ANNO 2011

SOMMARIO anno 2011

  1. Al centro dell'anno che verrà (Livio Ferrari)
  2. Nel 2010, sulle strade della solidarietà
  3. Una nuova vita (Rossella Magosso)
  4. Lo sportello a colori... in ricerca (Annamaria Visentin)
  5. Avvocato sempre più "di strada" (Francesco Carricato)
  6. Anziani: parassiti o parafulmini della società? (Fulvianna Godino)
  7. I nuovi poveri e la fine di un sogno (Leopoldo Sartori)
  8. Il cammino e la porta (Lucia Lago)
  9. Giustizia: Livio Ferrari; il sistema penitenziario ha fallito, è tempo di cambiare (intervista)
  10. Ascoltare a cuore aperto (Fabio Furini)
  11. Al femminile (Paola Zonzin)

[Sommario]

Al Centro dell’anno che verrà

di Livio Ferrari

 

L’inizio di ogni nuovo anno ci porta a riflettere sullo stato delle cose, sugli errori e le criticità, sui problemi e le difficoltà, ma anche sulle risorse e le cose positive, su quanto possiamo fare per contribuire ad una vita che doni dignità a chi ne viene privato da una organizzazione sociale che penalizza i più fragili e leggi che discriminano chi non si adegua al pensiero di chi comanda.

Nei dodici mesi appena trascorsi, oltre ai servizi che da anni continuano ad essere un punto fermo nell’impegno dei volontari del Centro Francescano di Ascolto, abbiamo prodotto due iniziative che hanno introdotto un ulteriore segnale di novità, che è poi l’elemento che annualmente caratterizza la nostra storia e attività.

La prima è stata l’organizzazione di un  progetto di informazione-prevenzione sulle dipendenze rivolto agli studenti delle scuole secondarie del comune di Rovigo denominato “Prima che suoni la campanella d’allarme”, predisposto in collaborazione con l’assessorato comunale alla pubblica istruzione e alle politiche giovanili, e con l’apporto scientifico dell’Università della Strada del Gruppo Abele di Torino. Una serie di lezioni negli istituti comprensivi 3 e 4 di Rovigo ed un convegno finale, per il quale è stato coinvolto anche il Sert locale, con un esperto come Leopoldo Grosso.

Un vecchio problema, le dipendenze, che si modifica ma purtroppo non passa mai di moda. Ed investire sul futuro dei nostri ragazzi significa fare prevenzione e quale luogo più adatto della scuola dove poter gettare delle findamenta solide per un futuro che sia meno problematico possibile.

La seconda si è snodata attraverso un lungo lavoro di ricerca, iniziato a luglio del 2009 e terminato a maggio dell’anno dopo, realizzato da due volontarie per conoscere più  a fondo possibile la realtà transessuale in Polesine. Una ricerca denominata “L’esistenza e i suoi colori”, realizzata dallo Sportello a Colori della nostra associazione con il contributo del Centro di Servizio per il Volontariato, della Consigliera di Parità e dell’Assessorato provinciale alle pari opportunità. Le difficoltà incontrate e i risultati acquisiti sono tracciati da Anna-maria Visentin nelle pagine successive.

Anche questo 2011 inizia all’insegna delle novità, infatti è già attivo un nuovo servizio, lo “Sportello Peter Pan”, rivolto ai minori autori di reato del territorio polesano, in ogni stato e grado del procedimento penale, ed è svolto in collaborazione con l’Ufficio Servizi Sociali Minorenni del Dipartimento della Giustizia Minorile di Mestre (Ve). Ha quale compito quello di aiutare, sostenere, promuovere i percorsi di crescita dei minori e adolescenti al fine di favorire lo sviluppo delle condizioni di benessere individuali attraverso azioni dirette ai minori stessi, ai loro genitori, alla famiglia, agli adulti di riferimento. Offre degli interventi all’interno dei contesti scolastici a favore del gruppo classe, degli insegnanti, dei genitori, in partnership con le scuole.

Partecipa e realizza eventi nel territorio per lo sviluppo e la ricerca di una cultura educativa rispettosa dei bisogni e dei diritti del minore e adolescente. Promuove la co-progettazione e collaborazione con le opportunità offerte da gruppi organizzativi del volontariato presenti nei contesti di vita dei minori ed adolescenti.

Ad ottobre, del vecchio anno, è poi stato dato alle stampe il mio nuovo libro “Di giustizia e non di vendetta”, edizioni Gruppo Abele di Torino.

Quando l’ho concluso ed ho iniziato a verificarne i tempi di stampa e distribuzione con la casa editrice ho avuto il timore che, dovendo attendere diversi mesi prima dell’uscita, potesse essere svuotato dell’attualità che lo pervade in considerazione delle eventuali novità o cambiamenti che fossero intervenuti nella giustizia e nell’esecuzione penale italiana. Ma con lungimiranza uno dei miei interlocutori mi disse che questo pericolo non sussisteva.

Infatti nonostante la drammaticità che segna l’esistenza delle vite carcerate in questi anni, nulla si modifica e niente scalfisce la violenza e la morte che contrappunta questi luoghi lontani dal sentire della gente e dalla attenzione e sensibilità del mondo politico, a parte il momento del ferragosto nel quale si desta!

Il volume ha varcato le soglie delle librerie italiane il 20 ottobre e ad oggi sono stati ben 15 gli incontri di presentazione che si sono promossi in giro per l’Italia: da Cagliari ad Aosta, da Bolzano ad Avellino, da Udine a Larino (Cb), per passare per Roma, Firenze, Trento, Padova; Torino e Rovigo, sino ad arrivare la prossima settimana a Venezia e poi quelli che seguiranno: Verona, Lucca, Genova, ...

La maggior parte di questi sono stati incontri in cui l’evidenza delle notizie e dei dati che portavo ha colto esterefatti tanti dei partecipanti, molti dei quali a completo digiuno di carcere e dell’esecuzione penale.

Soprattutto ricordo i volti e le frasi attonite di un gruppo di insegnanti cattolici dell’Università di Cagliari che non ritenevano possibile che le notizie che io riportavo loro, e che poi fanno parte anche del volume, non fossero date anche dagli organi di informazione.

Questa settimana ho consegnato al Sindaco, alla Giunta e al Consiglio comunale la seconda relazione nel mio ruolo di garante delle persone private della libertà del Comune di Rovigo. Un elenco di situazioni drammatiche e di criticità che non tende ad arrestarsi proprio perchè le normative e leggi che disciplinano la vita di questi luoghi non cambiano.

Giorno dopo giorno le carceri italiane sono sempre più luoghi disumani dove aleggia in modo preponderante lo spettro della morte. In carcere si muore 20 volte di più che nella vita libera e poco meno della metà dei decessi avviene per suicidio.

La globalizzazione, con il suo consumismo e le sue disuguaglianze economiche e sociali lascia fatalmente indietro le persone più fragili. Chi sta ai margini diventa invisibile, o reso tale dalla reclusione. È la logica coltivata da una politica più attenta al penale che al sociale. Lo dimostrano, tra le altre cose, le tante ordinanze che si accaniscono sulle persone più fragili col pretesto del “decoro” delle città. Poi certo ci sono leggi che contribuiscono a riempire il carcere di persone che vivono ai margini, come la Bossi-Fini e il “pacchetto sicurezza” per le persone migranti e la Fini-Giovanardi per le persone tossicodipendenti. Tutto questo, unito alla scarsa applicazione delle misure alternative al carcere, ci ha portato alla situazione attuale che vede la presenza di oltre 68.000 persone ristrette nei 207 istituti penitenziari per adulti a fronte di un numero di circa 43.0000 posti.

Il volontariato in carcere oggi dovrebbe avere quella forza e ruolo profetico di denuncia del sistema, di produrre informazione nei territori e di costruire allenze sociali e politiche nelle città per tutelare i diritti dei reclusi. Ma troppo spesso si limita ad una funzione “missionaria”, un’idea ripegata verso l’assistenzialismo, nella sua presenza al fianco del detenuto.

