ANNO 2008

SOMMARIO anno 2008

  1. Vent’anni e non sentirli, ma ricordarli! (Livio Ferrari)
  2. Nel 2007, sulle strade della solidarietà
  3. Tutto l’impegno possibile, ancora una volta (Rossella Magosso)
  4. Il nostro primo anno da “Avvocato di strada” (Francesco Carricato)
  5. I giovani del terzo millennio come il giovane Francesco (Fulvianna Godino)
  6. Il Centro Francescano di Ascolto entra nel Sistema Bibliotecario Provinciale (Chiara Tosini)
  7. Quell’ovvio passo verso la realtà (Alessandro Sovera)
  8. La condizione della donna e la nostra società “civile”… (Irene Rigobello)
  9. L’ascolto e l’incontro di ogni giorno con chi bussa alla nostra porta (Fabio Furini)
  10. Le sorprese dell’esistenza, per un ... Innocente, di nome (Innocente Lorenzetto)
  11. Volontari in carcere, tra incomprensioni, abnegazione e vite dimenticate (Paola Zonzin)

[Sommario]

Vent’anni e non sentirli, ma ricordarli!

di Livio Ferrari

 

Il freddo e le poche ore di luce che connotano la stagione invernale condizionano, in qualche misura, la mente all’introspezione, che è l’anticamera del ricordo e in fondo della nostalgia.

Nell’operazione de ressouvenir tutto si ridisegna come all’ora, nella primavera del 1988, alla Festa del Tau organizzata al Palazzetto dello sport di Rovigo dagli infaticabili padre Giorgio Cavedale e Luigi Mutterle. Tutto il Veneto francescano si radunò per dare significato alla propria presenza e testimoniare la fede che lo spinge, centinaia e centinaia di  uomini, donne e giovani. Non c’era migliore occasione per presentare la futura nascita del “Centro Francescano di Ascolto”, che io feci nel corso della celebrazione eucaristica, all’offertorio, officiata da un’infinità di frati e presieduta dal Vescovo e dall’allora Ministro provinciale dei frati minori cappuccini del Veneto padre Raimondo Ambrosi.

Le parole che pronunciai non le ricordo, erano scritte su un foglio per un testo che avevamo concordato in precedenza. Quello che ho ben presente è l’emozione che mi attanagliava e il peso che tutto questo produceva sulle mie allora giovani spalle.

I mesi successivi furono intensi, spesi tra i viaggi a Mira per degli incontri di formazione che ci teneva padre Alberto De Meneghi della coop. Olivotti, le riunioni con alcuni “benefattori”, tre direttori di banche, che avrebbero dovuto supportare il peso economico iniziale e il ritrovamento della sede, luogo fisico e necessario per operare nei futuri servizi.

Giorgio la soluzione per la sede ce l’aveva e mi portò in via Verdi, proprio di fronte al carcere, che io guardai con curiosità e che era un luogo a cui non avevo mai fatto granché caso. Lì, al civico 23, abitava e ci sta tuttora Maria Roccato, un raro e fulgido esempio di terziaria francescana. Giorgio mi mise al corrente dell’età avanzata della francescana, quasi 74 anni, e che perciò dovevamo pensare a quella soffitta come solo il primo passo, la prima possibilità, perchè in futuro avremmo dovuto trovare altro. Negli anni trovammo altro, dove siamo tuttora,  e Maria, con la grazia del Signore, è ancora in via Verdi e gode ottima salute.

Lavorammo tutta l’estate per ridare dignità ad una vecchia soffitta ubicata sopra una lavanderia industriale, che al vero emanava fumi e odori assolutamente acri. Tra gli altri, che lavorarono per la ristrutturazione della prima sede dell’Associazione, mi piace ricordare Simone Murari, che pur già provato dalla malattia non si tirò indietro di fronte all’impegno che avevamo assunto e poi, finché ce la fece, fu volontario nel servizio ascolto. Ora, assieme a Giorgio e a Gigi, ci guarda da lassù e sono sicuro ci aiuta e ci sostiene in un altro modo.

Presentammo alla città e al territorio la nostra nuova opera di carità il 20 ottobre 1988 al vecchio teatro Duomo, con la presenza di un padrino d’eccezione: don Luigi Ciotti, che avevo contattato e che fu felice di tenerci a battesimo; allora non sapevo che in futuro sarebbe diventato un esempio e una guida, oltre che un amico.

Quella sera, sul palco del teatro, con a fianco padre Giorgio, prima di dare la parola a don Luigi, blaterai poche e confuse sillabe di presentazione. Fu una lezione importante per la mia esistenza, come molte altre successive, perchè prima dell’incontro nonostante i solleciti di Nicoletta a preparare un’introduzione scritta, nella mia supponenza credevo di avere ben chiaro quello che avevo da dire e mi presi solo pochi e scarni appunti.

Al momento di parlare compresi che non potevo dire nulla perché non avevo nessuna esperienza e dentro di me non c’era alcun patrimonio da donare, perchè questa possibilità deriva solamente dall’esperienza, dall’incontro con le persone sulle strade del dolore, della disperazione, della solitudine, dell’emarginazione, che avrei fatto di lì a poco.

Due giorni dopo, sabato 22 al mattino inaugurammo la sede con i primi volontari, i frati amici e i terziari francescani e la benedizione del Signore, opera che Lui volle e che sempre ci dimostrò essere nel suo nome. Alla fine dell’incontro, forse perchè provato dalle tante preoccupazioni e tensioni di quei giorni mi lasciai incautamente andare ad alcune osservazioni forti nei confronti delle responsabilità sociali della politica, con propositi alquanto bellicosi, direi ora a distanza di tempo. Questo fece sì che il giorno successivo, inventandosi una scusa, da Mira arrivarono due volontari, si invitarono a cena e vollero sincerarsi delle mie intenzioni, mandati da padre Alberto che aveva assistito alla mia performance del giorno prima.

Penso che se ne andarono senza aver ricavato particolari risposte da quell’incontro e, probabilmente, sin d’allora, comprendendo che il Centro Francescano di Ascolto sarebbe stata un’entità staccata da loro, autonoma, mentre il loro obiettivo era che fossimo un pezzo della realtà brentana.

In quei primi mesi di vita dell’Associazione, fu tutto un pullulare di incontri. Invitammo tutti coloro che nel territorio provinciale erano impegnati nel sociale, per trarne degli insegnamenti ed iniziammo, timidamente, ad organizzare i primi servizi: ascolto in sede e vestiario presso il Convento dei frati cappuccini di Rovigo.

Anche sui giornali locali fu data notizia della nascita della nostra nuova realtà e questo fece sì che un detenuto dell’istituto di via Verdi ci scrivesse, chiedendoci di andarlo a trovare, visto che dicevamo di fare volontariato, perchè loro lì dentro si sentivano soli e abbandonati da tutti.

Ci guardammo in faccia e alla fine solo padre Dario Caron, allora superiore del convento di Rovigo, Stefano Guerrato ed io dicemmo di volerci provare. Facemmo richiesta per avere il permesso, ma una volta arrivato mi ritrovai praticamente solo, perchè padre Dario entrò in carcere solo in poche occasioni e per celebrare la Messa in assenza dell’allora cappellano don Nereo Lamberti, mentre Stefano, dopo avervi fatto accesso con me una volta, non ritenne di poter continuare in quel servizio perchè era un luogo che lo metteva a disagio.

Rimasto solo, mi feci aiutare a muovere i primi passi dal maestro Giovanni Pavarin, presidente di Portaverta, che mi introdusse in quell’ambiente complesso e mi insegnò le cose essenziali per iniziare il servizio. Con lui nacque un bel rapporto e per anni ci ritrovammo uniti nella collaborazione e  la promozione delle attività del Coordinamento, che proposi e nacque alcuni mesi dopo.

In effetti nei primi pomeriggi trascorsi in carcere ad incontrare i detenuti della sezione maschile, mi ritrovai di fronte ad un’umanità completamente dimenticata dalla società esterna. Persone che avevano e accumulavano, via via che passava il tempo, una infinità di problemi, le guardie carcerarie (allora si chiamavano così, essendo un corpo militare, la riforma sarebbe arrivata di lì ad un anno nel 1990) con altrettanti problemi: turni massacranti, paghe inadeguate, formazione quasi inesistente, e nessuna possibilità di esternare tutte le loro difficioltà.

