu mi rubi il padre”, dice una figlia a un papà che diventerà donna). Dà voce a coloro che “si piacciono così”, in equilibrio tra maschile e femminile. Racconta i rapporti d’amore: ora felici, ora abortiti per via del pregiudizio che bolla le persone trans come prostitute, laddove si tratta invece di medici, operai, centraliniste. Narra le speranze e i tentativi di cancellare il passato. Entra nell’intimità delle persone coinvolte, ma dà conto anche delle leggi, delle difficoltà sul lavoro, delle metodiche di intervento, dei centri a cui rivolgersi. Un viaggio che tocca le nuove frontiere della sessualità e del sentire, della chirurgia e dell’identità. Evviva la neve si può considerare il migliore libro-inchiesta scritto in Italia sul mondo trans e trans gender, un reportage avvincente, curato, documentato e di grande sensibilità. Delia Vaccarello, scrittrice e giornalista, cura da dieci anni la pagina di tematiche gay e lesbiche “Liberi tutti” sul quotidiano l’Unità. Collabora con il Comune di Venezia per i laboratori contro l’omofobia nelle scuole e tiene corsi di media e orientamento sessuale alla scuola di giornalismo di Bologna. Ha scritto il romanzo “Quando si ama si deve partire” e due opere sugli adolescenti (L’amore secondo noi e Sciò!). Ha curato le sette raccolte di racconti “Principesse azzurre, racconti di amore e di vita di donne tra donne”, tutti per le edizioni Mondadori.

Anche questo incontro è stato arricchito dalla mostra “Transessualità: tra mito e realtà”, messa a nostra disposizione dal MIT (Movimento Identità Transessuale) di Bologna.

Per finire “Il male minore” di don Gino Rigoldi, presentato ancora da Livio Ferrari. Virginio Rigoldi, detto Gino, in questo libro racconta le storie di bambini che vivono per le strade e affronta il problema della prostituzione minorile, della droga, della criminalità e della violenza giovanile. ‘I più violenti sono i giovani italiani’ afferma don Rigoldi, ‘non gli stranieri’. In “Il male minore” parla di loro, i minori detenuti al Beccaria di Milano, molti li ospita in casa come figli: «Gli stranieri sono privi di mezzi, gli italiani soprattutto di valori». Più di trent’anni come cappellano al Beccaria, il carcere minorile di Milano, lo hanno forgiato ad affrontare qualunque tipo di delinquenza giovanile, ad ascoltare il piccolo rapinatore e il pusherdi droga come il ragazzo che ha preso una pistola e ha ucciso. Don Gino Rigoldi non si stupisce più di nulla, non ha paura di nessuno di quei ragazzi, li guarda dritto negli occhi, e li ama uno per uno, così come sono, con i loro sbagli, le loro incoscienze, le debolezze di adolescenti sbandati e confusi. «Un ragazzo che ha commesso un omicidio non mi spaventa», osserva, «non mi fa un grande effetto, dopo tanti anni ne ho viste di cotte e di crude. E, poi, non sono mai stato minacciato dai ragazzi. Le uniche minacce che ho ricevuto nella mia vita sono di adulti».

Don Gino non è mai stato un “obbediente”, uno che segue schemi prefissati, nel 1973 a Milano ha fondato Comunità Nuova, un’associazione non profit per il recupero del disagio giovanile, racconta della sua esperienza di educatore. Dalla sua esperienza di vita in mezzo ai ragazzi del carcere e della comunità è scaturito il libro “Il male minore” (Mondadori), in cui il cappellano del Beccaria analizza con molta semplicità e lucidità il problema della devianza giovanile. «Il titolo del libro fa riferimento al gioco di parole sul termine “minore”. Ma soprattutto vuole dire che i ragazzi non sono mai perduti, dietro ogni delinquenza c’è sempre una speranza. Tutti possono essere recuperati». Per i giovani assassini, purtroppo, il discorso è differente: «Un ragazzo che ha commesso un omicidio, una volta scontata la pena, difficilmente riesce a superare il senso di colpa, il dolore per il male procurato, a dimenticare, a riconciliarsi del tutto con sé stesso. Per lui sarà più difficile tornare a una vita normale. Il delitto gli rimarrà dentro come un peso».

Eppure, sono proprio i ragazzi che si sono macchiati dei reati più gravi che don Rigoldi prende con più benevolenza in casa sua, alla Cascina Sant’Alberto di Rozzano, hinterland meridionale di Milano. In questa ex casa padronale, da tanti anni il prete accoglie mediamente 14-15 ragazzi usciti dal carcere, che rimangono a vivere con lui finché non trovano una casa e un lavoro e si sistemano per conto loro.

«Sono di diverse nazionalità», spiega don Gino, «al momento ci sono due italiani, poi tunisini, marocchini, albanesi, e presto arriveranno due rumeni. Fra gli italiani, io tendo a prendere con me i casi più difficili, i giovani che hanno commesso un omicidio, perché per loro il recupero e il reinserimento nella società, dopo l’istituto penale, è più lento e complicato». Per loro, don Gino è molto di più di un prete, è un padre.