Ne accoglie i tormenti e le difficoltà, e spesso provvede anche alle sue esigenze materiali, come gli indumenti, supplendo a un servizio che dovrebbe assicurare lo Stato. Ma proprio così finisce, suo malgrado, per diventare un “sedativo” delle tensioni e delle violenze del carcere, per “narcotizzare” il sentimento di ribellione che tutti dovremmo provare per le condizioni disumane in cui versano i detenuti in Italia.

Quando nel 1998, con Tavazza, Bertolazzi e Damoli fondammo la Conferenza Nazionale Volonta-riato Giustizia, lo facemmo con l’obiettivo che il volontariato avesse un ruolo politico e sindacale sul tema del carcere e della giustizia in Italia, e furono firmati due importanti protocolli con il Ministero della Giustizia, uno più generale che riguardava i grandi temi sui quali creare collaborazione e attenzione, l’altro sulle misure alternative. Successivamente, però, la voce delle associazioni di volontariato si è fatta sentire sempre meno, proprio oggi che è più necessario denunciare questo stato di cose, perchè ci sono molti nodi da affrontare in modo deciso: il primo è quello dei “giovani-adulti” in carcere.

L’attuale ordinamento penitenziario prevede sezioni speciali per i giovani dai 18 ai 23-25 anni, affinché il loro percorso detentivo sia finalizzato alla formazione e alla possibilità, finita la pena, di una vita diversa. Queste sezioni però non ci sono, e dove esistono si riducono a mere divisioni di spazi fisici, mentre sarebbero necessari progetti specifici, integrati con il dipartimento della giustizia minorile.

L’altro nodo è quello delle misure alternative al carcere, che vengono concesse solo a chi ha disponibilità economiche in fase processuale, mentre durante la detenzione vengono date con il contagocce.

Un altro nodo da mettere all’indice riguarda i detenuti extraco-munitari che hanno commesso un reato ma sono da anni regolarmente presenti sul territorio. Al termine della pena vengono allontanati dall’Italia, vanificando l’obiettivo di rieducazione e reinseri-mento sociale previsto dalla nostra Costituzione.

Per consentire a queste persone di costruire un percorso di integrazione, sarebbe necessario garantire loro, dopo la pena, un permesso di soggiorno temporaneo per ricominciare una nuova vita nel Pae.se in cui da tempo ha messo radici.

Pensiamo poi alla legge sulle droghe che da sola riempie per un 35% le carceri italiane. Anche gli autori della legge più punitiva dell’Europa unita si sono affannati in questi anni a sostenere che le persone tossicodipendenti non devono stare in carcere; invece accade il contrario. L’affidamento speciale previsto per i tossicodipendenti può essere concesso quando la pena detentiva inflitta o residua non sia superiore a sei anni.

Sono oggi almeno diecimila i detenuti che si trovano in questa situazione ossia che stanno in carcere ma potrebbero usufruire di questa misura alternativa sulla base di un programma da intraprendere in comunità o presso il servizio pubblico.

Un detenuto affidato in comunità costa più o meno 18 mila euro annui, all’amministrazione peni-tenziaria costa il triplo. Con 180 milioni di euro a disposizione le regioni italiane potrebbero pagare le rette in comunità per diecimila detenuti tossicodipendenti oggi inspiegabilmente in carcere. Con la stessa cifra si costruirebbero al massimo tre carceri che darebbero spazio a circa 600 detenuti nel 2019 (dieci anni è la media italiana di tempo per la costruzione di un nuovo istituto). Se usati invece per liberare i tossicodipendenti si darebbe l’avvio a un processo di vera decongestione del sistema penitenziario.

Questa è solo una piccola parte dell’iceberg che emerge nel grande disastro che è l’esecuzione penale in Italia oggi, e l’ingiustizia che questa perpetra su tanti e tanti esseri umani.

 

 

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Nel 2010, sulle strade della solidarietà

  1. Terni – Gruppo Abele – Convegno Strada Facendo 4 “Il carcere: revisionare le normative penali, realizzare le misure alternative, evitare le recidive”.
  2. Quinto di Treviso – Parrocchia di San Giorgio e San Cassiano – Convegno “Condannati a vivere”.
  3. Rovigo – Istituto Tecnico Commerciale De Amicis – Incontro “Carcere, giustizia e impegno sociale”.
  4. Rovigo – Consigliera di Parità – Convegno “L’8 marzo contro la tratta degli esseri umani”.
  5. Padova – Gruppo Operatori Carcerari Volontari – Convegno “La società civile per il reinserimento del detenuto”.
  6. Rovigo – Scuola diocesana di formazione teologica – Incontro “Con che spirito, con che atteggiamento il laico cristiano affronta la marginalità sociale”.
  7. Rovigo – Comune di Rovigo – Convegno “Prima che suoni la campanella d’allarme”.
  8. Zugliano (Ud) – Centro di Accoglienza E. Calducci – Convegno “Alternative in carcere e al carcere”.
  9. Rovigo – Compagnia Fabula Saltica – Convegno “I diritti calpestati: di carcere si muore”.
  10. Trento – Laici trentini per i diritti civili – Incontro “Il garante delle persone private della libertà”.
  11. Rovigo – Fidapa – Tavola rotonda “Dietro le sbarre: essere donna…essere madre…?”.
  12. Rovigo – Ofs – Incontro “Riflessioni sul servizio”.
  13. Canaro (Ro) – Comune di Canaro – Presentazione volume “Un altro mondo”.
  14. Rovigo – Centro Francescano di Ascolto – Convegno “L’esistenza e i suoi colori”.
  15. Rovigo - Aede – Convegno “Giornata europea lotta alla povertà”.
  16. Venezia – Il Granello di Senape – Convegno “Carcere e dignità negata”.
  17. Rovigo – Comune e Provincia di Rovigo - Presentazione libro “Frontiere nascoste”.
  18. Rovigo – Coordinamento Volontari Carcere – Spettacolo “Il carcere in piazza”.
  19. Ceneselli (Ro) – Coordinamento No Cie - Dibattito “Cie, né qui né altrove!”.
  20. Rovigo – Presentazione del volume “Di giustizia e non di vendetta” - La fiera delle parole.
  21. Firenze - Associazione Liberarsi – Convegno “La tortura nelle carceri italiane”.
  22. Padova – Accademia per la Formazione - Presentazione del volume “Di giustizia e non di vendetta”.
  23. Larino (Cb) – Csv Il Melograno - Presentazione del volume “Di giustizia e non di vendetta”.
  24. Aosta – Csv - Presentazione del volume “Di giustizia e non di vendetta”.
  25. Padova – Coord. Volont. Carcere - Presentazione del volume “Di giustizia e non di vendetta”.
  26. Zugliano (Ud) – Centro E. Balducci - Presentazione del volume “Di giustizia e non di vendetta”.
  27. Padova– Facoltà di Sociologia, Master di Criminologia – Lezione “Criminologia critica, prevenzione e sicurezza sociale”.
  28. Serdiana (Ca) – Comunità La Collina - Presentazione del volume “Di giustizia e non di vendetta”.
  29. Cagliari – Istituto Superiore di Scienze Religiose - Presentazione del volume “Di giustizia e non di vendetta”.
  30. Rovigo – Accademia dei Concordi - Presentazione del volume “Di giustizia e non di vendetta”.
  31. Torino – Gruppo Abele - Presentazione del volume “Di giustizia e non di vendetta”.
  32. Firenze – Associazione Pantagruel - Presentazione del volume “Di giustizia e non di vendetta”.
  33. Avellino – Circolo della Stampa - Presentazione del volume “Di giustizia e non di vendetta”.
  34. Roma – Libera - Presentazione del volume “Di giustizia e non di vendetta”.

 

 

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Una nuova vita

di Rossella Magosso

 

L’amore vince su tutto, si è proprio così e io ne sono decisamente e fortemente convinta.

