ANNO 1995

SOMMARIO anno 1995

  1. Dalla redazione
  2. Alla finestra
  3. L'intervista: "Meno vacanze e più solidarietà"
  4. Dolore tra venti di guerra
  5. Riflessioni
  6. Di tutto un po'

 

 

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Dalla redazione


Dopo due anni, (come passa il tempo!), “Casa Letizia notizie” cessa di essere pubblicata per far posto ad “Informa(le)”.
Questo si spiega nell’esaurirsi della funzione che ha avuto il precedente notiziario, che è stato esclusivamente veicolo di informazione, con poche digressioni su particolari indirizzi tematici, coloro che fanno parte dell’OFS e della GiFra o che si muovono attorno ad esse e per i volontari di questa Associazione.
L’idea di fondo, che ci stimola anche in questa nuova “avventura”, è la necessità di comunicazione che sta alla base di tutte le motivazioni che potremmo addurre. Quell’indispensabile passaggio dell’esperienza, come fatto culturale, che diventa patrimonio comune per tutti i terziari francescani, affinché si possa insieme vivere con pienezza questo fantastico carisma.
Informa(le) nasce anche dagli stimoli che ci sono pervenuti dall’esterno, dalle richieste di testimonianza dell’esperienza del Centro Francescano di Ascolto di Rovigo, arrivate negli ultimi anni da diverse fraternità italiane. Questo ci ha fatto riflettere e decidere di produrre un diverso progetto “comunicativo” che sia al tempo stesso espressione definita del nostro operare nel campo dell’assistenza volontaria alle persone che sono oggetto di esclusione sociale e strumento per una maggiore conoscenza e conseguente comprensione di problematiche sociali nazionali ed internazionali. Questo significa, sia ben chiaro, una apertura maggiore a tutti quei temi che stanno dentro alle definizioni di pace e solidarietà. L’impegno è quello di produrre dei numeri monografici, senza una scadenza precisa, ma sulla base delle diverse esigenze e richieste che ci perverranno. Ogni pubblicazione tratterà una tematica, nel tentativo di produrre una riflessione e focalizzare l’obiettivo con un’angolatura particolare, che ci aiuti nella comprensione, nella discussione e nel dialogo. Lo sforzo, anche e non indifferentemente economico, questa volta è maggiore rispetto al passato. Soprattutto è evidente che la pubblicazione, avendo un ruolo diverso rispetto a quello del passato, che presuppone coinvolgimento e interesse, verrà inviata solo a chi ne farà esplicita richiesta e contribuirà concretamente, attraverso un versamento in misura libera di sostegno, per coprire perlomeno le spese postali.
In questa prima pubblicazione come agenzia di pace e solidarietà, non potevamo esimerci dall’iniziare dall’ostacolo maggiore che c’è da sempre alla pace, e cioè la guerra, senza peraltro voler essere esaustivi, ma con una angolatura “nostra”.
Diventa altresì assai importante l’apporto di idee e la collaborazione che chiunque potrà donare, infatti non ci sentiamo depositari di programmi e mezzi, ma al servizio, nella sua concezione più ampia, per rendere la nostra testimonianza meno informa(le) e più fraterna.

 

 

 

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Alla finestra

Campagna europea dei giovani contro il razzismo.
Nelle società europee dilaga progressivamente l’ostilità e l’intolleranza nei confronti  delle minoranze. Per questo, il Consiglio d’Europa, a seguito della dichiarazione di Vienna del 9 ottobre 1993 dei capi di Stato e di Governo, ha deciso di lanciare per gli anni 1994, 1995, 1996 una Campagna europea dei giovani contro il razzismo, la xenofobia, l’antisemitismo e l’intolleranza: “Tutti diversi, tutti uguali”.
La Campagna, gestita e coordinata dal Comitato europeo d’organizzazione, che ha il compito di pianificare e orientare le attività, verificandone i risultati, si propone di: sensibilizzare l’opinione pubblica, in particolare i giovani, sul valore della diversità di cultura e religione; mobilitare i media per la diffusione di messaggi positivi a favore di una società multiculturale; sollecitare i giovani a partecipare attivamente alla lotta contro ogni forma di discriminazione, favorendo anche progetti e programmi per prevenire la loro emarginazione; mobilitare tutti i settori della società verso gli obiettivi positivi della tolleranza, dell’uguaglianza, della dignità e della democrazia; far conoscere progetti e iniziative, sul tema della Campagna, realizzati sul territorio da associazioni ed enti locali; prevenire in tutta Europa la diffusione di atti di razzismo.
Pur avendo dimensione europea, la campagna è in gran parte costituita da attività locali e nazionali, coordinate dai comitati nazionali: quello italiano è presieduto dal ministro per la Famiglia e la Solidarietà sociale, Adriano Ossicini.
INFORMAZIONI: Comitato nazionale, via Barberini 47, 00187 Roma, tel. (06)4811370, fax 4811327.