Dopo alcune settimane mi prese lo scoramento e stavo maturando la decisione di lasciare, perchè troppi erano i problemi da affrontare ed io non ne avevo di certo le possibilità. Però mi fermai un poco a riflettere e a chiedermi: “se il Signore mi ha inviato in questo posto un motivo ci sarà”, infatti era ben evidente lo stato di abbandono i cui versavano i reclusi, e allora cercai di trovare la modalità migliore per rendere efficacia questa presenza”.

Chiesi immediatamente agli uffici del carcere notizie su chi aveva accesso, come me dall’esterno, indipendentemente dal tipo di intervento che portava avanti e, una volta avuti i nominativi, nel settembre del 1989 chiamai a raccolta tutti nella vecchia sede della nostra Associazione. Ricordo, tra gli altri, che parteciparono: Ferdinando Dall’Occo della parrocchia del Duomo, il maestro Pavarin, il cappellano don Lamberti, Francesca Quadretti e altri due volontari di Portaverta, Massimo e Stefania, e probabilmente qualcuno di cui ora mi sfugge il nome.

Concordammo di riunirci mensilmente per confrontarci e mettere insieme le nostre poche risorse e, da allora, il Coordinamento esiste a tutt’oggi.

Gabriele Ercolini e Daniela Rizzi mi fecero presente, sempre nei primi tempi della nostra storia, la loro disponibilità a prendere in mano il servizio vestiario presso il Convento dei Frati Cappuccini. Ricordo che il Superiore padre Dario e il terziario Walter furono ben felici di essere sollevati da una incombenza che stava diventando sempre più gravosa per i frati, e il fatto che una decina di volontari, tre volte alla settimana smistassero tutto il materiale che perveniva a tonnellate al Convento, e un paio di volte poi lo distribuissero alle persone indigenti, che stavano aumentando di anno in anno con l’arrivo degli immigrati, fu una grossa boccata d’ossigeno per tutti i religiosi di Rovigo. Tanto che padre Dario, riconoscente del servizio offerto, offrì a tutti gli operatori del servizio una cena “indimenticabile” per la bontà e la qualità.

Un altro ricordo di quei giorni è legato all’emergenza acqua, infatti  nell’estate del 1989 il medio e l’altro Polesine si trovarono a vivere il problema idrico per l’inquinamento che si era prodotto nelle acque dell’Adige, dalle quali si approvvigionava il locale acquedotto. C’era tutta una fetta di popolazione che non poteva raggiungere in maniera autonoma i supermercati per procurarsi l’acqua minerale. Perciò il settore servizi sociali del comune di Rovigo ci coinvolse per portare nelle case di persone anziane o con problemi di inabilità, confezioni e confezioni di acqua minerale, settimanalmente e per un periodo di circa tre mesi.

Ci organizzammo con alcuni volontari automuniti, coordinati da Alessandro Borghetto, scoprendo che alcuni non erano in stato di indigenza, anzi, con parentele imbarazzanti e che non ci esentammo dal segnalare per evitare un’ingiustizia nei confronti di quei tanti che, pur avendo le caratteristiche per usufruire del servizio, non erano da questo mai stati raggiunti e ami avevano richiesto.

Questo fu proprio uno dei primi servizi in cui scoprivamo la città e entravamo in contatto diretto con il territorio. Iniziarono ad arrivare pure delle richieste di sostegno a domicilio per un anziano a Casa Serena e per un ragazzo disabile psichico in una frazione vicina. Entrambi furono presi in carico da un giovane volontario: Domenico Squizzato, che successivamente si impegnerà assiduamente nel servizio all’Ospedale psichiatrico e nell’assistenza domiciliare ai malati di aids.

Fu in quel periodo che conobbi la psichiatra Chiara Turolla, ferrarese, che dirigeva il residuo dell’Ospedale psichiatrico di Granzette. Una donna energica e desiderosa di dare significato alla vita delle persone chiuse nei reparti maschile e femminile di uno degli ultimi manicomi ancora aperti in Italia.

Quando seppe del nostro volontariato mi chiese subito di organizzare un servizio per entrare nei reparti stessi del psichiatrico e portare il territorio dentro, per ricucire quella separatezza che da troppi anni pagava l’istituzione chiusa.

Iniziò allora un’esperienza che durò quasi otto anni e che impegnò una ventina di volontari, la maggior parte giovani, che portarono una grande ventata di vita e dignità in reparti dove vigeva la contenzione, l’accanimento terapeutico attraverso l’abuso farmacologico.

Di quell’impegno resta un volume scritto dai volontari del servizio “Sofferenza psichica, quale atteggiamento?”, che raccoglie anche gli atti di un convegno pubblico che organizzammo, dal medesimo titolo, con la presenza di due psichiatri: Antonio Massignan di Padova ed Eugenio Borgna di Novara. Ricordo ancora l’eccezionale personalità del prof. Borgna, di cui in questi anni ho letto molti suoi libri, che univa una sapienza sconfinata dei risvolti della mente umana ad una semplicità ed umiltà disarmanti.

L’incontro coi poveri di allora, nel servizio vestiario, ci portò ad un impegno nuovo rivolto alle persone senza dimora. Partecipammo, io e Patrizia Granata, giovane laureanda, a diversi incontri del Coordinamento Nord Italia per i senza fissa dimora a Bergamo e a Brescia.

Attivammo anche una ricerca, per circa un anno, di verifica delle presenze quotidiane alla mensa dei poveri dei frati cappuccini e di coloro che alla notte dormivano nelle sale di aspetto della stazione ferroviaria. Tutto questo per fotografare la realtà della marginalità nella nostra città e capire quali progetti attuare per dare risposte concrete al problema. I numeri, allora, per fortuna, erano molto piccoli. Non superavano le 3-4 unità coloro che bivaccavano in stazione, mentre si aggiravano intorno ad una decina gli ospiti della mensa. Rovigo non era una città “appetibile” per i cosiddetti “barboni”, in quanto priva di dormitorio e perciò d’inverno inospitale. Quei pochi che giungevano in città facevano il giro di conventi e chiese a chiedere elemosine, si fermavano alla mensa dei poveri e se ne ripartivano.

Ricordo un signore anziano che abitava a Varese e una volta all’anno mi veniva a salutare. L’ultima volta mi disse che aveva ottenuto la pensione di vecchiaia e che ormai non ce la faceva più a fare questa vita e che probabilmente quella era l’ultima volta che ci saremmo visti. Infatti non lo rividi più.

La storia del Centro Francescano di Ascolto continua a tutt’oggi, questo è stato solo l’inizio. Il racconto completo, con le iniziative e i progetti attuati in questi 20 anni, sarà pronto per il 23 ottobre prossimo, data nella quale festeggeremo con un significativo momento pubblico, a presto!

 

 

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Nel 2007, sulle strade della solidarietà

 

1. Rovigo – Accademia dei Concordi – presentazione del volume “In carcere, scomodi”

2. Pontecchio Polesine (Ro) – Università Popolare – Convegno “Carcere e comunità esterna”

3. Verona – Associazione La Fraternità – Incontro “Motivazione del volontariato”

4. Roma – Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia – Assemblea nazionale “Percorsi di giustizia, codice penale e inclusione sociale”

5. Treviso – Associazione Prisma – Convegno “Punizione o rieducazione in una prospettiva di reinserimento sociale”

6. Padova – Università agli Studi facoltà di sociologia del diritto – Master in criminologia “ Carcere e volontariato”

7. Asiago (Vi)Seac – Seminario di studi “Quale giustizia tra vendetta e perdono”

8. Rovigo – Coordinamento volontari carcere – Spettacolo “Il carcere in piazza”

9. RovigoIripa Veneto – Seminario “Carcere: dalla pena...al riscatto”

10. Padova – Comune e Università agli Studi – Convegno “In carcere, scomodi”

11. Trento – CRVG Trentino Alto Adige – Corso formazione “Ruolo e funzione del volontariato penitenziario”

12. Cagliari – Gruppo Abele e Libera – I cantieri dell’abitare sociale – Strada Facendo 3 “Il carcere in una società che aumenta l’esclusione sociale”

13. PaviaCaritas diocesana e Agape – Incontro di formazione “Le prospettive del volontariato giustizia”

14. Rovigo – Liceo Socio Pedagogico C. Roccati – Incontro e confronto “L’esperienza del volontariato nelle carceri”.

 

 

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Tutto l’impegno possibile, ancora una volta

di Rossella Magosso

 

La nostra associazione quest’anno compie venti anni!!!!! Auguri e ancora auguri !!!! complimenti li porta bene, è ancora piena di energia di entusiasmo e forze giovani…un’associazione fresca e frizzante.