E per suffragare questo mio intendimento vi racconto di Rita, una giovane ragazza nigeriana, che quando la conosco ha poco più di vent’anni. Da subito nasce fra di noi simpatia ed affetto; probabilmente vede in me la mamma, la sua mamma troppo lontana, senza la possibilità di avere un po’ di conforto, aiuto e amore. Una ragazza dolce, sensibile e, anche se ristretta, con la forza di mantenersi fiduciosa, battagliera e positiva. Da poco tempo in Italia ma con il grande sogno, desiderio, di avere un futuro migliore ... perchè il suo vivere in Nigeria è stato a dir poco difficile. Dopo la scuola dell’obbligo, all’età di 14 anni, per lei la sveglia era alle quattro del mattino per andare nei campi, prima che la grande calura si facesse sentire, in quanto altri sbocchi lavorativi erano inesistenti. Questo l’ha indotta, come tante altre ragazze, ad arrivare fino a noi, in uno Stato emancipato e ricco! La sorte è stata molto crudele con lei e poco tempo dopo l’arrivo nel nostro Paese si è trovata in difficoltà e … le si sono aperte le porte del carcere!

Ma niente viene mai per caso e dietro ogni disgrazia c’è un disegno di vita ben preciso, definito. Le difficoltà per Rita non mancano, ma arrivano anche i momenti felici. Il tempo scorre, noi continuiamo il nostro dialogo, da parte sua l’amore per la vita non viene mai meno, la nostra intesa ci porta anche a ridere, gioire e piangere, e i nostri incontri sono spesso conditi anche dai canti della sua terra, così penetranti, intensi e riflessivi. Una volta che la sua posizione giuridica è definitiva arriva per lei il lavoro tanto sognato e voluto … una immensa gioia. L’uscita giornaliera per un’attività di formazione al lavoro con un progetto della nostra Associazione presso una cooperativa di Monselice e rientro la sera, per lei diventa un dono grande, un traguardo insperato e importantissimo. Nel frattempo, incontra e  conosce un ragazzo suo connazionale, fra di loro nasce l’amore.

Scontata la pena esce definitivamente dal carcere e la parola “libera”  risuona nelle sue orecchie come acqua di un fiume in piena. Con l’amore per il suo uomo arriva anche una gravidanza e la felicità è alle stelle. Il battito del suo cuore batte come le mani sul bongo in Nigeria, la gioia è grande, non mancano ansie e paure ma con l’aiuto della preghiera le cose vanno avanti bene.

Il quattro dicembre dà alla luce una bella bimba di quattro chili e mezzo, l’emozione per me è forte e gioisco insieme a le. Il mio cuore ha poi un sussulto e un brivido percorre la mia schiena quando chiedendo che nome avesse dato alla sua bimba mi risponde che il suo tesoro l’ha chiamata “Rossella”, una lacrima scende sul mio viso, l’amore anche questa volta ha vinto.

 

 

 

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Lo sportello a colori… in ricerca

di Annamaria Visentin

 

Lo scorso anno lo Sportello a Colori, finestra aperta sul mondo del transessualismo, era occupato nella ricerca sul nostro territorio denominata  “L’esistenza e i suoi colori”, che aveva come scopo principale quello di capire quanto è conosciuta questa condizione e come è “sentita” nella nostra Provincia. Per prima cosa si sono individuati tre campioni significativi ai quali rivolgere alcune domande e la scelta si è orientata verso quelle persone che, per il loro lavoro, potevano avere un osservatorio privilegiato sulla questione, ovvero: i Comuni della Provincia, perché il transessuale deve rivolgersi all’anagrafe per il cambiamento di sesso; i medici di base, perché probabilmente chi ha dubbi sulla propria identità sessuale, ne parla per primo al suo medico; gli insegnanti degli Istituti Superiori,  perché possono cogliere eventuali difficoltà nei ragazzi.

E’ stato preparato un questionario brevissimo, sei domande in tutto, proprio per non annoiare e non vederci rifiutata la collaborazione da parte dei soggetti scelti. Anche se breve, il questionario mirava a dirci qual è nel nostro territorio: la conoscenza della condizione transessuale; la sua presenza numerica; la reazione emotiva suscitata.

Le difficoltà incontrate nel corso della ricerca sono state certamente superiori a quelle previste e ci hanno sorpreso la reticenza e l’atteggiamento culturale negativo dei soggetti intervistati, soprattutto se consideriamo le categorie professionali coinvolte.

La percentuale di restituzione dei questionari è stata complessivamente molto bassa, tale da non considerare esaustiva la significatività dei risultati ottenuti, ma ci ha dato un dato inconfutabile: il totale disinteresse nei confronti della realtà transessuale. Dai colloqui avuti abbiamo rilevato che gli intervistati ritengono, fra l’altro, che questa realtà non sia presente nel nostro territorio o che non debba essere messa sotto i riflettori in quanto scomoda e sconveniente.

Altro dato significativo è l’alta percentuale di errore o confusione nel dare la definizione di transessuale, in quanto la conoscenza risulta parziale o molto superficiale, mentre la complessità della condizione, del percorso di cambiamento, delle difficoltà di ordine psicologico, biologico e sociale sembra essere ignorata. Mentre il dato numerico rilevato nella ricerca ci dice chiaramente che anche in mezzo a noi vivono persone transessuali, circondati da disinteresse, non-conoscenza e, spesso, pregiudizio negativo.

Sulla “risposta” emotiva si è constatata la convinzione, da parte delle categorie campioni, che il transessuale incontri difficoltà di inserimento sociale e lavorativo dovute ai pregiudizi negativi dell’ambiente in cui vive.

Si deve, pertanto, concludere che sul nostro territorio è necessario portare avanti un’attività di informazione e sensibilizzazione sulla transessualità, magari rivolta alle scuole, soprattutto agli istituti superiori ed è quello che ci proponiamo di fare in futuro!

 

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Avvocato sempre più “di strada”

di Francesco Carricato

 

Durante il 2010 i volontari dello sportello “Avvocato di Strada” di Rovigo hanno visto un leggero ridursi di persone che si sono presentate a chiedere un supporto legale e hanno affrontato un totale di 45 pratiche, con un riequilibrio, considerati gli anni precedenti, dei casi di diritto civile: sfratti, situazioni debitorie nei confronti di banche e di privati, questioni relative all’esercizio della potestà genitoriale ed ai minori, rispetto a quelli di diritto amministrativo e dell’immigrazione: espulsioni, richieste o rinnovo del permesso di soggiorno, riconoscimento dello status di rifugiato; con riguardo a quest’ultima problematica è da segnalare che, in collaborazione con lo sportello di Avvocato di Strada di Roma, siamo arrivati financo avanti la Suprema Corte di Cassazione ... Sicuramente la crisi economico-finanziaria in atto si è fatta sentire ed ha colpito in maniera pesante le fasce sociali più deboli, vale a dire quelle che possono essere assistite da noi.

Per ciò che riguarda le pratiche di diritto penale queste sono state 10 e relative al reato di clandestinità, di recente introdotto, a casi in cui è stata chiesta la detenzione domiciliare, a reati di falso e contro la persona.

Il nostro sportello ha poi svolto delle lezioni nell’ambito del Corso di formazione per i detenuti della Casa Circondariale, organizzato su sollecitazione dell’Assessorato ai Servizi sociali del Comune di Rovigo e del Centro Territoriale Permanente, attraverso un’unità formativa relativa a Principi ed elementi di diritto e procedura penale. L’esecuzione della pena e misure alternative, e Problematiche relative alla famiglia ed ai minori, che è in programma nel 2011.

Abbiamo anche partecipato alla settimana dell’Ottobre rodigino “Nella nostra città nessuno è straniero” attarvesro la proiezione del film “Il sangue verde”, relativo ai disordini accaduti a Rosarno, in Calabria, supportato dalla presenza di uno dei protagonisti.