Sostegno alimentare ai neonati della Bosnia Erzegovina.
All’interno della campagna “Ricostruiamo dai bambini”, promossa dall’Ai.Bi. a favore delle vittime della guerra in Croazia, Bosnia e Serbia, è partito un nuovo progetto di sostegno alimentare per 1000 neonati dell’Erzegovina occidentale. Ai bambini nati si cercherà di garantire, per un periodo di sei mesi, una crescita fisica adeguata, garantendo una corretta alimentazione. Il progetto comprende, oltre all’assistenza alimentare, un supporto psicologico costante, sia alle giovani madri, che ai neonati.
INFORMAZIONI: Ai.Bi. via Melagnano 10, 20098 S.Giuliano Milanese, tel. (02)98232102, fax 98232611.

Campeggio contro il razzismo.
Dall’1 all’11 luglio si è tenuto a Cecina (LI) un campeggio contro il razzismo. La finalità generale dell’iniziativa è stata quella di offrire a tutte le associazioni europee un’opportunità di incontro e di confronto sui temi del razzismo e della convivenza interculturale, con l’obiettivo di delineare alcune ipotesi comuni di intervento concreto.
INFORMAZIONI: Nero e non solo - Arci Solidarietà, Via dei Mille, 23 - 00185 Roma, tel. (06)4455290, fax 4465934.

Formazione alla solidarietà.
Ha avuto luogo a Collevecchio (RI), dal 22 al 29 luglio, un corso di formazione alla solidarietà, rivolto a tutti coloro che operano all’interno dell’associazionismo e del volontariato, che si è articolato su tre moduli:

  1. I motivi dei divario tra il nord e il sud nel mondo.
  2. L’auto sviluppo dei popoli e gli approcci della cooperazione.
  3. L’educazione allo sviluppo e alla solidarietà in Italia e in Europa.

   

 

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L'intervista
 

Meno vacanze e
più solidarietà

     

Luca Castiglioni nasce a Milano il 31 luglio 1966. E ’sposato dal giugno 1992 con Simona. Lavora come impiegato, ma studia filosofia “nel tempo che rimane”. Dopo l’esperienza di alcuni anni nella locale fraternità della Gioventù Francescana, di cui è stato presidente, dal 1994 è entrato nell’Ordine Francescano Secolare a Milano. Si occupa di diverse attività della fraternità, specie nel campo della formazione (Scuola nazionale di animazione) e del Servizio.

Molte persone oggi stanno offrendo il loro aiuto alle popolazioni della ex Jugoslavia, colpite dalla guerra, ma non tutte si impegnano in questa “avventura per la solidarietà” con le stesse motivazioni. Qual è stata la molla che ti ha spinto in questa esperienza?
Come in gran parte delle nostre esperienze non c’è un’unica motivazione, un fatto preciso che ti spinge ad intraprendere un’esperienza come quella di andare incontro ai profughi della Bosnia. Direi che i miei anni di fraternità francescana e poi nell’Ofs hanno fatto da retroterra; l’occasione specifica è venuta invece in modo quasi casuale (se ha senso per un cristiano parlare di “caso”), dall’esperienza di un amico che mi ha proposto di passare il Capodanno de! 1993 nel campo profughi di Ajdovscina, in Slovenia. Nonostante le molte incertezze, all’inizio l’esperienza sembrava più difficile e rischiosa di quanto lo è stata in realtà, io e tutti gli altri ci siamo lasciati coinvolgere da subito. E’ giusto pianificare le proprie scelte, ma occorre sempre anche un po’ di sana audacia, saper osare.