Nell’anno appena trascorso il nostro impegno di volontari nella Casa Circondariale non è mancato anzi è sempre più presente nonostante le quotidiane difficoltà, mi piace pensare, però che tutto questo fa parte del percorso e serve per rafforzare sempre di più le nostre convinzioni.

Un anno  fatto di nuove conoscenze e non solo, persone purtroppo recidive. L’indulto l’anno scorso ci ha fatto esultare e gioire per la grande massa di persone che sono uscite, ma ahimé durante l’anno l’affluenza purtroppo è stata in continua crescita.

Questo ci deve far riflettere: dove si nasconde lo Stato, uno Stato sempre meno presente, sordo e cieco? Come si può far finta che in questo anno niente sia successo e tutto vada bene, le carceri si sono iper affollate e tutto continua come se la situazione sia rimasta al periodo dell’indulto.

Come mai ci viene sempre più difficile in questo momento con questo tipo di società essere vicini e allungare le nostre mani al prossimo in difficoltà?

Mi soffermo spesso a pensare a questo e tutto mi mette in crisi, cerco di dare spiegazioni ai miei dubbi alle mie incertezze, vorrei riuscire in risposte positive ma non sempre riesco. Abbiamo nel nostro Paese un numero sempre maggiore di persone che arrivano da tutte le parti del mondo. Questo potrebbe svilupparsi in una grande fonte di sinergia…ma sono solo buoni propositi l’inserimento, il lavoro, la casa, sono mete molto lontane e di difficile attuazione, molti sono i clandestini e molti quelli che cercano di raggirare lo stato italiano.

Nel grande calderone, purtroppo, anche fra i nostri connazionali ci sono persone senza scrupoli, allo sbaraglio di sé stessi e molti sono quelli che arrivano nelle nostre carceri. Violenza di ogni genere: droga, rapine, omicidi, furti nelle nostre case, questo fa parte ormai del nostro vivere quotidiano.

Diventa sempre più difficile restare fermi alle proprie convinzioni, che ti portino avanti nel tempo e che ora sono poco consoni con la realtà attuale, e vorresti trovare qualche spiraglio ma non sempre lo si trova.

Ti chiedi allora: quello che sto facendo va bene? Non va bene? Forti dubbi nascono e ti domandi se serve allungare la mano a queste persone. La risposta ancora una volta è sì. Restiamo fermi al nostro volere bene al prossimo; aiuto, amore, solidarietà, comprensione, facciamo in modo che non restino solo parole.

Conforto, appoggio e incoraggiamento è arrivato anche dal Magistrato di sorveglianza Giovanni Maria Pavarin, che nell’ultimo numero della rivista “Seac Notizie” ha scritto un bellissimo articolo sul tema “volontariato e giustizia”. Sono rimasta entusiasta delle sue parole, del suo impegno, la nostra presenza la ritiene indispensabile per un buon reinserimento del detenuto. Siamo una figura pulsante in un luogo dove ancora esistono troppi pregiudizi e non sempre siamo i benvenuti.  Lo ringrazio per le sue efficaci parole, per essere un nostro alleato in questa battaglia e mi auguro che molti magistrati la pensino come lui, per avere maggiori risposte in merito.

Il Coordinamento dei volontari in carcere ha promosso un corso di formazione per tutti noi impegnati nell’attività, molto interessante e ricco di stimoli, finalizzato sulle motivazioni che ci hanno spinto ad entrare in una realtà del sociale particolare; come avviene l’approccio con il detenuto e il nostro relazionarci con queste persone.

Molte le domande scaturite, i quesiti posti, è stato bello perchè ognuno di noi ha portato la sua esperienza e abbiamo così potuto insieme confrontarci, con il valido aiuto della docente, per una crescita comune in un percorso sempre pieno di ostacoli, l’esperienza è stata ottima e da riproporre.

Continuo a partecipare al tavolo di lavoro Got (gruppo di osservazione trattamentale) presso la Casa Circondariale e un poco alla volta questo sta iniziando a dare i suoi frutti, Il lavoro non è di facile attuazione ma l’impegno è buono.

Noi volontari del carcere siamo sempre più partecipi a molte iniziative che vengono attuate nell’istituto penitenziario cittadino e questo è un segnale positivo, di una buona collaborazione.

Le attività nella sezione femminile continuano e molte sono le detenute che partecipano, che sono sempre presenti e vengono agli appuntamenti con grande entusiasmo. Hanno necessità della nostra presenza, che le fa sentire ancora persona e la nostra allegria e gioia di vivere contagia anche loro e capiscono che nulla è perduto, il tempo della carcerazione è un passaggio per capire e riflettere sugli errori commessi.

Continua l’uscita della rivista dei detenuti di Rovigo “Prospettiva Esse”, non senza difficoltà, sembra che a qualcuno faccia piacere metterci, come si suol dire, …i bastoni fra le ruote… ma la nostra pazienza è illimitata e quindi niente ci può smuovere dal nostro impegno. Lo scrivere aiuta le donne della sezione femminile a farle fa sentire parte della società, la loro voce, anche se mesta, si fa sentire, le loro storie, le emozioni, i sentimenti, vengono alla luce non senza tristezza e anche con un po’ di rabbia. I loro occhi a volte esprimono l’espressione di un profondo disagio, le lacrime scendono e cercano di lavare le loro pene e i conflitti interiori che si manifestano.

Per il Santo Natale e le feste abbiamo cercato di creare condivisione portando diverse iniziative, tra le quali un momento di riflessione sul natale e altri momenti con musica, allegria e festa. Non è mancato anche il taglio di panettoni, dove l’abbuffata è stata generale.

Il 23 dicembre, nella cappellina del carcere c’e stata la messa officiata dal Vescovo, e la partecipazione dei detenuti è stata buona, erano presenti anche varie autorità, rappresentanti delle istituzionali e gente comune; tutti insieme per un gesto di fratellanza, non dimentichiamoci che siamo tutti fratelli e che l’amore dovrebbe sempre trionfare.

 

 

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Il nostro primo anno da

“Avvocato di strada”

di Francesco Carricato

 

Quest’anno, o poco più, di collaborazione all’interno dell’Associazione è stato veramente intenso e proficuo, almeno per noi avvocati che ci siamo affacciati, molti per la prima volta, sul mondo del volontariato grazie al Centro Francescano di Ascolto, e così sono convinto sia anche per tutti coloro che da tempo, più o meno lungo, prestano la loro opera nell’Associazione ideata e diretta da quel “meraviglioso rompiscatole” che risponde al nome di Livio Ferrari …

Quando infatti per la prima volta Livio, con il suo solito modo di fare sornione ed incisivo al tempo stesso, mi ha contattato proponendomi di avviare lo Sportello di Rovigo di Avvocato di Strada dentro il Centro Francescano di Ascolto, ho subito percepito che in quel preciso istante si sarebbe posta una scelta impegnativa ed esigente, per me e per tutti quelli che in quel momento, od anche successivamente, avrebbero deciso di aderire all’iniziativa: la scelta di “stare fuori dal coro”, di mettersi dalla parte degli ultimi, di dare qualcosa del nostro tempo, e della nostra vita, senza pretendere nulla in cambio, ma magari ricevendo molto di più di quel poco che si è in grado di dare.

Ciononostante, non ho avuto, e così molti amici insieme a me, il minimo dubbio nel rispondere di SI’ alla richiesta-provocazione di Livio, sia perché ho intuito che il servizio che ci veniva proposto di svolgere avrebbe potuto essere veramente importante per la nostra realtà sociale rodigina, sinora sostanzialmente sprovvista di strumenti di tutela legale per i senza fissa dimora.

Sia, e soprattutto, per l’esigenza di rispondere ad un’istanza più profonda, che probabilmente è dentro ognuno di noi e cui troppo spesso non diamo peso, e che ha a che fare con il “senso” da dare alla vita che ci è stata affidata.

Non voglio peraltro nascondere che non sono state assolutamente solo “rose e fiori”, che si sono verificate difficoltà, intoppi, incomprensioni, “tirate d’orecchi” (vero Livio?), abbandoni, ma posso anche orgogliosamente affermare che lo spirito iniziale non è mai venuto meno ed anzi si è rafforzato, che persone meravigliose ci hanno quotidianamente aiutato – e penso soprattutto a Patrizia Donzelli – ad affrontare tutti i problemi che via via si presentavano, che nuovi volontari si sono avvicinati alla nostra iniziativa, che gradualmente abbiamo iniziato ad “imparare” cosa vuol dire fare volontariato e, soprattutto, “essere” volontari.