Ancora: nell’ambito del progetto “C’è in gioco la povertà” stiamo predisponendo l’organizzazione di un Convegno sul tema delle nuove povertà e della tutela del lavoro in questo periodo di crisi, con interventi programmati di un avvocato giuslavorista, di un magistrato, di un docente universitario e di un sindacalista. Infine si è partecipato a molteplici incontri del Coordinamento delle associazioni di volontariato che si occupano di carcere e di persone senza fissa dimora.

Inoltre, quale Coordinatore dello Sportello ho partecipato e relazionato sui “Diritti degli esclusi” al Convegno organizzato dall’AEDE (Association Européenne des Enseignants), svoltosi nella sala della Gran Guardia a Rovigo e relativo alla Giornata Europea per la Lotta alle povertà e sono stato confermato membro del Direttivo nazionale dell’associazione Avvocato di Strada.

Da tutto quanto sin qui descritto si può intendere come Sportello sia ben vivo, attivo ed impegnato, ed accumula sempre più nei propri aderenti quell’esperienza e quelle capacità che senz’altro all’inizio difettavano e che sono quanto mai preziose per affrontare consapevolmente e con convinzione un’attività di volontariato.

I giovani studenti che l’anno scorso si erano avvicinati all’esperienza di Avvocato di Strada hanno proseguito convinti e motivati anche dopo la laurea e l’inizio del praticantato, pur non potendo in prima persona patrocinare cause o assistere casi, hanno collaborato attivamente e con entusiasmo alle nostre attività, anche quelle formative e di supporto.

Il nostro sportello inizia ormai a “diventare grande”, a novembre raggiungeremo i 5 anni di attività, e ad essere considerato un punto di riferimento all’interno della realtà sociale rodigina, sia per le istituzioni: Comune, Provincia, Direzione della Casa Circondariale, sia per le altre associazioni di volontariato presenti sul territorio che si occupano di disagio sociale e di assistenza ai senza fissa dimora. Ciò ci consente di acquisire sempre più consapevolezza del nostro ruolo e dell’importanza della nostra, seppur piccola, attività di volontariato.

Di tutto questo, e di tutto ciò che siamo riusciti e riusciremo a combinare di buono, non possiamo che ringraziare il Centro Francescano di Ascolto, che ci ha dato e continua a darci l’opportunità di svolgere un servizio così delicato ed importante all’interno della realtà sociale rodigina.

 

 

 

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Anziani:

parassiti o parafulmini della società?

di Fulvianna Godino

 

Quando il direttore del Centro Francescano di Ascolto, Livio Ferrari, mi ha comunicato la data dell’assemblea annuale aggiunse: “scriverai anche quest’anno la tua testimonianza sull’impegno francescano, vero?”. Io protestai con forza, dicendogli: “sono ormai due anni che a causa della mia problematica salute non posso più venire ad espletare il mio servizio di ascolto settimanale; non ho proprio niente da dire!”. Ma Livio sembrò non badarci ed insistette: “aspetto il tuo contributo sino all’ultimo momento”.

Mancano poche ore alla stampa di Informa(le) e pensando che domenica 30 gennaio potrò partecipare anch’io a questo momento “di essere fraternità”, malgrado i miei acciacchi, i ricordi della mia decennale esperienza di volontaria dell’associazione sono riaffiorati alla mente, a partire dal primo impatto con la spiritualità francescana.

Abitavo in un piccolo paese del Polesine, dove il parroco invitava spesso qualche frate o terziario francescano per guidare un breve ritiro. Così conobbi il maestro Luigi Mutterle, dal quale sentii parlare del Centro Francescano di Ascolto e questo mi incuriosì e così partecipai all’assemblea del 2 febbraio 1997.

La sala del teatro del convento dei frati cappuccini di Rovigo era piena di francescani provenienti da tutta la provincia, la maggior parte giovani della gioventù francescana (Gifra), le cui testimonianze mi hanno commosso ed edificato per la capacità di sacrificarsi gioiosamente.

Il segreto lo spiegò padre Giorgio Cavedale nel corso della mattinata, perché era stato lui, come assistente Gifra, ad entusiasmare i suoi ragazzi a passare dal Vangelo alla vita, ovvero sperimentare concretamente l’amore con le opere.

Ricordo bene le parole di padre Giorgio che spiegava come ogni anno l’assemblea ha come titolo programmatico “Nel nome del Signore”, e che i volontari francescani hanno la consapevolezza della presenza dello Spirito Santo nel servizio e che uno dei compiti dei francescani è di rendere visibile questa presenza attraverso le opere di misericordia.

“E’ Dio che agisce e chi opera è solo strumento per il buon esito e neppure il più importante. Alla basi di chi opera ci sono tante preghiere silenziose e offerte di sacrifici di tanti terziari francescani anziani”.

Quando ho sentito affermare questo da padre Giorgio ero più giovane e sana. In questi anni, man mano che avvertivo qualche disagio fisico dovuto all’età, mi è spesso tornato alla memoria padre Giorgio ed il suo discorso sugli anziani che continuava così: “... per uno spostamento casuale, l’assemblea quest’annosi tiene il giorno della presentazione al tempio di Gesù. Tra la tanta gente che riempiva il tempio solo due vecchi, Simeone ed Anna, si sono accorti di Gesù. Quel bambino come tanti altri, presentato da una coppia normalissima, era il Messia. Lo hanno capito loro perché erano in preghiera”.

Nessuno può fare il bene se non c’è un altro che prega. “Dunque, gli anziani sono preziosi!” concludeva padre Giorgio, che da lassù lo ripete ancora a me e a tanti altri come me che hanno spesso la sensazione di essere diventati “invisibili”, di sentirsi inutili o peggio di peso alla società.


 

 

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II nuovi poveri e la fine di un sogno

di  Leopoldo Sartori

 

Il mercato si regge sull’intreccio fra produzione e consumo, due aspetti del medesimo sistema, dove decisivo è il carattere circolare del processo, nel senso che non solo si producono merci per soddisfare bisogni, ma si originano anche bisogni per garantire la continuità della produzione di merci. Ma una società che si rivolge ai suoi membri solo in quanto consumatori, crea una nuova classe di poveri che sono colpevoli di non contribuire al consumo e, in quanto non consumatori o consumatori inadeguati e difettosi, sono un peso morto, una presenza totalmente improduttiva. Configurandosi come pura perdita, un buco nero che inghiotte servizi senza nulla restituire, CON I POVERI, per la loro inutilità e perché nessuno ha bisogno di loro, si può PRATICARE LA “tolleranza zero”.

Si può bruciare loro le tende se vivono accampati, si possono condannare a pene doppie, triple, quadruple rispetto ai “non poveri” per lo stesso reato. Del resto la povertà non attrae. E’ il rimosso di tutti. Nessuno la va a cercare.

La carità che si fa con una mano è raramente accompagnata da uno sguardo capace di incontrare gli occhi di un miserabile, perché la sua vista inquieta. Per giunta è la stessa povertà che tende a nascondersi, per vergogna, per pudore. Tentativi peraltro non necessari, tanto nessuno la vede, meno ancora la guarda. Al massimo qualche gesto senza osservare in faccia il destinatario. A volte persino una catena di gesti che però non entrano in contatto con la povertà, ma solo con l’organizzazione deputata a soccorrerla. Così la povertà non si recepisce, se non in qualche flash televisivo tra una forchettata e l’altra. Ciò che non si vede non esiste, o esiste come sentito dire, come statistica, dove i numeri hanno il compito di cancellare i volti di quei poveri a cui la miseria ha già tolto se non il pane, certo quasi tutte le possibilità che il vivere in occidente concede ai suoi abitanti.

In Italia la disoccupazione è in testa ai problemi per oltre la metà della popolazione. Eppure il conseguente grado di reazione e di protesta sociale è ancora limitato, soprattutto tra i giovani. Si è interrotto il ciclo galbraithiano, quel processo che permetteva a ogni generazione di migliorare la propria condizione rispetto a quella precedente. I giovani di questa generazione non si ribellano neppure ai loro genitori.