Questa tua scelta è stata condivisa anche dal gruppo di cui tu fai parte?
Fin dai primi viaggi ho potuto condividere questa esperienza con la mia fraternità francescana.
Ciò ha dato, se possibile, ancor più valore a ciò che facevamo insieme, e perché il farlo ci univa ancor più di quanto lo fossimo in partenza. Ma non è stata una esperienza solo della mia fraternità dì Gifra ed Ofs. A noi si sono subito affiancati altri terziari francescani del Terzo Ordine Regolare da una parrocchia vicina, un gruppo Acli di Torino, e i volontari dell’Associazione Comunità del Giambellino, dove anni fa ho prestato il servizio civile.
Questa collaborazione ha permesso un reciproco aiuto e il vantaggio di poter portare diversi vissuti nell’approccio alle situazioni che abbiamo affrontato.

Come si svolgono le vostre missioni e qual è l’organizzazione alla quale vi appoggiate?
Il coordinamento di tutto il progetto che abbraccia i gemellaggi con 22 campi profughi è tenuto dalla Gioventù Aclista di Milano, Progetto “Un sorriso per la Bosnia”.
Le nostre missioni, generalmente mensili, un week-end, comprendono il trasporto al campo di generi di prima necessità, le esigenze ci vengono segnalate dalla Caritas di Ajdovscina; l’animazione nel campo durante la permanenza soprattutto per i molti bambini che ci vivono; la visita alle famiglie nelle misere stanze, ricavate dalle camerate di una vecchia caserma. Accanto a questo ci sono tutta una serie di iniziative per sensibilizzare il territorio di Milano, attraverso raccolte di fondi e di generi alimentari, testimonianze, mostre fotografiche e per creare momenti diversi di incontro con i profughi, vacanze in Italia, tornei di calcio, feste per ricorrenze.

Qual è stato l’episodio che ti ha particolarmente colpito?
Una delle cose che più ha colpito il gruppo nell’esperienza del primo viaggio, fu il pianto che salutò la nostra partenza dopo i tre giorni trascorsi nel campo, condividendo per quanto possibile la situazione tragica dei profughi. Pianto dei bambini, pianto delle madri e delle donne, ma pianto anche dei ragazzi più grandi, pur così fieri in ogni circostanza. Eppure ciò che ricordo con più piacere oggi non è stato quel primo saluto, ma i successivi: il pianto aveva lasciato il posto alla serenità.
Non che sia venuto a mancare il dispiacere del distacco, ma ora quei ragazzi, quelle donne, quei bambini potevano superarlo grazie ad una certezza: saremmo tornati. Ora sapevano che il nostro non era stato un passaggio filantropico per soddisfare la nostra coscienza, ma la voglia davvero di costruire con loro momenti di pace e di vita insieme: un’amicizia. Che va aldilà della barriera linguistica o culturale, sono in maggioranza musulmani, per raggiungere davvero e solo l’uomo.

La guerra è un’esperienza che segna profondamente la mente e il cuore delle persone che la vivono. Quanto dolore e quanta speranza hai colto nello sguardo e nelle parole dei bambini, delle donne e degli anziani?
Alcuni parlano poco volentieri della guerra e, comunque, l’ultima cosa che dobbiamo fare come volontari è dare occasione per rivivere quei tragici momenti, specie ai bambini. Ma la guerra e ciò che porta con sé la leggiamo non solo nella loro situazione di profughi, ma nelle loro facce, nei loro sorrisi, nei loro modi, nei bambini che, nel sonno, sobbalzano alla luce dei flash fotografici, così simili ai bagliori che hanno scosso le loro notti a Sarajevo, Mostar, Tuzia, Serebeniza...