Comprensivo, ma anche intransigente, perché non è con il buonismo e la pietà, ma con l’autorevolezza che si conquistano fiducia e rispetto dei giovani: «Fin da piccolo sono stato abituato a non classificare le persone come “buone” o “cattive”. I giovani bisogna fissarli negli occhi e trattarli da grandi. Ma io sono anche uno che si arrabbia molto, i miei ragazzi lo sanno. E quando dico un “no”, lo dico ben forte. La convivenza in casa è serena. Se vogliono litigare io li lascio fare, perché i conflitti non risolti logorano, lo scontro aperto è necessario per risolvere i problemi». Oggi Comunità Nuova è diventata una struttura vasta e capillare di sostegno e recupero sui fronti delle devianze dei minori, delle tossicodipendenze, dell’immigrazione, con 80 impiegati assunti, una serie di servizi residenziali a Milano e fuori e un impegno molto attivo nelle periferie e nei quartieri più degradati. «Ora lavoriamo tanto con i giovani sudamericani», spiega don Rigoldi, «e anche con i rumeni, andandoli a incontrare nei loro luoghi di aggregazione e in quelli della prostituzione».

Ma la delinquenza giovanile sta cambiando volto: «Anni fa, il 90 per cento dei detenuti al Beccaria erano stranieri; oggi metà sono italiani. Ho paura che il lavoro di assistenza e recupero dei giovani connazionali sarà la grande difficoltà del prossimo futuro. Se per gli immigrati la criminalità è quasi sempre legata a povertà materiale ed emarginazione, per gli italiani la delinquenza è legata a una povertà di valori, è diventata una forma di affermazione di sé, un modo per sentirsi forti, per riscattarsi dal degrado della periferia».

“Ho scritto questo libro – dichiara don Gino – perché ho vissuto a sufficienza per capire con qualche approssimazione alcune regole del vivere e per proporre ai giovani un’esistenza bella e anche buona, per se stessi e per la società che condividiamo. Perché mi pare tipica di questi tempi una “normalità” delle scelte correnti, del senso comune che, secondo me, normale proprio non è. C’è un bel salto di qualità fra le scelte personali e sociali e i valori etici o politici, laici o religiosi che vengono dichiarati. Penso per esempio alla decadenza “tranquilla”, “normale”, delle relazioni fra gli esseri umani, con particolare riferimento all’educazione dei ragazzi in famiglia e nei luoghi di aggregazione a loro dedicati. Perché non ne posso più delle drammatiche denunce di problemi piccoli e grandi dell’umanità, che si fermano appunto alla denuncia senza assunzioni di responsabilità. La mia “normalità” mi spinge a pensare e ad agire con la convinzione, forse semplicistica ma spesso efficace, che tutti i problemi “sono fatti per essere risolti”. Solo la morte non ci appartiene: questa impresa riguarda il Padreterno. Perché credo che noi, in Italia e in Europa, insieme con le migliaia di stranieri affluenti, abbiamo una grande ricchezza di intelletto e di passione, soprattutto nei giovani, che ha bisogno di essere riconosciuta e valorizzata.

Gli  incontri della rassegna bibliografica sono stati tutti di grande interesse sia sotto l’aspetto emotiva. Proprio per questo, il mio unico rammarico è per la risicata partecipazione di pubblico a tutti gli incontri, anche a quelli che hanno visto la presenza di personaggi molto noti. E’ pur vero che, oramai, anche la nostra piccola città offre svariate occasioni di incontro, spesso contemporaneamente, ma è anche vero che avrei previsto un’adesione maggiore da parte del territorio e anche dei volontari della nostra Associazione… magari prendendo a braccetto un amico o un’amica e facendo la strada insieme per un saluto e un “siamo qui!”.

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Pensare che il potere,
specie in una democrazia elettiva,
sia il malvagio oppressore
di una società virtuosa,
è un alibi micidiale

di Leopoldo Sartori

 

Gli anni grigi che ci siamo lasciati alle spalle e quello appena iniziato non ci fanno intravedere l’uscita dalla depressione che ha colpito l’occidente, in particolare i paesi dell’Europa meridionale: Grecia, Spagna, Portogallo e Italia. Quest’anno avevo pensato di fare un puzzle di titoli di giornale senza produrre alcun commento, salvo il sottotitolo degli stessi, quale contributo a Informale, avrei dovuto riempire cento pagine. La lettura giornaliera, delle testate più rappresentative dell’informazione: Corriere della sera, Repubblica, Stampa, Il Fatto, Il Giornale, Libero, settimanali come Famiglia Cristiana, Espresso e Panorama, mi hanno fornito un quadro pessimo della nostra società, dei nostri politici e governanti. Ecco, non vedo in fondo la luce e la speranza di una società più giusta, più equa e meno individualista. Ho cercato quindi ispirazione sui libri partendo da una massima suggeritami da un amico, che è diventato il titolo di questo mio contributo. Mi sono messo davanti alla mia libreria e ho scelto di rileggere “L’etica protestante e lo spirito del capitalismo” di Max Weber e di leggere “Sulla libertà” di John Stuart Mill. Il secondo è un volume che avevo acquistato già da molto tempo e mai letto. L’ho scelto istintivamente per il titolo “Sulla libertà”, perché in questi anni ho raggiunto la convinzione che la nostra tanto conclamata “democrazia”, “il potere al popolo sovrano” e tutte quelle belle frasi che vorrete aggiungere, sono diventate parole vuote, alle quali possiamo dare solo questi significati: siamo liberi di protestare sottovoce (altrimenti…vedi G8 di Genova…) siamo liberi di votare (ma poi fanno quello che vogliono anche in barba ai tanti referendum che abbiamo votato).