Certo la società è scossa da una sfiducia cronica, profonda e generalizzata verso tutto e tutti: politica e politici, governo e opposizione, banche e banchieri, sindacati e associazioni di categoria, stato e istituzioni. Gli italiani hanno perso fiducia perfino nella Chiesa. Eppure, pur delusi, gli italiani sopportano. Perché?

La spiegazione è semplice. In Italia c’è un solo riferimento capace di sostenere e tenere insieme una situazione tanto precaria e traballante: la famiglia. Se i giovani non si ribellano, pur navigando a vista, tra disoccupazione e precarietà, affrontando cicli scolastici e universitari dagli sbocchi sempre più incerti, è perché la famiglia li protegge.

La famiglia di fronte al ridursi della spesa pubblica, ha aumentato il suo ruolo di welfare alternativo e sostitutivo rispetto allo Stato. Resta la principale rete di sostegno ai giovani. Ai figli che restano in casa sempre più a lungo e quando vanno ad abitare per conto proprio contano sul contributo costante della famiglia. Questa famiglia appare ormai sovraccarica di compiti e di funzioni che affronta con crescente fatica. Anche al proprio interno. I figli lamentano che i genitori hanno poca autorità, che gli anziani chiudono loro gli spazi di autonomia e affermazione nella vita, nella società e nel lavoro. Tuttavia non si possono ribellare, visti i legami di dipendenza e di necessità.

“Il rapinatore di via Silvestri era il vicino di casa, disoccupato, separato, incensurato – arrestatemi almeno mangio e sono al caldo, perché in casa non ho più nemmeno la luce, me l’hanno tagliata - disperato tenta una rapina, fallisce e va dalla polizia: non sono un bandito, sono solo disoccupato”.

Sono notizie  sempre più frequenti che accampano nelle cronache locali dei quotidiani. Sono i nuovi poveri  che vanno ad ingrossare le fila dei disperati che già fruiscono del servizio sempre più “americanizzato” delle patrie galere italiane.

Qualcuno lo conosco, viene da storie normali, famiglia normale, scuola, diploma, poi il lavoro e una nuova famiglia, a volte con figli a volte no. Succede che poi perde il lavoro, di conseguenza si sgretola la famiglia e un nuovo lavoro, uno qualsiasi , è sempre più difficile da trovare, se non impossibile; questo è solo il primo passo per arrivare alla fame, quella vera. Non tutti hanno la forza interiore per mettersi in fila, per un buono in comune, per un pasto alla mensa o a chiedere aiuto alla Caritas. La fame, proprio la fame di cibo, poi il problema della luce, di un poco di caldo nel freddo inverno. Luce e gas tagliati per morosità,  li spinge a rubare, anzi a tentare di rubare. Ma non sono delinquenti, fanno solo pena. 

Il volontariato, rispetto a questi nuovi poveri, dovrà fare molto di più di quello che già fa, sono legioni di persone, assolutamente impreparate alla povertà, a digiuno di capacità per affrontare  veri sacrifici e drammatiche necessità. Il problema è molto esteso e  vede coinvolte le persone delle generazioni che vanno dai 20 ai 35 anni e dai 40 ai 55 anni. I primi perché tanti non trovano e non troveranno lavoro, i secondi perché lo perdono o lo perderanno.

Altri titoli…stessa storia.

“Mia figlia è una precaria, ha 30 anni e nessun sogno -  Il lavoro che non vale più, questa la malattia dell’occidente -   proteggere i forti, indebolire i deboli, così gli USA, l’Italia e l’occidente in genere provano ad uscire dalla crisi  – l’Italia che si aggrappa alla famiglia, unico ammortizzatore sociale”.

In Italia solo il 21,7% dei giovani tra i 15 e i 24 anni è occupato, contro una media Ocse del 40,2%. L’Italia ha anche la maggior percentuale di giovani “falsi autonomi”, circa il 10% dei giovani occupati italiani risultano autonomi ma senza dipendenti, di fatto lavoratori dipendenti privi di qualsiasi tutela.

Non si dica più che da noi c’è più occupazione che in Spagna, si dica invece che ce n’è meno che in Germania e quella che c’è comprende qualche milione di lavori atipici. Di questi troppi vivono o meglio sopravvivono con uno stipendio/salario tra i 400 e 800 euro e, i più fortunati, la minoranza, tra i 1000 e 1200 euro, ma sempre precari.

Intere categorie hanno visto diminuire progressivamente il loro reddito ed il loro prestigio sociale, mentre siamo letteralmente circondati da persone anche qualificate che lavorano con remu-nerazioni molto basse e/o con tutele basse o inesistenti. Dall’ America abbiamo importato quasi esclusivamente solo il peggio: la legge Biagi che è una mera traduzione delle varie forme di lavoro del mercato americano adattate al nostro Paese. Una politica “liberista” suicida: sempre più ricchi i ricchi e sempre più poveri i poveri;  ma come negli Usa questi ultimi tendono a sparire (non esistono) per inciso oltreoceano sono oltre 50 milioni. Tv e giornali ne parlano solo in caso di morte cruenta, di delitti  e a gocce, con tanto “pietismo” per farci sentire “quanto siamo buoni” in occasione di qualche sporadica iniziativa benefica.

Il mercato del lavoro si restringe sempre di più; serbatoi importanti come lo stato e il parastato non assorbono più, anzi a fatica riescono ad assorbire solo una percentuale del precariato che hanno utilizzato in questi anni. I servizi come il mondo bancario hanno finito di assumere grazie alla lungimirante politica delle mega-fusioni che hanno creato mostri che non possono fallire, pena il fallimento del Paese o dell’intero continente, come insegna la recente crisi globale. Le aziende produttive grazie alla legge Biagi hanno la possibilità di far vivere i lavoratori nel precariato per lunghi periodi per poi molto spesso buttarli fuori mercato, licenziarli.  La tecnologia distrugge il lavoro, l’esito è che in occidente, da 25 anni a questa parte, diminuiscono i lavori operai e impiegatizi, quelli che assicurano redditi medi, distrutti dalla tecnologia e dalla globalizzazione, e aumentano i lavori più poveri

Il botto, la deflagrazione di questa società, avverrà fra 10-15 anni quando il ceto medio di oggi, che sta scendendo verso il basso e sempre più nuclei familiari sono vicini alla povertà, non sarà più in grado di mantenere i bamboccioni  che nel frattempo saranno diventati uomini e donne di 40-45 anni, disoccupati, sottoccupati, precari. Ci vorranno più dormitori, più pasti gratis e più carceri.

Un numero sempre più crescente sarà costretto a delinquere e visto che i reati penalmente perseguibili di forte impatto sociale e mediatico sono quelli contro il patrimonio, come ben sintetizza Livio Ferrari nel suo libro “Di giustizia e non di vendetta” sui famosi pacchetti sicurezza: “consolidata abitudine che ci viene venduta da ogni governo e ogni volta più che di un pacchetto si può parlare di “pacco” dove si paventano sempre i reati di allarme sociale…il furto, lo scippo, la rapina che sono stati addirittura equiparati a reati di mafia e poi c’è stata la volontà di mettere in carcere graffitari, lavavetri, venditori ambulanti vendendo una insicurezza che è diametralmente opposta a quella reale”; chissà magari verranno istituite, sul modello americano, colonie penali, lavori forzati.

Negli Usa, come anche in Italia e in altri paesi  industrializzati, qualsiasi programma di riduzione del deficit (disavanzo) – panacea di tutti i mali - è  inserito in questo contesto: crescita delle disugua-glianze, con l’1% della popolazione che guadagna più del 20% del reddito del Paese, con indebolimento della classe media;  sottoinvestimento nelle infrastrutture del settore pubblico; sistema fiscale che continua a privilegiare le rendite finanziarie a scapito del lavoro. Senza contare che  l’Italia ha una evasione fiscale da terzo mondo. Perché coloro che devono lavorare per vivere devono essere assoggettati ad aliquote fiscali più elevate rispetto a quelli che traggono il loro sostentamento dalla speculazione?