Tutto questo, ed anche altro, ci ha consentito di riuscire a prenderci in carico ben 46 pratiche – la stragrande maggioranza aventi ad oggetto problemi di ottenimento o rinnovo del permesso di soggiorno, ovvero decreti di espulsione con destinatari cittadini extracomunitari – ad ascoltare anche le storie di altre persone di cui non potevamo occuparci perché non in possesso dei requisiti necessari per poter accedere al nostro servizio: essere senza fissa dimora, privi di residenza ed in condizione di non poter nemmeno beneficiare del patrocinio gratuito a spese dello Stato. Persone che sono state comunque indirizzate nelle sedi istituzionalmente competenti per poter affrontare le loro problematiche, a proporre per i volontari dello Sportello degli incontri “motivazionali” circa il senso profondo del volontariato, ad incontrarci periodicamente per confrontarci e discutere insieme in ordine ad aspetti giuridici e comportamentali nel servizio.

Nonché, infine, ad organizzare un necessario corso di formazione “La disciplina dell’immigrazione extracomunitaria in Italia”, finanziato dal Centro di Servizio per il Volontariato della Provincia di Rovigo, che inizia giovedì 31 gennaio e prosegue sino al 20 marzo, per complessivi cinque incontri.

Mi sembra dunque di poter affermare che lo Sportello di Rovigo di “Avvocato di strada” sta crescendo e si sta consolidando in consapevolezza e maturità, e non è animato soltanto dall’entusiasmo iniziale che poi rischia di esaurirsi alle prime difficoltà.

Di tutto questo, e di tutto ciò che riusciremo a combinare di buono, non possiamo che ringraziare il Centro Francescano di Ascolto, che ci ha dato e continua a darci l’opportunità di tentare di avvicinare due mondi forse inizialmente un po’ troppo lontani e diffidenti reciprocamente, vale a dire quello dell’avvocatura e quello del volontariato, che invece, lo stiamo sperimentando giorno dopo giorno, possono tranquillamente darsi una mano e sostenersi a vicenda.

 

 

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I giovani del terzo millennio

come il giovane Francesco

di Fulvianna Godino

 

Da qualche anno anche a Rovigo pullulano i centri di ascolto presso Parrocchie o Associazioni varie, perchè si è scoperto che nell’attuale società del benessere, una diffusa forma di povertà è la solitudine, la mancanza di relazioni, di ascolto appunto. Ma già circa 8 secoli fa, S. Francesco d’Assisi aveva manifestato al lebbroso solidarietà, aiuto, senza offrire beni materiali; è stato un abbraccio il più grande dono d’amore, perché, superando la ripugnanza istintiva, lo ha fatto sentire fratello, uguale alle persone “normali”.

La vita di Francesco è stata una testimonianza di amore verso ogni “prossimo”, specialmente il più emarginato. I suoi seguaci dei tre Ordini (frati, clarisse e terziari) perciò, hanno sempre avuto nella loro Regola questo invito pressante a considerare tutti gli uomini loro fratelli.

In particolare noi francescani secolari, nell’ultima Regola approvata da Papa Paolo VI nel 1978, subito dopo l’art. 4 col famoso capoverso: I francescani secolari si impegnino ad una assidua lettura del Vangelo, passando dal Vangelo alla vita e dalla vita al Vangelo, e a conferma di questo, è scritto: I francescani secolari quindi ricerchino la persona vivente e operante di Cristo nei fratelli, nella sacra Scrittura, nella Chiesa e nelle azioni liturgiche.

Trovo molto significativa l’importanza che un francescano deve dare alla persona, ai fratelli, che il primo “luogo” dove ricercare Cristo sono proprio i fratelli, non la Sacra Scrittura o la Chiesa.

La Regola traduce così la frase dell’apostolo Giovanni: “chi non ama il proprio fratello che vede, non può amare Dio che non vede (1 Gv 4,20), alla quale Francesco si è sempre richiamato.

I racconti delle Fonti francescane sulle premurose attenzioni di Francesco verso i derelitti hanno sempre destato molta ammirazione in chi desidera imitarlo. Purtroppo pochi si sono impegnati seriamente per riuscirci, pensandolo quasi impossibile.

Ci credeva invece fino in fondo Padre Giorgio Cavedale, qui a Rovigo assistente dei giovani francescani, di cui aveva molta fiducia e che entusiasmò convincendoli a mettere in pratica il comandamento dell’Amore, tema forte del loro cammino di formazione.

Nacque così il Centro Francescano di Ascolto di Rovigo nel 1988, sostenuto caldamente – mi è caro ricordarlo – dall’allora Ministro Diocesano dell’Ordine Francescano Secolare, il maestro Luigi Mutterle. Entrambi, fra gli indimenticabili “iniziatori”, da qualche anno guardano dal cielo il “loro” Centro che opera in vari campi dell’emarginazione, aiutando tanti a risollevarsi, perché si sentono amati, ed ora intercedono affinché tutti noi volontari ci manteniamo fedeli al nostro “servizio”.

Avendo riordinato, nella sede, gli scaffali zeppi di libri e giornali, è tornato a portata di mano un opuscoletto sulla storia del Terz’Ordine Francescano nel Polesine, di una trentina di paginette, dattiloscritto intorno agli anni 1950 da P. Elzeario Bulfon, Cappuccino. Questo semplice cimelio storico testimonia che il nostro Centro Francescano di Ascolto affonda le sue radici saldamente nel francescanesimo.

Da questa lettura ho appreso che i nostri predecessori francescani sono stati molto attivi nella solidarietà, e mi ha permesso di fare qualche confronto sulle modalità. L’inizio del volontariato cattolico come è inteso oggi, è relativamente recente: nel 1988 quando P. Giorgio lanciò la proposta, se non sbaglio, è stata una delle prime iniziative del genere in Italia. La mia interpretazione è che un tempo, in ambiente cattolico si osservava l’evangelico “non sappia la tua sinistra ciò che fa la destra” distribuendo con molta riservatezza aiuti a chi aveva bisogno; erano noti solo ai consiglieri della “Congregazione” i nomi dei beneficati.

Raccontando la vitalità esemplare della Fraternità di Lendinara nel 1902, P. Elzeario scriveva:

I poveri e gli infermi della fraternità erano largamente assistiti (ma, come risulta dai registri, anche i non terziari). Sin dal 1897 fu deciso ad unanimità di fare una straordinaria colletta ogni anno per soccorrerli. L’offerta poteva essere o di 25 cent., di una lira e anche di più.

Questo avvenne dopo la salita al soglio pontificio di Leone XIII, il Papa della Dottrina sociale della Chiesa, perchè prima ci si preoccupava prevalentemente che i francescani avessero una solida formazione religiosa, e che si alimentassero assiduamente alla Parola di Dio e del Pane di Vita, nella S. Messa e con la S. Comunione.

Papa Leone XIII riteneva il TOF, oltre che un sicuro risanamento della vita religiosa, anche un modo valido per rinnovare la società, per cui diceva: “Quando dico Terz’Ordine Francescano, intendo riforma sociale; quando dico riforma sociale, intendo Terz’Ordine Francescano.

Il TOF rispose prontamente e durante il suo pontificato (1877 - 1903) conobbe uno dei più felici momenti della sua gloriosa storia plurisecolare, incidendo profondamente nella vita della Chiesa e della Società.

P. Elzeario conclude la sua relazione su Lendinara dicendo:”Non vi è opera di religione o di carità nella quale questi buoni terziari non abbiano la loro parte. Essi sono una vera benedizione di Dio per Lendinara e paesi limitrofi, mentre colle parole e coll’azione combattono l’indifferentismo religioso ed il mal costume e coll’esempio del loro vivere virtuoso cercano di riformare le famiglie e ricondurre a Dio i traviati fratelli”.

Padre Bulfon, descrive la Fraternità di Rovigo, ben impegnata ad incidere nel sociale e riporta molte iniziative, come:* propaganda della stampa cattolica (vendendo sotto costo porta a porta); * difesa dei supremi interessi della civiltà cristiana, per mezzo dell’educazione delle coscienze; * appoggio all’Ufficio Provinciale del lavoro, “che si prefigge la propaganda in mezzo alla gente agraria, dei principi di carità, di giustizia e di fratellanza che sgorgano come da profonda fonte dal Vangelo; * le sorelle terziarie, d’accordo con l’autorità ecclesiastica, e con la partecipazione di altre donne cattoliche, hanno fondato un’associazione femminile, per l’educazione dei figli del popolo per mezzo di oratori festivi, laboratori, patronati, dopo-scuola e simili: la “Società  delle donne rodigine per gli interessi cattolici della città”, sotto la protezione di S. Francesca Romana, terziaria francescana.