Merita fare una ulteriore premessa: il libro di Mill è stato concepito nel 1854 e pubblicato nel 1859, e riporto una pagina da me liberamente riassunta, esortandovi a meditarla:

“per cristianesimo intendo tutto ciò che è ritenuto tale da tutte le chiese e sette, vale a dire le massime e i precetti del Nuovo Testamento. Questi sono considerati sacri e accettati come legge da tutti coloro che si professano cristiani. Tuttavia non è esagerato dire che nemmeno un cristiano su mille orienta e giudica la propria condotta individuale in rapporto a queste leggi. Il suo modello di riferimento è la consuetudine del suo paese, della sua classe di appartenenza o della sua confessione religiosa. In tal modo egli ha da un lato, un insieme di massime etiche che ritiene siano state date da una saggezza infallibile come regole per dirigere la sua condotta; dall’altro lato, osserva una serie di giudizi e pratiche quotidiane che fino ad un certo punto concordano con alcune di queste massime, un po’ meno con altre, rispetto ad altre ancora sono in aperto contrasto, e nel complesso costituiscono un compromesso tra la dottrina cristiana e gli interessi e le suggestioni della vita mondana. Al primo genere di criteri il cristiano dà il suo ossequio; al secondo la sua effettiva obbedienza. Tutti i cristiani credono: che i poveri, gli umili e coloro i quali sono maltrattati dal mondo saranno beati; che sia più facile per un cammello passare per la cruna di un ago, che per un ricco entrare nel regno dei cieli; che si deve amare il prossimo come se stessi; che se qualcuno ruba loro il mantello, devono dargli anche l’abito; che se si vuole essere perfetti bisogna vendere tutto quanto si possiede e donarlo ai poveri. Essi sono sinceri quando dicono di credere in queste cose. Credono in ciò allo stesso modo in cui si presta fede a quanto si è sempre sentito lodare e non si è mai sentito mettere in discussione. Ma essi credono in questi precetti, nel senso di una credenza che regola la condotta, solo fin tanto che sono soliti agire in base ad essi. I precetti nella loro integrità servono per colpire gli avversari: ed è sottinteso che sono impiegati (ove possibile) come giustificazione di tutto ciò che gli uomini ritengono lodevole fare…I precetti (le massime etiche) non hanno nessuna influenza sui comuni credenti, cioè non hanno nessun potere sulle loro menti. I credenti manifestano un rispetto abitudinario per la parola dei precetti, ma non un sentimento che vada dalle parole alle cose significate e costringa la mente a farli propri, rendendoli conformi alla lettera”. Qui ho trovato l’Italia, la Grecia, la Spagna e il Portogallo.

 

Il libro di Max Weber è stato pubblicato nel 1905. Di questo mi preme riportare alcuni brani su cui riflettere, tenendo ben presente quando è stato scritto:

“Un’occhiata alla statistica professionale di un paese di confessioni religiose miste suole mostrare, con una frequenza che colpisce, un fenomeno che è stato vivacemente discusso più volte nella stampa e nella letteratura cattolica, e nei congressi cattolici in Germania: il carattere prevalentemente protestante sia della proprietà capitalistica e dell’impresa che degli strati superiori e più colti del ceto operaio, ma anche e soprattutto del personale delle imprese moderne dotato di una superiore preparazione tecnica e commerciale... Non solo ma quasi ovunque lo sviluppo capitalistico, nell’epoca in cui fiorì, ebbe piena possibilità di trasformare i ceti sociali della popolazione e di articolare le professioni secondo i suoi bisogni, noi costatiamo come le cifre della statistica confessionale esprimano questo fenomeno”.