Ci aspettano 20 anni in cui dovremo tutti ridimensionare le nostre aspettative di consumo e adottare abitudini di vita più semplici. Bisogna preparare figli e nipoti a vivere con meno cose, visto che queste saranno le prime generazioni occidentali costrette a ridimensionarsi rispetto ai genitori.

Ma riusciremo  a farlo? Quante sono le menti umane capaci di resistere alla lenta, feroce, incessante, impercettibile forza di penetrazione dei luoghi comuni?  “Consumare, consumare, consumare”. “ L’Italia è un paese ricco, noi stiamo meglio degli altri, nessuno è lasciato indietro, risolviamo tutti i problemi…”.  La ripetizione continua, ossessiva, è uno degli stilemi principali di una lingua totalitaria, laddove il totalitarismo della lingua non va necessariamente insieme al totalitarismo della forma di governo.

E’ quella totalitaria di partiti che parlano una lingua gonfia di odio,  di isterismo che si appropria delle parole e le usurpa, nutrendo con esse le minacce, attraverso i mezzi di comunicazione, le allusioni ai complotti, i tentativi di creare e seminare tensione, i finti attentati. Una lingua che dice per poi negare di aver detto, dieci, cento, mille volte, che disprezza gli avversari politici, che nega di fatto la povertà: “non esiste”.

Il trionfo della televisione ha generato orde di persone di fatto con patologie di “analfabetismo congenito”, in quanto incapaci di comprendere una pagina scritta, di afferrare un concetto e di svolgere un ragionamento. Al di sotto di una minoranza esigua che sa leggere e capire, è cresciuta una massa di neo analfabeti. Il 5% della popolazione non è in grado di leggere un questionario elementare; c’è poi il 33% che si blocca al secondo questionario. In condizioni simili una larga parte  della popolazione non è in grado di leggere neppure i giornali distribuiti gratuitamente.

E’ in atto ed ha conseguito già notevoli successi un’opera sistematica di distruzione della cultura scritta. In Italia 2/3 della popolazione non legge né un libro né un giornale. Come dare voce e speranza a questa massa che è anche la più debole, la più indifesa e la più povera? Sta qui la sfida!

 

 

 

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Il cammino e la porta

di  Lucia Lago

 

Nei Vangeli viene spesso detto e ripetuto che Gesù camminava. Gesù era sempre in cammino da un luogo ad un altro, da una città ad un’altra. Questo camminare non è solo una annotazione descrittiva ma indica una disposizione dell’animo. Se non si cammina si è fermi, se si è fermi non si va da nessuna parte.

Le persone vivono camminano, si muovono, cambiano, si trasformano, scelgono. Le persone “morte” rimangono fisse, stabili, si irrigidiscono, si impuntano, si intestardiscono. Seguire il Signore vuol dire inserirsi in un processo di continuo cambiamento, di continua conversione. Che triste sentire: “mio padre faceva così e lo faccio anch’io!”. E’ triste perché si replica senza porsi domande come se il tempo dei genitori e dei figli fosse lo stesso.

Molte persone sono tristi e insoddisfatte perché passano tutta la vita a cercare di essere come altre vite, di avere quello che  altri hanno e dimenticano quello che sono.

Il più grande comando della vita è andare avanti, evolvere, procedere. E camminando si trovano tante porte. Anche l’immagine della porta ha un significato simbolico. In tutte le culture indica un passaggio, una evoluzione spirituale. La porta fa passare dal fuori al dentro, dall’esterno all’interno. La porta permette di passare anche dal mondo profano a quello sacro e spirituale. Per questo numerosi templi hanno le porte sorvegliate da draghi, leoni, santi o divinità, perché può entrare solo chi è meritevole.

E’ un’immagine che ricorre nella cultura cinese, in quella induista, che era presente nell’antico Egitto ed anche presso i Romani. Questi ultimi conoscevano due porte dalle quali passavano i sogni: una di corno per i sogni veritieri ed una d’avorio per i sogni menzogneri. Anche Gesù diceva: “bussate…”, “sforzatevi di passare per la porta stretta”.

Egli dava una indicazione precisa: bisogna compiere certi passaggi, entrare in certe situazioni, affrontare certe paure. Sicuramente cambiare è difficile, scegliere spesso fa male, ma lasciare lì, fare finta di niente è pericoloso perché si rischia di trovare la porta chiusa. Quale gioia invece dà una porta aperta che indica accoglienza, libertà, calore, accesso. La porta aperta la si trova alla fine  di un cammino, perché solo così si diventa meritevoli, cioè consapevoli.

 

 

 

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Giustizia: Livio Ferrari
il sistema penitenziario ha fallito,
è tempo di cambiare

da Redattore Sociale del 21 gennaio 2011

 

“Di giustizia e non di vendetta. L’incontro con esistente carcerate” è il nuovo libro di Livio Ferrari, garante dei detenuti di Rovigo ed esperto di problematiche penitenziarie, che racconta frammenti di vite ristrette, tocca nervi scoperti e lancia proposte.

È una dura critica al sistema carcerario italiano definito “fallimentare” quella lanciata da Livio Ferrari, garante dei detenuti di Rovigo e una vita dedicata al volontariato carcerario, che ha dato alle stampe il suo secondo libro. Dopo “In carcere, scomodi”, ecco “Di giustizia e non di vendetta. L’incontro con esistenze carcerate” (edizioni Gruppo Abele): un libro per parlare dell’incontro a tutto tondo con la persona detenuta, per denunciare un sistema che “non considera persone i ristretti” e per lanciare delle proposte concrete.

Ferrari, dopo un libro sul volontariato di giustizia ora una pubblicazione di respiro un po’ più ampio…

È un libro complesso che tocca anche la questione del volontariato, il suo ruolo sedativo, le sue contraddizioni ma anche la sua importanza. Parla delle storie di tante persone recluse che ho incontrato, persone che ce l’hanno fatta, che hanno fallito, che ancora stanno camminando senza aver trovato una soluzione a tutto. Il libro offre delle riflessioni anche sul futuro di questa società e alla fine - avendo io un’idea abbastanza precisa del fallimento di questo sistema dal punto di vista giudiziario e, soprattutto, dell’esecuzione penale - lancia anche delle proposte.

Proposte di che tipo?

Una, ad esempio, per gli stranieri autori di reato. In questo momento noi li penalizziamo doppiamente: con la legge Bossi-Fini e con l’espulsione alla fine della pena. Molti di loro hanno già un percorso lungo nel nostro Paese, hanno cementato dei rapporti, degli affetti, hanno una famiglia e dei figli e sono incappati in un errore di percorso, come molti italiani. Eppure, nonostante loro percorrano tutto quanto prevede l’ordinamento giudiziario, alla fine non hanno gli stessi benefici. Invece un’occasione nuova spetta anche a loro.

La giustizia è un tema di grande attualità di questi tempi, se ne discute molto…

Purtroppo se ne discute e basta. Il dramma è che non ci si muove dagli slogan, dalle ipotesi e purtroppo ogni giorno aumentano i morti, i suicidi soprattutto di ragazzi giovani. Questo lascia esterrefatti perché quando succede che ventenni con davanti pochi mesi o un anno di carcere si tolgono la vita, uno è costretto a chiedersi cosa non funziona, non soltanto per quanto riguarda la pena comminata, ma anche l’esecuzione penale e le persone che in questo momento lavorano negli istituti penitenziari. Questi ultimi, sotto organico, sono un po’ alla frutta dal punto di vista della loro capacità umana di far fronte a una situazione di emergenza di questo tipo. Continuare così significa far saltare dal punto di vista psico-fisico anche le persone che lavorano nel carcere.