Per capire questo atteggiamento dei terziari polesani, bisogna ricordare il clima politico sociale rovente di quei tempi, sul quale erano in lizza tutti i partiti: liberale, socialista, popolare, e nel quale erano coinvolte e si sentivano responsabili tutte le forze cattoliche: i tempi della “Rerum Novarum”.  Da qui le prese di posizione dei terziari, che allora si sentivano, per numero e qualità, una forza nel Chiesa e nella società.

Dunque il TOF del Polesine fece scelte innovative coraggiose. Ma quella che ebbe larghissima risonanza nazionale, fu al Congresso Regionale TOF tenuto a Rovigo nel 1908, quando i terziari spedirono al Presidente del Consiglio il seguente telegramma: “ A S. E. Giolitti Roma - Mille terziari francescani raccolti a Congresso a Rovigo, rappresentanti quattromiladuecento terziari del Polesine, affermano necessità insegnamento religioso nella scuola, protestano contro minacciate abolizione e restrizione, reclamano dallo Stato rispetto coscienza cattolici e cittadini, domandano che l’insegnamento religioso, regolato per legge, sia impartito da persone idonee all’alto ufficio, anche non patentate”. 

Era la risposta decisa ad una proposta di donne liberali e laiche, perché fosse abolito nelle scuole statali l’insegnamento religioso. Ci fu un coro di proteste in tutta Italia, ma per prime le terziarie di Rovigo andarono di casa in casa a raccogliere le firme di adesione, che con quelle di molte altre “Congregazioni” del Polesine e con una offerta in denaro, furono subito mandate alla federazione femminile di Milano. Il TOF polesano riusciva a far attuare il fermo desiderio di Leone XIII.

Il P. Elzeario conclude: I terziari dunque avevano capito che una sola protesta non bastava e che non bastava pregare, ma anche lavorare e passare all’azione.

Questo Ordine Secolare dunque si è fatto ben conoscere ed apprezzare nel passato. Il pugno di lievito nella massa ha portato tanti importanti risultati.

Gli ultimi e nuovi volontari che nei mesi scorsi si sono affiancati a quelli attualmente presenti nel Centro Francescano di Ascolto di Rovigo, offrono ulteriori garanzie che questo impegno di avvicinare gli “ultimi” con amore fraterno, nello sforzo di superare ingiustizie e discriminazioni in nome del Patrono d’Italia, continuerà a dare buoni frutti.

 

 

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Il Centro Francescano di Ascolto

entra nel Sistema Bibliotecario Provinciale

di Chiara Tosini

 

La Biblioteca specializzata del Centro Francescano è online, grazie alla strenua volontà del suo Direttore! Si potrà, in tal modo, consultare il catalogo virtuale, attraverso uno strumento telematico (www.sbprovigo.it), che consente di ottenere e/o richiedere informazioni sul patrimonio librario del Centro.

Pertanto, se qualcuno desiderasse visionare, a distanza, il catalogo della Biblioteca potrà farlo comodamente seduto davanti al computer, collegandosi al sito internet www.sbprovigo.it e richiedere in prestito i volumi, attraverso la biblioteca civica  a lui più vicina.

Questo grazie alla convenzione stipulata con la Provincia di Rovigo, che prevede la partecipazione della Biblioteca del Centro alla Rete SBP (Servizio Bibliotecario Provinciale): un collegamento con le altre raccolte, civiche e scolastiche, della provincia.

Quello della Biblioteca del Centro è un catalogo che raccoglie circa 3.000 volumi che trattano  di carcere, di volontariato, di solidarietà, di francescanesimo e di religione, oltre ad innumerevoli opuscoli e oltre 60 riviste specializzate.

Questa Associazione di volontariato che, per ora, eroga servizi, quali la consultazione ed il prestito, fornisce informazioni, costituisce un raccordo verso gli altri patrimoni librari presenti sul territorio rodigino, vuole diventare un punto di riferimento per tutti coloro che desiderassero approfondire il tema della solidarietà, del disagio, del volontariato e non ultimo del francescanesimo.

Il progetto prevede una prima fase di catalogazione del patrimonio librario conservato dal Centro (ad oggi solo una parte dei volumi è stata catalogata da personale specializzato),  ed una seconda in cui la “biblioteca nel web diventa partecipe di un flusso di informazioni continuo che la vede inserita in un contesto nuovo, globale, da cui non ha più senso sottrarsi. Essere in rete diventa sinonimo di essere!” (Gabriele Mazzitelli)

 

 

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Quell’ovvio passo verso la realtà

di  Alessandro Sovera

 

Parlerò di persone: persone che non vivono più nel paese in cui sono nate.  Il titolo mi costringe ad uno sforzo per non tradirne i presupposti: non mi resta che parlare di quanto ho conosciuto in questi anni di lavoro e di volontariato. E’ l’unica via per azzardare ipotesi su ciò che si osa definire realtà.

Da quando i primi assaggi di quella che a breve avrebbe assunto i connotati di una immigrazione di massa hanno lambito la società italiana, insieme alle sue coste e alle sue frontiere, è passato parecchio tempo.

Quel periodo è grosso modo individuabile nella seconda metà degli anni ’80: il nostro Paese ha cominciato a divenire terra promessa per un numero crescente di persone. L’evoluzione del fenomeno ha seguito le forme dei principali modelli demografici sul ciclo migratorio, secondo i quali ad una prima fase da afflusso di lavoratori maschi soli a “sondare” il terreno (in Italia ciò è durato fino ai primi anni ’90), segue l’arrivo delle famiglie d’elezione e in molti casi d’origine, conferendo al fenomeno una strutturalità stabile volta a far da base per le nuove generazioni. Il volto della nostra società è cambiato, e definitivamente.

Lascerei per un attimo da parte le strumentalizzazioni di cui è facile vittima l’immigrato, in funzione della condizione di “altro dentro”, “altro insieme a noi” di cui è portatore: ciò che ho capito, maturando esperienza nel settore, è che una faciloneria non disinteressata affligge buona parte del dibattito in merito, a livello pubblico e mediatico (e questo, in Italia, non stupisce più di tanto), ma anche, e qui è forse più grave, tra molti “addetti al settore” o presunti tali.

Mi riferisco ad ogni strumentalizzazione in sé, qualsiasi sia la matrice ideologica che la supporta: xenofobia, piaggeria ipocrita o moralismo che sia, l’atteggiamento di fondo resta autoreferenziale e fondamentalmente insensibile ad un approfondimento consapevole del fenomeno e allo studio di politiche “pensate”.

Evitando, quindi, di addentrarmi in una critica o in un avallo di questa o quella interpretazione e/o soluzione proposta da questo o quel soggetto, mi fermo a quella che ritengo una constatazione oggettiva, ma che tanto scontata non sembra essere, e sulla quale ogni considerazione successiva dovrebbe fondarsi: l’immigrato che ha scelto un progetto migratorio stabile o a lunghissimo termine,  deve smettere di essere pensato come tale. Ovvero, non è ipotizzabile ricondurre in eterno i protagonisti di un processo d’inserimento in una società all’immaginario di un esperienza radicale ma per definizione transitoria come quella della migrazione. E nel parlare di processo d’inserimento, mi riferisco all’accezione neutra del termine, scevra da giudizi di valore: un processo d’inserimento c’è, esiste, volenti o nolenti, nel momento stesso in cui esiste la decisione di trasferirsi stabilmente in una società diversa da quella di origine .

Che poi questo processo possa considerarsi semplice o meno, sulla base di criteri peraltro non facilmente oggettivabili, è tutto un altro discorso: resta il fatto che esso avviene, anche quando diventa portatore di enormi conflitti sociali.

La maggior parte delle persone immigrate(perchè è la maggior parte, e di gran lunga, checché certa malainformazione ne dica) ha fatto proprio lo schema di vita fondato sul lavoro regolarmente retribuito e sul rispetto dell’autorità democratica statale che vige nelle grandi democrazie occidentali, Italia compresa. Mi sembra più che sufficiente per delineare che un inserimento sia avvenuto, indipendentemente dalla sua problematicità.

Si tratta di un passaggio cruciale, che sintetizza un cambiamento di rotta nell’approccio al fenomeno,  capace di riformare i costrutti culturali condivisi, e di conseguenza le strategie d’intervento a livello di politica sociale. Sono convinto che, per quanto bene possa esser progettata, nessuna soluzione sia più che un palliativo nei confronti di una problematica macro sociale, qualora non venga supportata da un cambiamento culturale a livello diffuso. Ed è in questo senso che il problema immigrazione resterà tale fino a quando continueremo a pensarlo tale.