“Si deve considerare ciò che oggi speso si dimentica: come la Riforma (Lutero, Calvino etc.) non ha significato tanto l’abolizione del dominio della Chiesa sulla vita in genere, quanto piuttosto la sostituzione della forma che esso (dominio) aveva fino allora posseduto con una forma diversa. E precisamente la sostituzione di un dominio estremamente comodo, che per più aspetti era diventato quasi soltanto formale, con una regolamentazione dell’intero modo di vivere che era infinitamente pesante e veniva preso sul serio, che penetrava nella più ampia misura pensabile in tutte le sfere dell’esistenza domestica e pubblica...il dominio della Chiesa Cattolica “che punisce gli eretici, ma è indulgente con i peccatori”. Non fu un eccesso, ma un difetto del dominio religioso ecclesiastico sulla vita, ciò che trovarono deplorevole proprio quei riformatori che emersero nei paesi economicamente più sviluppati”.

“La diffusione generale di una assoluta mancanza di scrupoli nell’affermazione del proprio interesse materiale, pecuniario, era ed è proprio una caratteristica specifica di paesi il cui sviluppo capitalistico borghese era ed è rimasto arretrato – se misurato secondo i criteri dello sviluppo occidentale. Come sa ogni fabbricante, appunto la carente coscienziosità dei lavoratori di tali paesi, per esempio dell’Italia diversamente dalla Germania, è stata e in certa misura è tuttora uno dei principali ostacoli al loro sviluppo capitalistico. Il capitalismo non si può servire dell’uomo d’affari che nel suo comportamento esterno appare del tutto privo di scrupoli.”

Qui ho trovato la differenza tra Italia e il resto delle altre nazioni occidentali che fanno parte del G8. Non esiste in Germania, in Inghilterra, negli USA, in Francia che gli evasori siano considerati vittime del fisco; non esiste che concussi e concussori siano di fatto protetti dalle leggi che si sono fatti e/o fatti fare; non esiste che possa salire/scendere, rimanere in politica chi viene, anche semplicemente inquisito per reati contro lo Stato e/o per scandali che riguardano la vita privata. Ma soprattutto non esiste in quelle società che il popolo sia accondiscendente con questi individui, che veda in loro i salvatori della patria. Una società, quella italiana, sicuramente più del 40%, che vede in uomini amorali, corrotti e corruttori la possibilità di ripresa economica e un buon governo, non può che essere una società che non conosce né etica né morale, che usa la religione contro gli altri mentre si assolve con se stessa.

Rimango pessimista su soluzioni a breve che modifichino il pensiero unico dominante nella società italiana, individualismo e è fatto di gente onesta, moralmente e eticamente corretta, ma che nulla può contro la “tirannide della maggioranza aggressiva” che soprattutto in questi ultimi 20 anni ha attirato a sé, corrompendola, una parte sana della società.

Se davvero molti italiani sono indotti a cambiare idea per una buona performance televisiva, sono molto preoccupato per il mio Paese.

 

 

 

 

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Chi ci salverà se non la solidarietà?

di Federico Maronati

 

Mentre pensavo a cosa condividere in questo articolo, molti sono i pensieri che mi hanno fatto visita. Alcuni personali sulle motivazioni del mio servizio, altri rivolti alle persone che ho incontrato e incontro ogni giorno bisognose di molte cose, ma soprattutto di relazioni autentiche, altri pensieri ancora rivolti alla situazione sociale ed economica in cui si trovano i Paesi cosiddetti industrializzati come l’Italia, che sfruttano, spesso sprecano, le risorse delle generazioni future e amplificano la forbice della diseguaglianza sociale che progressivamente, ma inesorabilmente, si allarga.

Credo che tutti questi elementi siano fra di essi collegabili attraverso un denominatore comune che si chiama “solidarietà”, quella solidarietà di chi ha ricevuto di più e dovrebbe innanzitutto riconoscerlo per condividerlo con chi ha ricevuto meno o fa più fatica a stare al passo competitivo e veloce delle dinamiche economico sociali di questi tempi.

Per me fare volontariato significa questo, per certi aspetti è un “dovere” dettato dalle maggiori opportunità di chi ha ricevuto di più, rispetto a chi a ricevuto meno, a volte molto meno o in alcuni casi nulla, cercando per quanto possibile e per quanto capace di dedicare una parte della mia risorsa più importante, “il tempo”, a persone che sono circondate da minori opportunità o vivono condizioni avverse, scivolando nella soglia del “bisogno e della difficoltà”, rischiando di essere definitivamente espulse dalle regole del perbenismo, dell’indifferenza ed egoismo di una società sempre più individualista e rivoltata su se stessa. Prima di acquisire una maggiore sensibilità verso le persone bisognose, la loro esistenza e vicinanza mi sembrava cosa troppo sgradevole per cui cercavo, per quanto possibile, di evitarle. Le persone in condizione di bisogno spesso “disturbavano” la mia voglia di “orticello tranquillo e di serenità”, e la giustificazione alla mia coscienza di questo atteggiamento, a volte anche di ostilità, era orientata ad accusare le persone stesse delle loro condizioni di difficoltà, motivo per il quale io non ero tenuto a dare conto del mio. Certamente se analizziamo le storie di persone, giovani, ragazzi che si trovano in determinate condizioni, fra queste troviamo una relazione causa-effetto fra scelte sbagliate e conseguenze delle stesse, per le quali ogni persona adulta deve assumersi le proprie responsabilità, ma ritengo che molte condizioni esterne favorevoli o sfavorevoli, possono indurre le stesse persone a scelte profondamente diverse.