A regioni e Asl non frega niente dei detenuti

Mentre nelle carceri italiane si continua a morire e ad ammalarsi, il garante dei detenuti di Rovigo Livio Ferrari (in libreria con il secondo libro “Di Giustizia e non di vendetta”, ed. Gruppo Abele) accusa: “Della salute dei detenuti non frega niente a nessuno e tragico è stato il passaggio di competenze a regioni e Asl”. E sul fronte dell’assistenza sociale avverte che le cose non vanno meglio, mettendo in luce una magagna tutta veneta. “Il passaggio della sanità del carcere dal Ministero della Giustizia al Sistema sanitario nazionale si è rivelato un fallimento - commenta. Il Ministero almeno dava ausili, medicine e quant’altro anche con tutte le limitazioni che aveva. Invece adesso non si dà più niente. Le regioni e le Asl hanno tagliato tutto e continuano a tagliare. Non gliene frega assolutamente niente, questo va detto con forza: non è che non ce la fanno, non sono per niente interessati a coloro che sono in carcere”.

Ferrari annuncia poi di aver riscontrato un meccanismo “inverosimile” che ostacola l’accesso dei detenuti all’assistenza sociale. “In qualità di garante ho inviato una lettera al Dap perché sto assistendo a una cosa assurda - spiega: in tutta Italia il cittadino che viene arrestato e perde la residenza nel luogo di origine, in base al Dpr dell’89 sull’anagrafe, ha diritto alla residenza nel luogo in cui sconta la pena, potendo dunque accedere all’assistenza sociale di quel comune.

In Veneto, invece, la regione ha inviato una lettera ai comuni dicendo che questo non vale più: vale sì il Dpr, ma vale anche un articolo abrogativo della 268 secondo cui per quanto riguarda l’assistenza sociale tutto questo non è obbligatorio”. È dura l’accusa di Ferrari: “Nel Veneto i cittadini in carcere non sono più cittadini come gli altri, italiani o stranieri che siano, ma sono cittadini di un altro pianeta”. Da un punto di vista pratico, in questa situazione i detenuti devono riuscire a recuperare l’ultimo domicilio per accedere all’assistenza e se, per caso, neanche lì sono riconosciuti devono risalire al comune di nascita. Ciò ci fa capire quanto in basso siamo caduti a livello di diritti di queste persone che vengono sempre più dimenticate”.

 

 

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Ascoltare a cuore aperto

di Fabio Furini

 

Un altro anno di cammino accanto a chi vive ai margini nella nostra società si è concluso. Le porte del Centro Francescano di Ascolto hanno continuato a rimanere aperte e ben visibili, pronte ad accogliere tutti, soprattutto coloro che hanno bussato ad altre porte, spesso chiuse.

Salendo le scale della nostra sede si ha sempre la sensazione di arrampicarsi, di tendere verso l’alto, quasi una ricerca faticosa di quel senso di vivere pazientemente roso da una mentalità che premia chi ce la fa, calpestando o anticipando i desideri di crescita umana di chi è debole.

Appena attraversata l’ultima porta, però, ci si accorge che l’ambiente che accoglie è a misura d’uomo: caldo, essenziale, semplice ed accogliente. Non si ha la sensazione di trovarsi in un “bel” ambiente fisico, ma si percepisce subito la presenza di persone, i volontari, che ti guardano senza giudicarti e ti accettano come dono. Per chi ha fede, un dono di Dio.

Poi ci si siede e ci si guarda. Si permette che anche il silenzio iniziale possa essere uno strumento di relazione, un piccolo dialogo che annulla le distanze e avvicina due vite, incontrarsi in quel momento per un progetto per entrambi ancora sconosciuto. Inizia allora la fase di ascolto, paziente filo che tesse trame di possibili accoglienze, di mettersi a capire cosa e come altre persone vengono definite “meno fortunate” di te. Non ci sono subito risposte, ne bacchette magiche che trasformano il dolore e la sofferenza in sollievo e serenità d’animo. No, la prima risposta è l’attesa che chi è di fronte a te senta che tu lo ami e lo consideri bisognoso d’aiuto. Per questo ascoltare è sempre stato nel nostro stile di volontari una necessità irrinunciabile, senza la quale ogni idea e rapporto non può svilupparsi e produrre interventi concreti nella vita delle persone che ci scelgono come altra spiaggia di un definito traguardo di vita.

Noi, per 22 anni, siamo cresciuti così, ascoltando e aprendo il nostro cuore alle richieste di altri. E se a fine anno, calcolatrice alla mano, facciamo i conti matematici di chi abbiamo ascoltato, con il cuore ci sforziamo di sottrarre quanta più sofferenza possiamo pensando al lavoro e alle risorse che abbiamo investito per aiutare l’altro.

Ci troviamo anche quest’anno di fronte a dati e tipologie di richieste sempre più specifiche, complesse e numerose e non possiamo sottrarci al nostro compito di ascoltarle tutte, perché il disagio non ti chiede specializzazioni, ma  risposte al senso e al progetto di vita chi si è perso nei meandri del rifiuto.

Nel 2010 il servizio ascolto si è ulteriormente integrato con le diverse progettualità della nostra Associazione. Ogni servizio ritrova in sede uno spazio d’incontro e degli strumenti idonei ad ascoltare il disagio per definire percorsi di accompagnamento e di recupero per chi entra dalla nostra porta.

Dati non matematici

In quest’ultimo anno abbiamo scattato, a differenza dalla nostra classe politica, una foto ben diversa della vita quotidiana della persona che vive nel nostro territorio.

La crisi che tutti ormai considerano passata, è ancora ben palpabile e concreta in coloro che sono privi di mezzi e di strumenti per vivere con dignità la propria vita. Non c’è solo lo straniero e chi delinque in cima alla piramide della povertà. Da noi arrivano padri e madri di famiglie che si disgregano per mancanza di valori, di solidarietà, di accoglienza e di risposte a bisogni quotidiani. Persone deluse da risposte generiche e di falso altruismo date da chi ha responsabilità di governarci e di assicurarci un equo benessere socio economico. Sono gruppi invisibili, perché considerati solo una fetta minoritaria nella nostra società.

I dati segnalano un aumento di questo disagio familiare, di lavoro che manca, di sostegno a chi vive per forza di cose alla giornata. A ciò si aggiungono la difficoltà di assistere coloro che sono svantaggiati, perché portatori di handicap, di patologie o per il solo fatto di vivere sole, pensionate ed anziane.

Tra le realtà del disagio più incontrate emerge il dato delle persone senza diritti, specialmente stranieri, non tutelati, anzi colpiti da leggi indegne per un Paese democratico. Sono coloro che vivono ai margini di tutto, privi di un’identità che spesso si rivolgono al servizio degli Avvocati di Strada o allo Sportello Luna. Dai volontari ricevono supporto non solo di ascolto, ma anche risposte concrete di accoglienza che le riconoscono persone visibili. degne di amore e di solidarietà.

La diversità, ormai esorcizzata come pericolo per le nostre conquiste sociali, o per le nostre comodità raggiunte, crea un senso di paura e di rifiuto di queste persone, negando loro ogni possibilità di migliorare la loro vita, in un paese come il nostro ancora ricco di risorse e di opportunità.

I molti stranieri che chiedono aiuto manifestano questo senso di esclusione e di rifiuto, anche se la maggior parte di loro cerca di integrasi accettando regole e stili di vita simili ai nostri. L’aumento tendenziale dell’ascolto di stranieri con problemi di carcerazione conferma questa situazione di rifiuto delle ormai palesi diversità esistenti non solo da noi, ma nel mondo intero.

Arrivano ancora richieste d’aiuto legate al mondo delle dipendenze, segno delle difficoltà di risposta da parte di alcuni servizi, ma anche di situazioni familiari particolari in cui mancano sostegni concreti. Se non s’investe economicamente nella prevenzione, fatta anch’essa di risposte e di accoglienza, non si può pensare di risolvere situazioni di disagio estremo, ma solo tamponare con interventi di scarso impatto sociale.

Il mondo carcerario conduce molte persone al servizio ascolto. Sia chi ha avuto problemi giudiziari che i loro familiari e le persone coinvolte in questa problematica usufruiscono del servizio. La presenza dei volontari del carcere in sede diventa essenziale per continuare il lavoro iniziato e condotto nella Casa Circondariale di Rovigo. Sempre più frequenti sono relazioni e interventi con persone detenute in altri penitenziari.