Un atteggiamento del genere è anzitutto assai riduttivo nei confronti della sua complessità: un primo passo sarebbe smetterla di parlare di immigrazione per parlare di immigrazioni al plurale, evitando di gettare in un unico calderone distanze culturali e sociali tra popolazioni, anche molto più marcate tra loro di quanto non siano quelle in media percepite tra noi e l’immaginario collettivo dell’“immigrato”.

In secondo luogo, si rischia di cadere in stigmatizzazioni che finiscono per influire sul comportamento degli stessi migranti, secondo la logica della profezia che si autoadempie, soprattutto in relazione a loro comportamenti devianti, che se statisticamente sono rilevanti è anzitutto in funzione della massiccia presenza nei gradini più bassi della scala della ricchezza sociale (ed è assodato che è proprio qui che la devianza trova maggior linfa), e non certo a intrinseche nature criminose.

In poche parole, la nostra società è già cambiata, e il mito dell’integrazione passa anzitutto per una revisione dei termini, e per l’inclusione del concetto di “loro” nel concetto di “noi”.

E’ la realtà dei fatti a imporlo, che piaccia o no: ogni ulteriore considerazione diviene speculazione, per quanto legittimamente posta. E’ vero che, in Italia, il passaggio da una migrazione temporanea a ondate migratorie “stabili” è stato molto più repentino rispetto ad altri paesi Europei. Questo non giustifica, tuttavia, l’immobilismo delle istituzioni, e non parlo tanto dell’investimento diretto sul piano culturale (l’utopia lasciamola alla retorica populista), quanto nell’erogazione di strumenti legislativi e sociali che ne possano quantomeno favorire uno sviluppo autonomo da parte della società civile.

E ancora una volta, il solito e oramai abusato terzo settore è chiamato a operare per ricucire lo strappo, e a promuovere in prima persona una cultura della cittadinanza che prenda atto dei suoi cambiamenti. Ancora una volta, associazioni e simili sono investite di un ruolo autenticamente “politico”, senza però averne pieno riconoscimento. Attenzione, però, perchè questa contraddizione nel processo di revisione (per non dire smantellamento) del sistema di welfare italiano è inevitabilmente destinata a rompersi: una burocratizzazione sterile delle organizzazioni, da un lato, o una loro strumentalizzazione ideologica, dall’altro, sono sempre in agguato.

Anche qui, un passo verso la realtà (cambiata eccome, e da tempo!) risponde, a pensarci, alla semplice razionalità dettata dal buon senso. Appunto per questo, evidentemente, così difficile da perseguire, in un Paese che tende a pensare che approfondire e riflettere equivalga a complicare le cose. Dal mio punto di vista, è esattamente il contrario

 

 

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La condizione della donna

e la nostra società “civile”...

di  Irene Rigobello

 

In Italia le donne immigrate vivono una condizione di doppia invisibilità, lavorativa e simbolica, intrecciata con il fatto di essere donne e di essere immigrate. La condizione socio-lavorativa delle donne, in particolare di quelle immigrate e ancor più di quelle che vivono uno stato di  clandestinità, è aggravata da una serie di rappresentazioni fuorvianti. Sia a livello di senso comune che di dibattito pubblico dominante, in Italia, si tende a parlare di donne immigrate in due accezioni: come madri o mogli in famiglia, anche se lavorano come collaboratrici familiari, o come prostitute. Queste rappresentazioni producono una svalutazione generalizzata delle donne, immigrate e non, e riconferma un sistema di disuguaglianze, prima di tutto culturale, ancora forte.

La prassi quotidiana riserva a questa popolazione femminile una ristretta serie di opportunità lavorative riguardanti, soprattutto, l’area domestica: assistente familiare, cameriera ai piani, addetta alle pulizie. La cristallizzazione di tali ruoli all’interno della nostra società implica la costante messa in disvalore delle risorse delle immigrate, squalifica i loro saperi e le loro capacità, depotenzia la loro carica liberatoria ed emancipatoria. Non solo: c’è il rischio di oscurare e di minimizzare le autentiche condizioni in cui vivono le donne immigrate, tra cui sfruttamento del lavoro, lavoro nero, violenza domestica e soprusi fisici e psicologici che avvengono tra le mura domestiche. Vite silenziose che scorrono tra i muri dell’indifferenza di una società che troppo spesso vede le donne come “oggetti”, ambiti e ricercati, ma inesistenti come soggetti sociali.

Oltre a ciò, spesso i riflettori e l’interesse dell’opinione pubblica sulle condizioni di vita delle donne immigrate si accendono conseguentemente a fatti di cronaca connessi al fenomeno prostitutivo. Si rischia, perciò, di creare ulteriori distorti parallelismi, a senso tacitamente biunivoco: prostituta=donna immigrata e donna immigrata=prostituta. Questo insieme di fattori contribuisce a privare sempre più le donne immigrate della propria sfera di visibilità all’interno della nostra società. Oscurare la presenza sociale delle donne significa stendere un velo sia sulla mancanza di pieni ed effettivi diritti di cittadinanza delle stesse, sia su una struttura di rapporti uomo-donna che rimane tuttora diseguale. Le campagne di sensibilizzazione e gli spot, soprattutto quelli istituzionali sulle problematiche femminili e sulle opportunità di uscita da situazioni di difficoltà, mi sembrano sterili e inefficaci e mi appaiono non come un traguardo o come i segno di una società estremamente civile, ma anzi, sono un ennesimo palliativo di fronte a problemi gravi, che cercano disperatamente risposta. Una risposta che è sempre più difficile da strutturare ma che non può non essere cercata e individuata. E’ possibile che quello che ci ostacola nella realizzazione di una vera società civile è proprio l’indifferenza di ciascuno nei confronti dell’altro, non ci indigniamo né come donne e né come uomini di fronte al  fatto che ad altri esseri umani come noi, venga tolta la libertà di vivere una vita degna di tal nome.

Non ci tocca il fatto che ci siano uomini che scelgono come vacanze il turismo sessuale e che dopo aver comprato ragazze-bambine in un bordello della Thailandia siano capaci di riprendere la loro vita fatta di cappuccino e cornetto nel freddo e umido inverno delle città produttive….Ebbene, credo che non si possa parlare di emancipazione e sviluppo della società attuale,  non credo che l’Italia possa vantarsi di avere 9.000.000 di clienti di prostitute, così come non si può vantare del fatto che per molti, anche uomini di chiesa, il fenomeno prostituivo sia sviluppato da richieste di sesso a pagamento occasionali. Francamente mi è difficile credere che un mercato così in crescita,  che viene messo al terzo posto, nella classifica mondiale a livello di fatturato, solo dopo il commercio di droga e di armi,  possa essere sviluppato con richieste occasionali…

E’ necessario  ripensare e ripensarci come donne e come uomini per poter interrompere questo andamento dell’umanità dove l’economia è l’unica cosa che organizza i rapporti, mentre la politica è completamente scomparsa ed è solo un teatrino di burattini interessati al loro bene individuale.

Non saremo una società migliore se non cambiamo direzione, e il miraggio di una vera società multiculturale e multietnica non avrà mai realizzazione in Italia. Non possiamo permetterci delle spaccature tra donne e uomini in una penisola così piccola, non abbiamo gli spazi degli Usa, e non siamo neppure bravi come loro che nonostante tutto sono in una democrazia capace di far concorrere alla carica più elevata dello Stato una donna e un uomo di colore!

Siamo in un Paese che non si ricorda più di essere stato la culla dell’umanesimo, ma dove oggi il Papa non può parlare a degli studenti dell’Università a causa di insulse contestazioni fatte da una finta “meglio gioventù” anacronistica e incapace di vivere degli ideali in modo viscerale e vero, perché troppo lontani dalla loro quotidianità di case lussuose e domestiche pronte ad imbandire la tavola.

In questo scenario deprimente credo che sia necessario avere sete di autenticità, di intelligenza e di fede, valori che ormai non sembrano più così essenziali, ma dai quali non si può prescindere per dare il via ad uno sviluppo armonico della civiltà umana. 

 

 

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L’ascolto e l’incontro di ogni giorno

con chi bussa alla nostra porta

di  Fabio Furini

 

Il 19° anno di attività di ascolto ed accoglienza nella nostra associazione ha visto volti vecchi e nuovi affacciarsi e bussare alle porte della nostra Associazione carichi di speranze e risposte. I volontari hanno offerto, in sede, un segno importante nel loro servizio: la fedeltà alla presenza e all’ascolto di tutti. Il numero dei volontari presenti durante la settimana è aumentato costantemente consolidando la continuità nell’apertura, la copertura dei turni di servizio e assistenza agli altri servizi, assicurando una presenza viva e attiva, capace di rispondere alle molte richieste e nel sostenere i vari progetti promossi e realizzati dal Centro.