Nell’incontro con i ragazzi in difficoltà nell’ambito del servizio che cerco di svolgere, il più delle volte sono loro che offrono qualcosa a me, anche se penso di essere io ad aiutare loro. Si perché con la loro storia sono occasione di profonde riflessioni, con il loro impegno nel cercare di recuperare agli errori commessi o di rialzarsi dalla fatica di vicissitudine poco edificanti, sono esempio di impegno anche per la mia quotidianità, ma soprattutto mi aiutano a ricordare di quante e quali condizioni favorevoli la mia vita sia ricca, certamente alcune costruite e conquistate con fatica e determinazione, ma quando si acquisiscono determinati standard, il rischio di perdere di vista il reale valore è alto, come il rischio di trasportare su parametri di ordinarietà e a volte di insoddisfazione, condizioni favorevoli, solo perché diventate routine.

Le persone in difficoltà normalmente sono deboli, con mezzi minimi a volte insufficienti, spesso disperate dalla mancanza di una prospettiva di vita che meriti di essere vissuta in totale pienezza. Per la mia esperienza, finora è stato meno frequente vedere persone performanti, affettivamente equilibrate, economicamente agiate, socialmente riconosciute e posizionate, ritrovarsi in condizioni di difficoltà, anche se penso che la sofferenza quella profonda del cuore, quella degli affetti, delle relazioni, sia molto più diffusa di quanto pensiamo, solamente che viene “sedata” con una serie di surrogati che apparentemente sembrano non far emergere la presenza di difficoltà. Ritengo che questa sia una forma di disagio “embrionale” dalla quale possano sfociare scelte e condizioni tendenzialmente critiche.

Siamo una società in carenza di valori, dove quello della persona in quanto tale si sta perdendo, a scapito di un valore prestazionale della stessa, e dove il fine giustifica ogni mezzo, perché non c’è tempo o non c’è voglia di fermarsi ad aiutare chi ha un passo più lento del nostro.

L’attuale crisi socio-economica, oltre che farci conoscere strumenti come lo spread, il Pil, ecc. credo stia facendo conoscere purtroppo a molte famiglie e persone la precarietà in senso lato, per questo ritengo sia necessaria una riflessione seria e profonda per tutti noi! Assistiamo a situazioni nelle quali famiglie apparentemente tranquille e ben inserite in un tessuto socio economico, con il proprio lavoro, che per una serie di vicissitudini quali la perdita del lavoro, il mutuo, la cassa integrazione, ecc. rischiano nel giro di pochi mesi di essere travolti di una inaspettata quanto crudele nuova condizione di bisogno, che non avrebbero immaginato fino a quel momento e che potrebbe dar vita a connessioni di avvitamento tali da portare quella famiglia/persona in una condizione di profondo bisogno.

Questa famiglia potrebbe essere la nostra, nessuno di noi è immune da questo rischio, anche per questo dovremmo maturare una sensibilità diversa rispetto la solidarietà nei confronti delle persone in difficoltà e allungare la mano verso coloro che cercano aiuto per non cadere o per risollevarsi da condizioni di bisogno ed emergenza.

 

 

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Libri in carcere

di  Anna Veronese

 

Chissà se è vera l’equazione libri e libertà che i vecchi professori hanno cercato di passarmi... Mentre mi avvio verso il carcere con i borsoni carichi di libri mi domando il senso del mio servizio.

Mi piace sedermi nella saletta e disporre in vista i libri che ho scelto con cura cercando di soddisfare le richieste delle detenute, o che ho portato sperando di intuire interessi, anticipare desideri.

Preparare la lista dei libri da portare non è tempo frettoloso, è tempo pieno di nomi, volti, storie... Paola mi ha chiesto qualcosa di leggero, ridendo dice di “evasione”...

Lucia vuole ripensarsi e chiede storie vere di vissuti faticosi, Daniela solo thriller per vincere la noia e non pensare a niente, Daiana storie di ragazzi per capire dove si è persa la sua storia di ragazza, Claudia disegna, vuole un libro sul Rinascimento, Giovanna ha una bimba fuori che l’aspetta e mi chiede pagine di psicologia evolutiva per essere una brava madre, Nicoletta non ha mai viaggiato e le piacerebbe conoscere il mondo almeno virtualmente, vuole scegliere cosa visiterà quando sarà  fuori...

Io rincorro questi pensieri e mi accorgo che i libri davvero nascondono tra le righe la possibilità di ripensarsi e, in qualche caso, trovando la nostra storia alla fine di un qualsiasi paragrafo, incarnata in un personaggio di passaggio o nel protagonista, non ci allontanano dal mondo, ma paradossalmente ci rimettono nel mondo reale, fatto di volti, un mondo dove c’è posto per tutti i volti.