Una sede per tutti

La sede dell’Associazione è diventata il punto di riferimento per tutti i volontari. Quest’ anno sono notevolmente aumentate le richieste d’informazioni e i contatti con enti pubblici e con l’associazionismo del Terzo Settore, segno che il nostro lavoro incide sempre di più negli interventi sociali necessari nella nostra provincia.

Il quotidiano lavoro di segreteria permette di mantenere i contatti con tutte queste realtà, ma soprattutto offre informazioni importanti a chi cerca aiuto o riferimenti adeguati alla propria richiesta.

Nel quotidiano disbrigo di pratiche amministrative (dalla corrispondenza ai contatti telefonici) i volontari ricevono preziose informazioni e importanti conoscenze per rispondere alle richieste degli utenti, dei loro familiari o di chi è in prima linea nell’aiutarli.

La segreteria assicura anche il passaggio quotidiano delle richieste di colloquio, delle attività promosse dall’Associazione, delle informazioni provenienti da altri enti, delle adesioni ad iniziative (convegni, forum, incontri) promossi in tutta Italia.

Continuano le richieste di fare volontariato nell’Associazione. Nel 2009 ce ne sono state 29 e molte di loro hanno trovato sbocco nella scelta di iniziare un servizio nella nostra Associazione. Per i nuovi volontari durante l’anno saranno programmati percorsi di formazione.

Servire è amare con gratuità

Mettersi a servizio dell’altro significa fare un tratto di cammino con lui occupandosi della sua vita e delle sue richieste d’aiuto.  In questo percorso nulla deve essere dato per scontato, perché ogni giorno le persone si presentano ai noi con problemi sempre più complessi che hanno bisogno di risposte concrete.

Si deve continuare ad occuparsi delle vecchie e nuove povertà che purtroppo crescono e si aggravano, segno di una società divisa dalla ricchezza e dall’egoismo.

Ogni volta che si fa un bilancio non ci si deve dimenticare di ripensare, consolidare e inventare realistiche progettualità, coinvolgendo sempre più i volontari nei singoli servizi.

Da sempre lo stile della fedeltà al servizio, sostenuta da una formazione umana e da una conoscenza delle problematiche sociali, è il modo con cui noi costruiamo un futuro di speranza per la nostra società.

Dobbiamo impegnarci a tenere sempre più spalancate le porte del nostro Centro, lasciare che entrino e escano le persone vere e non solo i loro problemi.

Se sapremo sempre ascoltare con empatia, in una dimensione di vera accoglienza della persona per le sue qualità,  potenzialità e diversità, allora potremo dirci veramente volontari.

Ridiamo a tutti quella speranza e voglia di vivere con dignità e amore per la vita che è il bene più prezioso che ci è stato donato.


 

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Al femminile

di Paola Zonzin

 

Cosa significa essere donna in carcere? É diverso il modo di vivere dentro questa realtà per gli uomini e per le donne? Sicuramente la differenza di genere, con tutte le peculiarità che porta con sè, influisce anche sulla condizione di detenuto.

Le donne in carcere rappresentano in Veneto, come in Italia e in tutta Europa una minoranza, attorno al 5% di tutta la popolazione detenuta. Piuttosto ristretta risulta la gamma dei reati che esse hanno commesso: la maggior parte di questi sono reati legati al mondo della droga o della prostituzione.

Quest’ultimo dato già ci parla del vissuto delle donne in carcere, che provengono da storie di grande povertà non solo materiale, ma anche morale, di opportunità e di amore. Alle spalle vi sono le famiglie di origine a dir poco “disordinate”, e spesso l’assenza di figure genitoriali di riferimento, che abbiano aiutato a crescere e ad imparare a scegliere. Frequenti sono le donne detenute che confidano di aver subito abusi e violenze, in seguito alle quali si è innescata una catena di disistima che le ha portate a imboccare la strada sbagliata. E così ci si butta nella tossicodipendenza e nella prostituzione. In altri casi, molto frequenti, si sceglie il compagno sbagliato, quello che ti induce a delinquere, a spacciare e poi magari, al momento dell’arresto, si dilegua scaricando le responsabilità.

L’ingresso in carcere, che per tutti è traumatico, per una donna è particolarmente angoscioso, soprattutto se si sono lasciati a casa dei figli: l’isolamento e la mancanza di contatti con l’esterno, che seguono la carcerazione, sono momenti di grande sofferenza e disperazione.

La vita reclusa, poi, fa sentire forte lo strappo dai propri affetti. È negata qualsiasi forma di intimità, così importante nella relazione con il proprio compagno e con i figli, e forte è la paura di spezzare i legami. Ecco allora l’esigenza di mantenere i contatti attraverso la scrittura; le detenute consumano inchiostro e fogli che elemosiano continuamente ai volontari, cui chiedono anche di far telefonate a casa per conto loro per dare o avere notizie di chi sta là fuori. L’importanza dei gesti, anche piccoli, nella comunicazione con le persone alle quali vogliamo bene, si nota con tenerezza in occasione dei colloqui: le ragazze, quel giorno, scelgono con cura l’abbigliamento, si sistemano i capelli e si truccano, quando spesso invece, durante la monotona giornata di reclusione, ciondolano tutto il giorno in pigiama.

Particolarmente triste è la condizione dei figli delle detenute, che la legge prevede possano rimanere accanto alla madre solo fino ai tre anni, e ciò crea in loro un doppio trauma. Il primo è determinato dal fatto stesso di vivere in un carcere: anche se le strutture che ospitano mamme e bambini solitamente hanno un’organizzazione più flessibile, le porte si chiudono anche dietro le spalle dei piccoli ospiti, che per tre anni vivono a tutti gli effetti la detenzione. Inoltre, compiuta quell’età, vengono improvvisamente strappati dalle loro madri per essere affidati a persone con cui non hanno mai vissuto prima.

Anche la mancanza di intimità domestica è particolarmente patita dalle donne, naturalmente portate a curare il proprio “nido”. Si trovano invece a vivere in celle chiuse, spersonalizzate, di frequente squallide. Lo sforzo è allora quello di abbellirle, di ornarle con oggetti che parlano di sè, di continuare a dedicarsi alla preparazione del cibo. È incredibile vedere quante ricette riescano a realizzare con il solo fornellino a gas e qualche pentola: talvolta arrivano ai colloqui con noi volontari con le mani sporche di farina perchè stanno impastando la pizza! Dietro c’è sicuramente la volontà di integrare il vitto, a loro detta spesso non buono, con qualcosa di più gustoso, ma soprattutto la necessità di essere attive e di conservare qualche comportamento della vita libera.

In realtà sono la noia e l’inattività a far da padrone durante la detenzione. Lunghi tempi vuoti che offrono il fianco al rimuginare, ai pensieri ora rancorosi, ora disperati che non portano da nessuna parte, alla nostalgia di casa, ai rimorsi per non poter essere presenti là...Ecco allora la frequente depressione, da tenere a bada con gli psicofarmaci.

Quando invece la cura migliore è quella di far uscire le detenute dalle celle, offrire opportunità di svago e di crescita all’interno del carcere, come la scuola o qualsiasi attività ricreativa, che le impegni, le faccia sentire vive. Ma soprattutto sarebbe indispensabile permettere di accedere al lavoro, perchè gratifica e consente un vero recupero: si può pensare ad un futuro diverso, si apprende un mestiere e ci si abitua a ritmi di vita normali, scanditi da orari e impegni da rispettare; è proprio di questo tipo di allenamento che molte ragazze che entrano in carcere hanno bisogno, poichè provengono da vite sbandate, dove tutto è tremendamente possibile.

Stupisce constatare come purtroppo molte di loro non abbiano potuto sviluppare alcuna abilità, anche di tipo manuale poichè fuori non hanno imparato un mestiere regolare. Se non vengono aiutate a sviluppare le proprie risorse durante la detenzione, difficilmente, una volta uscite, potranno sperare di cambiare vita ed inevitabilmente torneranno a percorrere la strada sbagliata.