Il servizio quotidiano

Dai dati raccolti nella tabella emerge su tutti quello delle numerose richieste di informazione e di contatti con enti pubblici e privati. Spesso sono legati alla progettualità promossa dal Centro e frutto della buona rete di contatti che in questi anni si è realizzata con persone e associazioni presenti nel territorio. Ciò porta l’Associazione ad essere un importante punto di riferimento per problematiche specifiche quali il carcere, la giustizia e lo sfruttamento sessuale.

Il lavoro di segreteria permette ogni giorno di mantenere i contatti con tutte queste realtà che operano con noi, ma soprattutto offre informazioni importanti a chi cerca aiuto o riferimenti adeguati ai propri bisogni. Infine c’è tutto il lavoro di collegamento tra le varie attività svolte nei vari servizi da tutti i volontari del Centro che rende la sede cuore pulsante e luogo d’incontro dei volontari stessi.

Parallelamente c’è il disbrigo di pratiche amministrative (dalla corrispondenza ai contatti telefonici) che danno ai volontari quelle preziose informazioni e importanti conoscenze necessarie a rispondere alle richieste degli utenti e dei loro familiari. La segreteria assicura anche il passaggio quotidiano delle richieste di colloquio, delle attività promosse dall’Associazione, delle informazioni provenienti da altri enti, delle adesioni ad iniziative (convegni, forum, incontri) promossi da altri organismi.

Volontari in “ascolto”

Anche nel 2007 numerose sono state le richieste di aiuto di persone che vivono il loro disagio negli ambienti più diversi della loro vita sociale.

I contatti coi volontari si sono concentrati maggiormente nei primi mesi dell’anno, mentre hanno avuto una flessione nei mesi estivi. Si nota una stabilizzazione di presenze che da alcuni anni indirizza i servizi svolti dal Centro verso specifiche problematiche sociali: carcere, prostituzione, disagio familiare.

Il problema detenzione registra i maggiori interventi sia di ascolto che di sostegno e proposta di percorsi di reinserimento sociale, lavorativo ed abitativo.

Continua il lavoro dei volontari con progetti di aiuto e d’inserimento lavorativo con “Il Carcere nella città” e l’impegno settimanale nella Casa Circondariale di Rovigo.

Questi progetti ricevono quotidiano sostegno nel servizio Ascolto sia in ambito informativo che nel mantenimento dei contatti con gli enti che partecipano all’esperienza e i familiari dei detenuti.

Si nota un continuo aumento delle problematiche legate al disagio familiare e all’emarginazione. Esso si coglie nei vari bisogni legati all’aiuto psicologico: solitudine e perdita dei riferimenti affettivi, e nel costante manifestarsi di problemi legati all’emarginazione delle persone straniere.

Il Centro ha offerto a queste persone un sostegno psicologico fornendo poi informazioni chiare per un aiuto concreto per la soluzione dei loro problemi quotidiani (permessi di soggiorno, assistenza sanitaria, disbrigo di pratiche burocratiche). Un lavoro che aiuta queste persone ad  integrarsi nel tessuto sociale del nostro territorio.

Una notevole domanda di aiuto si concentra attorno allo “Sportello Luna”, 91 contatti, servizio condiviso anche quest’anno attraverso la collaborazione con la Caritas Diocesana.

Pochissime le richieste legate al mondo delle dipendenze e al sostegno dei malati di aids che trovano certamente in altri ambiti risposte più adeguate.

Un dato molto interessante è il continuo aumento delle richieste di fare volontariato nell’Associazione. Nel 2007 il numero è di 27 richieste frutto di iniziative di informazione e sensibilizzazione svolte in ambito pubblico con incontri, dibattiti e confronti su tematiche legate alle nostre specificità d’intervento nell’ambito del disagio.

Il quotidiano che ci fa crescere

Gli interventi posti in atto anche quest’anno hanno cercato d’integrarsi con le esigenze del nostro territorio locale per dare risposte d’aiuto chiare e puntuali alle richieste pervenute. I contatti e le collaborazioni con altri soggetti che operano in ambito sociale si consolidano sempre più dando luogo a nuove progettualità e evolvendo quelle già in atto.

Si devono mantenere i progetti esistenti coinvolgendo sempre più i volontari nel servizio, facendolo diventare un impegno quotidiano che permette di ascoltare, accompagnare e sostenere i percorsi di uscita dal disagio di tante persone che bussano al nostro Centro.

Nella fedeltà al servizio sostenuta da una formazione umana e conoscenza competente delle problematiche sociali si può costruire un futuro fatto di speranza e di lavoro.

L’operatività del volontario deve dirigersi sempre più all’essere vicini a chi soffre e di fare un tratto di strada con chi è in difficoltà e cerca di riprendere un cammino interrotto da problemi e sofferenze personali. La condivisione quotidiana del servizio fra volontari, sempre più presenti in associazione, permetterà di scambiarsi esperienze e costruire nuovi progetti capaci di dare risposte ai nuovi e mutevoli problemi che la nostra società produce ogni giorno.

 

 

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Le sorprese dell’esistenza,

per un ... Innocente, di nome

di  Innocente Lorenzetto

 

Mi chiedo spesso perché il servizio civile viene sempre proposto ai giovani, viene sempre propagandato per i giovani. Forse perché un tempo il servizio civile, attraverso l’obiezione di coscienza, era il modo per contrastare o evitare di fare il servizio militare. Con la non più obbligatorietà del servizio militare alcuni erano preoccupati che molti servizi, svolti principalmente con l’utilizzo di questi giovani, potessero incontrare momenti difficili. Così sembra non sia avvenuto. Anzi superato un primo momento di effettivo calo, le richieste di partecipazione sembrano in costante aumento. Ma perché? E questi giovani sono veramente motivati per quello che fanno?

Ho il timore, visto la consistente difficoltà per i giovani di trovare un “valido” posto di lavoro, che questo diventi un modo per trovare una prima occupazione, considerato che quelli che svolgono tali servizi beneficiano comunque di una pur minima remunerazione che gli permette di non gravare totalmente sulla propria famiglia, oggi tanto in crisi di “bilancio economico”. Comunque voglio dar loro credito, voglio dar loro fiducia, perché comunque fanno una scelta valida, in una strada costruttiva per loro e per le persone alle quali rivolgono il loro aiuto.

Ma questo tipo di lavoro/servizio non potrebbe, proficuamente, essere svolto anche da un’altra categoria di persone?

Ho sempre pensato che quando una persona dopo 30 anni di lavoro, più o meno prossimo alla pensione, quando non trova più le giuste motivazione per impegnarsi in modo positivo, con le dovute energie, quando il lavoro non gli corrisponde più, per sentirsi gratificato anche sotto l’aspetto emotivo e non solo economico, sarebbe meglio per questa persona essere impegnata in qualcosa altro. Ma come?

Proponendo a queste persone “una forma di prepensionamento” collegata ad “una forma di servizio civile” in alternativa a quella proposta e propagandata per i giovani. Proporre insomma il servizio civile anche per persone non più giovani, ma che liberano il proprio posto di lavoro. Forse che un sessantenne non è in grado di operare in  una biblioteca comunale o non è capace di accompagnare un cieco, un anziano, un invalido per qualche necessità particolare!? Ho la presunzione di ritenere che potrebbe essere un’idea su cui riflettere.

A mio avviso si potrebbero liberare molti  posti di lavoro che potrebbero essere occupati da giovani   pieni di energia, desiderosi di imparare un lavoro, desiderosi di rendersi utili per loro e per la collettività. Credo di più in un giovane con voglia di imparare bene il proprio lavoro che in un lavoratore, magari con una buona esperienza, ma che lavora per lo stipendio e che entrando al mattino pensa già alla sera e al momento dell’uscita.

A me questa opportunità è capitata!

Ho 57 anni. Per 31 anni ho fatto il bancario. Dal primo luglio 2007 sono in pensione, o meglio sono in “esodo per esubero di personale” a seguito delle varie fusioni, oggi tanto di moda nel sistema bancario. Con le attuali norme avrei dovuto andare in pensione effettiva il primo gennaio 2012.