Poi mi imbatto nella notizia che arriva dal Brasile di un esperimento varato in quattro carceri, grazie a una legge appena approvata. Dice che ogni detenuto potrà leggere un libro al mese — di letteratura, filosofia o scienza — farne una relazione scritta «con proprietà di linguaggio e accuratezza, dimostrando di averne compreso il valore e il senso» e ottenere in cambio «quattro giorni di sconto pena». Non più di un libro al mese, per ora. Dodici libri all’anno, l’equivalente di 48 giorni di libertà in più. «Chiunque di loro avrà una visione più larga del mondo» hanno scritto nella motivazione, quando l’orizzonte si allarga crescono possibilità di ripartire, rialzarsi. Quanto siamo lontani con la nostra legislazione da un’idea così semplice, generatrice di fiducia, come dire so che anche qui puoi crescere come persona ed affacciarti a qualcosa di migliore.

Giulia non ha letto niente questa settimana, la testa al processo, l’avvocato non si è fatto sentire; non ti preoccupare Giulia, il libro sa aspettarti; e il nostro colloquio gira sui suoi pensieri. Una che ti ha prestato un buon libro sa ascoltarli i tuoi pensieri? Non lo sò se sono in grado di ascolto, ma sò che ci siamo incontrate, incontrate davvero, soprattutto quando mi porto a casa un libro che mi ha consigliato e lo leggo tutto d’un fiato.

“Quanti di noi sarebbero naufraghi senza speranza in una notte atlantica, senza le voci che si levano e ci chiamano dai libri” (Guido Ceronetti, Insetti senza frontiere, 2009).

 

 

 

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Sono volontario? mmm...

di  Sergio Temporin

 

Un po’ di tempo fa osservavo, alla fine di una giornata di lavoro, un mio collega “volontario” della Croce Rossa che meticolosamente indossava la divisa d’ordinanza: era tutto in ordine, non come quando lavora! Si era proprio trasformato, anche il carattere, di solito critico e brontolone, anche quello pareva l’avesse riposto nell’armadietto. Ricordo che mi sorrise e prima di andarsene in servizio con una certa aria di auto-compiacenza ed ironia disse: “chissà quante vite umane mi toccherà salvare oggi”, in quei attimi mi parve di provare un pizzico d’invidia: quel uomo si immergeva in un’attività da tutto il mondo riconosciuta, ben codificata, con ruoli ben definiti e procedure stabilite e protocolli d’intervento standardizzati! Altrochenò!

Cosicché, tornando a casa, giocai mentalmente a comparare quella attività con la mia presenza presso lo Sportello Pinocchio, al Centro Francescano di Ascolto, in quanto sentivo che il mio ego era stato  decisamente punzecchiato dalla baldanza del mio collega crocerossino. “Beh, anch’io sono un volontario” pensai. Ma già l’idea di chiamarmi “volontario” mi stava stretta. Avevo sbirciato un po’ di tempo fa su Wikipedia, dove si definiva  il volontario come colui che fa quel che fa per ragioni “private e personali”. Private e personali? Ma io posso avvicinarmi ad un minore che incespica e precipita nelle gelide mani della giustizia per ragioni private e personali? mmmh...ci pensai a fondo e  alla fine decisi di sperare almeno che queste non fossero le ragioni principali.

E la divisa poi, io che ho sempre mal sopportato tutte le divise, sempre espressione di un potere, anche se poi nel caso della Croce Rossa è legato alla salute pubblica, che auspico sia ancora un potere rassicurante per la stragrande maggioranza delle persone, soprattutto nel momento del bisogno.

Ma per me quale divisa vestire, quale ruolo/divisa indossare e di quale assolutamente spogliarmi per dar vita ad una comunicazione di fiducia? Come avere la forza di non essere compiacenti e di non farsi condizionare, ma allo stesso tempo di avere cura verso chi (comunque) ti dona del tempo e ti lascia entrare nella sua sfera personale?

Alcune persone  tendono ad entrare nel territorio del giovane anomico con scarponi chiodati e con carri armati, un modo efficiente che permette di conquistare territori ambiti, ma, inevitabilmente, lascia il campo desertificato e con molti, molti morti e feriti. Penso sia necessario attrezzarsi a trovare invece uno stile non invasivo e non collusivo che riesca a non “profanare” la fragile sfera personale del minore, ed è qui che riaffiora l’invidia per le certezze che accompagnano il mio collega crocerossino!

Scopro così storie diverse di giovani diversi che spesso partono da lontano, ruotano e si intersecano in mondi diversi, in miriadi di colori, di odori, di sapori. In un lasso di breve tempo hanno vissuto comprensibili rabbie, a volte gratuite violenze, ma anche chiare ingiustizie che hanno dato vita a gesti di fuga e di ripudio sociale.

Riconosco come pesi, spesso nel karma di queste vite, la cronica inazione politica di questo Paese, trainato finora da pifferai magici che nulla hanno fatto in questi decenni se non peggiorare la qualità della vita della stragrande maggioranza della popolazione a favore del benessere di pochi. Hanno affrontato le dipendenze e le migrazioni esclusivamente come problemi di ordine pubblico, con pene dure ed esemplari per chi non può efficacemente difendersi e così incassare facili ed immediati consensi.

Per l’etica conservatrice basta punire alcuni e così molti rimarranno in pace con la propria coscienza, senza mettere in questione i fondamenti basici della società in cui vivono, nell’esaltazione di quel moralismo individualista che maschera e nasconde le disuguaglianze della realtà sociale. Credo sia giunto il tempo ormai che realtà sociali come appunto le dipendenze e le migrazioni vengano affrontate finalmente in maniera strutturale non sempre e solo come emergenze, con analisi scevre da ideologismi e scelte che guardino negli occhi chi vive in prima persona queste situazioni affinché nessuno si debba sentire cittadino di serie b o peggio ancora.

Accidenti, l’ambulanza è partita a sirena spiegata, giusto per continuare il paragone con il mio collega, il traffico convulso intralcia, rallenta ma bisogna andare. Incidenti di percorso, malesseri improvvisi, croniche difficoltà ad affrontare la vita a cui possiamo dare intanto un primo soccorso, ma, allo stesso tempo è necessario impegnarci a diminuire il “traffico”. Sarà salutare andare magari a piedi guardandoci attorno, abbassare il rumore che circonda le nostre vite e così prenderci la responsabilità di ridare speranza alle giovani generazioni esercitando il valore della condivisione, della gioia nella gratuità del dono e dimostrando che diventare grandi vuol dire anche riuscire ad esercitare con convinzione l’arte del per-dono.

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Ascoltare: la porta dell’accoglienza

di Fabio Furini

 

Bussano... apriamoci

Bussare ad una porta, in quest’ultimo anno, ha significato per molti (troppi!!) umiliare la propria umanità nella ricerca di recuperare una dignità e un amore distrutti dall’egoismo di chi oggi è diventato più forte che mai. Forte perchè potente e spietato con coloro che non si adeguano allo stile di pensiero e di scrupoli in cui il dio denaro è l’unico senso di vita che importa.

In un mondo dove l’usurata parola globalizzazione fa rima con economizzazione, non è più tollerabile disinteressarsi di chi ne sta ai margini ormai da troppo tempo. Dovrebbe preoccuparci anche vedere che la schiera dei non “adeguati” a questo sistema di vita sta crescendo sempre più, tanto che relazioni sociali e appelli politici diventano ormai notizie di sfondo che nessuno ha interesse di leggere e far sue.

Nella nostra piccola esperienza di volontariato sconforta vedere che ancora tante persone bussano alla nostra porta. E’ certo segno dei tempi bui che viviamo, ma anche certezza che solo noi che amiamo l’uomo come creatura di Dio possiamo accogliere e amare con gratuità coloro che cercano, chiedono e svuotano i loro drammi in cerca di risposte vere e concrete.

Fare ascolto è dote di persone che con pazienza ed amore rispettano i tempi dati dall’altro. E’ disposizione a capire quanto di positivo è recuperabile dalla persona per cambiare la sua vita. E se anche non trovasse subito una risposta alle sue domande, ogni nostro sguardo e disponibilità dà grande dignità al suo gesto di affidare la propria vita a degli sconosciuti. Molte volte non si hanno risposte certe, ne bacchette magiche che trasformano il dolore e la sofferenza in sollievo e serenità d’animo. Ascoltare è però lo stile dei volontari che produce sempre idee e percorsi di aiuto concreti nella vita delle persone che ci scelgono come un altra tappa del loro cammino di vita.

Stiamo entrando nel 25 esimo anno di vita del servizio e non siamo ancora stanchi di accogliere ed ascoltare tutti coloro che vivono ai margini della vita, privi di dignità e di amore.

Fare quindi dei bilanci dell’anno 2012 ci aiuta a capire quale lavoro abbiamo svolto e quanto si deve ancora fare per arrestare le numerose emorragie di giustizia che gridano da tanti luoghi di marginalità. I dati che presentiamo nella tabella fotografano una società sempre più povera di mezzi e di risorse umane ed economiche. E sapendo che anche noi pian piano iniziamo a farne parte, diventa irrinunciabile spenderci maggiormente per costruire progetti di solidarietà e percorsi di denuncia che smontino una politica vuota di idee e di azioni concrete che privilegia i ricchi furbi umiliando i poveri onesti.


Persone che ci interpellano

La tabella dei dati presentata non è solo matematica, è invece la fotografia di una realtà che sempre più difficile e radicata presente nostro territorio. Alle persone che rappresentano il disagio e la povertà frutti di percorsi di vita sbagliati, si aggiungono sempre più persone che vedono ogni giorno ridotto il loro benessere personale e familiare. Basta la perdita del lavoro, una malattia, piccole dipendenze, disagi familiari, imprevisti economici. E chi prima viveva dignitosamente e bene si ritrova privo di mezzi e di strumenti per continuare a farlo. L’aumento degli stranieri “fuori” dalla legge e di chi delinque anche dopo aver scontato una pena ci indicano che il recupero delle persone non è in cima alle priorità della nostra politica sociale. Soprattutto quest’anno si nota con maggior forza un ulteriore disgregamento delle famiglie.