Ho sempre amato “tremendamente” il mio lavoro.  L’ultimo giorno di lavoro sono rimasto in banca sino alle otto di sera. Sono andato in pensione con 31 giorni di ferie arretrate. Ma … ultimamente il mio lavoro era cambiato. Non mi “corrispondeva” più. E allora quale occasione migliore da cogliere per dare una svolta alla mia vita e sentirmi ancora protagonista nel progetto di vita che Gesù Cristo ha su di me.

Nella Caritas diocesana mi ero prestato, alcuni ani fa, per la realizzazione del progetto del “microcredito”, finalizzato all’aiuto in denaro di quelle persone o famiglie “bancariamente” non sostenibili. All’interno di questo progetto, come volontario, avevo pensato di impegnarmi quando mi fosse stata presentata la possibilità di andare in “pensione”.

Dio credo abbia voluto qualcosa di diverso.

L’aver vissuto e vivere il dramma di una persona conosciuta che in un momento di crisi ha ucciso la moglie e tentato il suicidio e ora si trova in carcere; l’avere conosciuto il maestro Giovanni Pavarin che spesso veniva in banca per piccoli servizi a favore di carcerati; l’essere andato una sera di mezza estate in piazza per assistere allo spettacolo “Il carcere in piazza” e aver posto il mio nome e la mia firma su un foglio di proposta per conoscere meglio il volontariato del carcere, mi hanno portato ad incontrare un mondo e delle persone che mi hanno chiamato a pensare e vivere il mio futuro in modo totalmente diverso.

Sono trascorsi ormai poco più di cinque mesi da quella sera; sto incontrando e scoprendo un mondo per me prima inimmaginabile. Sto incontrando Persone Positive che mai avrei pensato.

Partecipando ad un convegno nazionale a Roma ho avuto la possibilità di entrare per la prima volta all’interno di un carcere: Regina Coeli. E’ stata una emozione fortissima sia sotto l’aspetto umano che sotto quello formativo. L’avere incontrato per la prima volta gli agenti di polizia penitenziaria nel loro lavoro tanto particolare; l’avere incontrato padre Vittorio Trani, cappellano di quel carcere, portatore di una umanità indicibile e Suor Paola, la famosa suor Paola televisiva, (per me grassa, vecchia, non bella di viso) “adorata” dai detenuti come una mamma ed ancora un’altra suora, di cui non ricordo il nome ma ho ben presente la persona, grassa, vecchia, più di ottanta anni, ma viva, competente, propositiva, amata.

Sono entrato nel carcere di Rovigo la prima volta in occasione dei momenti propositivi/ricreativi proposti dal nostro Coordinamento volontari in occasione dell’ultimo Santo Natale e il “primissimo” detenuto incontrato è stato una persona da me già conosciuta. Io stavo percorrendo il corridoio per andare nella Cappellina, luogo degli incontri, lui stava uscendo dalla sua cella nello stesso corridoio e nello stesso momento dove passavo. L’incontro è stato fatale come due vetture che si scontrano ad un incrocio stradale.

Non sono fatalista. Ma ultimamente sono più attento, e mi interrogo, ai segni che Cristo mi pone nel vivere quotidiano. Ho incontrato altri detenuti, ho incontrato sempre delle Persone.

Le emozioni, le esperienze che sto vivendo in questo periodo sono veramente tante. Innanzitutto ho cambiato radicalmente il mio modo di vedere e giudicare le persone detenute. Ho preso consapevolezza che il volontariato in carcere necessità di molta preparazione. E’ un volontariato molto particolare. Non si può improvvisare nulla.

Ogni azione, ogni iniziativa va meditata e confrontata con chi ha più esperienza. Gli errori non devono essere né commessi né permessi. Sono comunque fiducioso perché le persone che il Buon Dio mi ha posto accanto, dopo quella sera di mezza estate, sono veramente Maestri. A me l’umiltà della pazienza e l’impegno dell’apprendere.

Con le nostre mani, ma con la Tua forza” sono le parole che san Bernardo elevava a Dio quando iniziava a commentare ai suoi monaci di Clairvaux il Cantico dei cantici, consapevole che solo con l’aiuto di Dio ogni opera arriva a sicuro compimento.

 

 

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Volontari in carcere, tra incomprensioni, abnegazione e vite dimenticate

di Paola Zonzin

 

Lettere al Direttore, telefonate, incontri e colloqui con educatori, agenti, altre figure dell’Amministrazione; accordi, disaccordi, incomprensioni, difficoltà burocratiche e organizzative; rifiuti non giustificati, consensi strappati a fatica (almeno così sembra).

È questa la trafila che il volontario deve affrontare ogni volta che decide di offrire un’opportunità formativa o di svago ai detenuti: a volte è scoraggiante, soprattutto quando non comprendi le ragioni e gli ingranaggi della macchina burocratica dell’Amministrazione Penitenziaria, eppure…

Eppure anche quello appena trascorso è stato un anno intenso, ricco di iniziative, ma soprattutto arricchente per gli incontri e le relazioni umane che la nostra attività favorisce.

Innanzitutto gli incontri con i detenuti: le loro storie, le loro ferite, le loro richieste - talvolta insistenti come quelle del bambino abbandonato - sono una continua chiamata all’impegno, a darsi da fare, non solo per soddisfare i loro bisogni momentanei (anche di quelli è necessario prendersi cura, per assicurare la dignità della persona carcerata), ma anche per un’azione più ampia, volta a costruire percorsi di reinserimento di chi ha scontato la sua pena e a sensibilizzare la società civile, che sembra insensibile, ma spesso semplicemente non conosce, ed è pronta a dare una mano generosa quando viene informata e coinvolta.

Ecco quindi l’impegno del Coordinamento dei Volontari nel sensibilizzare la gente comune nei confronti della realtà carceraria attraverso l’ormai tradizionale serata estiva in piazza. Quest’anno si è svolta venerdì 13 luglio, in piazza Vittorio Emanuele II, e ha visto alternarsi sul palco la musica dei Marmaja e la lettura da parte dell’attrice Cristina Chinaglia di brani che invitavano alla riflessione sui diversi e dolorosi aspetti della realtà carceraria; a coordinare lo spettacolo l’abile conduzione del giornalista Rai Giovanni Anversa, noto per il programma “Racconti di vita”.

Il palco era abbellito da variopinte composizioni floreali prodotte dalle donne detenute nell’ambito del corso per florovivaisti tenuto in carcere dall’Iripa (Ente di formazione di Coldiretti Veneto). Per le detenute il corso è stato un’esperienza motivante, perché le ha impegnate e coinvolte in un’attività pratica e creativa, portando il colore e l’armonia dei fiori in un luogo impersonale e squallido. E si è dimostrato ancora una volta quanto sia importante permettere a chi è recluso di essere attivo, di fare, di imparare cose nuove, per sottrarlo alla noia che lascia spazio al rimuginare e al consumarsi nel rancore e nel rimorso. Sono stati inoltre belli lo scambio e la collaborazione tra noi volontari e chi ha organizzato e tenuto il corso, perché l’unione delle forze amplia le possibilità di incidere sulla realtà, tanto più se si tratta di una realtà ostile e chiusa quale quella del carcere.

Il bilancio è quello di una serata varia e coinvolgente, che ha dato un immediato e prezioso frutto: uno spettatore, Innocente, ha deciso di unirsi a noi volontari ed ora è attivamente impegnato nel Coordinamento, sempre disponibile e pieno di spirito di iniziativa. Sono segni che danno la misura dell’importanza di ogni iniziativa, della necessità di esporsi e raccontare il carcere.

Infine, quest’anno noi volontari abbiamo voluto dedicare un po’ di tempo solo a noi stessi, alla nostra personale formazione per avvicinarci all’incontro con chi è in difficoltà con sempre maggiore consapevolezza e competenza. Per questo, grazie alla coordinazione di Giulietta e alla collaborazione di Portaverta, abbiamo potuto prendere parte al corso sulla “Relazione d’aiuto”, tenuto dalla psicoterapeuta Elisabetta Rizzo. Ci siamo messi in gioco lavorando su noi stessi, per capire i pregiudizi e le paure spesso inconsapevoli che ci portiamo dietro quando ci confrontiamo con gli altri; solo prendendone coscienza, infatti, possiamo liberarcene o tenerle sotto controllo, per essere in grado di ascoltare chi ci chiede aiuto in modo efficace e quindi a lui utile.

L’attività formativa è stata coinvolgente, di vera condivisione e ancora una volta ci ha fatto percepire che tutta l’esperienza del volontariato, sia nella fase operativa, che in quella di scambio con gli altri “colleghi”, nonostante la fatica che a volte ci chiede, è fonte di ricchezza interiore, che ti rinnova e ti dà l’energia per continuare.