Non sono sostenute nei problemi quotidiani, non sono favorite nella cura dei figli, costrette a fare lavori al limite dello sfruttamento, senza prospettive di vita positive. Deluse dalle promesse di aiuto che non arrivano mai, ma sempre destinate a fare sacrifici al posto di altri che hanno sperperato e dissanguato le ricchezze di una nazione di cui sono parte fondamentale.

I dati segnalano un aumento di questo disagio nascosto, di lavoro che manca, di denaro che si esaurisce presto, di poco sostegno a chi vive per forza di episodi, alla giornata. A ciò si aggiungono la difficoltà di assistere coloro che sono svantaggiati, perché portatori di handicap, di patologie o per il solo fatto di vivere sole, pensionate ed anziane.

In un paese con la Costituzione più bella del mondo, non si può nascondere che ci vivono accanto molte persone  senza diritti. Sono gli stranieri, non tutelati, anzi colpiti da leggi assurde e non democratiche. Dai volontari ricevono supporto non solo di ascolto, ma anche risposte di aiuto che le riconoscono persone visibili. degne di attenzione e di solidarietà. Tra coloro che hanno vissuto e vivono la detenzione ritroviamo molti di questi stranieri emarginati, visti con paura e rifiuto specie se stigmatizzati in servizi giornalistici di cronaca. Chi è diverso da noi è sempre il vero colpevole di un’ingiustizia. E questo ci lascia la coscienza tranquilla ed allontana i nostri piccoli e grandi rimorsi.

Arrivano ancora richieste d’aiuto legate a situazioni familiari particolari in cui mancano sostegni concreti. Se non s’investe economicamente nella prevenzione, fatta anch’essa di risposte e di accoglienza, non si può pensare di risolvere situazioni di disagio estremo, ma solo tamponare con interventi di scarso impatto sociale. Il mondo carcerario conduce molte persone al servizio ascolto. Sia chi ha avuto problemi giudiziari che i loro familiari e le persone coinvolte in questa problematica. La presenza dei volontari del carcere in sede diventa essenziale per continuare il lavoro iniziato e condotto nella Casa Circondariale di Rovigo. Sempre più frequenti sono relazioni e interventi con persone detenute in altri penitenziari.


Una sede attiva e accogliente

La sede dell’Associazione è il punto di riferimento per tutti i volontari. La nostra vita quotidiana si riempie continuamente di richieste d’informazioni, di contatti con enti pubblici e con l’associazionismo del Terzo Settore, segno che il nostro lavoro incide sempre di più negli interventi sociali richiesti nel nostro territorio.

Il quotidiano lavoro di segreteria permette di mantenere i contatti con tutte queste realtà, ma soprattutto offre informazioni a chi cerca aiuto o riferimenti adeguati alla propria richiesta.

Nel quotidiano disbrigo di pratiche amministrative (dalla corrispondenza ai contatti telefonici) i volontari ricevono informazioni e conoscenze per rispondere alle richieste degli utenti, dei loro familiari o di chi è in prima linea nell’aiutarli. La segreteria assicura anche il passaggio quotidiano delle richieste di colloquio, delle attività promosse dall’Associazione, delle informazioni provenienti da altri enti, delle adesioni ad iniziative (convegni, forum, incontri) promossi in tutta Italia.

Non mancano mai le richieste di fare volontariato nell’Associazione. Per i nuovi volontari c’è sempre la cura della formazione personale attivata con corsi ed inserimenti graduali nei servizi.


Vivere nella speranza

Mettersi al servizio dell’altro significa fare un tratto di cammino con lui occupandosi della sua vita e delle sue richieste d’aiuto. In questo percorso nulla deve essere dato per scontato, perché ogni giorno le persone si presentano ai noi con problemi sempre più complessi che hanno bisogno di risposte concrete.

Da sempre lo stile della fedeltà al servizio, sostenuta da una formazione umana e da una conoscenza delle problematiche sociali, è il modo con cui noi costruiamo i nostri progetti e percorsi di rientro dalla marginalità.

Dobbiamo tenere sempre spalancate le porte del nostro Centro, lasciare che entrino e escano le persone e non solo i loro problemi. Vogliamo continuare a combattere con l’amore e la nostra semplice “professionalità” sociale per ridare speranza a chiunque bussa alla nostra porta.

Ridare slancio alla vita dei poveri significa invertire questa insopportabile tendenza a premiare e omaggiare chi è più forte a parole e nel prestigio sociale. Significa puntare sulla onestà delle nostre azioni quotidiane, pronti a denunciare ogni forma d’ingiustizia sociale e sostenere la fatica di chi non riesce a camminare da solo.