Le missioni umanitarie si possono inserire in una riscoperta dei valori della solidarietà o sono solo il frutto di certa cultura cattolica o di sinistra impegnata?
Innanzitutto noi cattolici non abbiamo il monopolio di questa partecipazione diretta: lo constato quotidianamente nei contatti con i volontari del mio e di altri gemellaggi. Anche se, certo, il mondo cattolico è ancora il vero traino della solidarietà nel nostro paese, ad ogni livello. Non credo nemmeno che per la maggior parte dei giovani partecipare a simili iniziative e sia un atteggiamento esterno. superfica1e. Tuttavia è sicura una cosa: anche se lo fosse non rimarrebbe tale dopo il primo contatto con la realtà dei campi. L'esperienza di incontrare una persona sradicata dalla propria terra, dove ha lasciato tutto ciò che possiede, spesso anche qualche lutto, mette davvero in discussione, pone tante domande. E alle domande, prima o poi, bisogna dare una risposta.

Sulla scorta della tua esperienza quale messaggio vuoi dare?
Il messaggio è semplice: di fronte alla sofferenza, la prima cosa è ricostruire la speranza. E la speranza, il più delle volte, non si riesce a trovarla da soli. Occorre l’aiuto di qualcuno. Ognuno di noi può essere quel qualcuno per una persona che soffre. Chiediamoci dove, chiediamoci come, e diamoci da fare. Vorrei che, per quanto possa soffrire, nessuno si sentisse solo. E’ la stessa disperazione di Cristo sulla Croce che si sente abbandonato da tutti, anche dal Padre. Ed è la cosa più terribile.

Una domanda che non ti abbiamo fatto e che volevi ti fosse rivolta.
Desidero fermarmi su una cosa per me particolarmente importante: ho già detto della condivisione di questa esperienza con la mia fraternità, e di come questo gruppo si sia affiatato in maniera splendida anche con altre realtà. Ma ciò che mi ha fatto gustare questa esperienza è stato portarla avanti insieme a mia moglie. E’ importante che sia stata la nostra famiglia per intero a fare la scelta, come in altre occasioni; anzi, il motore iniziale e il carburante per tanti momenti difficili, è stata proprio lei, Simona. Ora il nostro impegno cambierà forma: 1avoreremo nelle retrovie del progetto, al coordinamento e alla formazione, perché è in arrivo un nuovo piccolo inquilino in casa nostra. Avremo un bambino, un altro, dopo tanti che abbiamo ad Ajdovscina.

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Dolore tra venti di guerra

La vita è un continuo peregrinare e l’incontro più frequente, per noi pellegrini, è quello con il dolore. In questo caso ci addentriamo nelle devastate e dilaniante esperienza della guerra, che non è solo ex Jugoslavia, più vicina e perciò maggiormente inquietante. Non possiamo certamente fare opera esaustiva nei confronti di questo tema; queste notizie, “ritagliate” qua e là sulla stampa, sono state scelte per aprire solamente piccole finestre di riflessione, che possano contribuire ad una maggior conoscenza del problema, ma con un’ottica particolare. Molto è stato detto, ancora molto ci sarebbe da dire, ma è certo più importante quello che sarebbe da fare, per uscire da quell’impotente inerzia internazionale che fa sì che anche noi da sempre assistiamo senza difesa al perpetuarsi dell’odio, che diventa guerra. Un messaggio d’amore, che dovrebbe partire dal nostro cuore, poi uscire dalle mura di casa ed espandersi nel mondo.

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Ex Jugoslavia, la guerra e poi...

La guerra nella ex Jugoslavia, in corso dal luglio del 1991, ha provocato più di 300.000 morti, circa quattro milioni di profughi, dolori e sofferenze per un intero popolo, vissuto in pace per mezzo secolo. Le ragioni di questa guerra sono molteplici. E, tuttavia, le analisi degli “esperti” che studiano questo evento e le testimonianze delle popolazioni coinvolte non sono sufficienti per spiegare come sia stato possibile precipitare da una situazione di civiltà, convivenza, tolleranza a una di miseria e barbarie.
Gli eventi storici, economici, politici, ideologici chiariscono solo alcuni aspetti. Ampie zone d’ombra rimangono insieme allo stupore e all’incredulità della tragedia della guerra.
La gente è stanca della guerra. Questa sensazione è quella più forte e più diffusa, camminando per le strade. Osservando gli sguardi, forse un tempo ironici e beffardi, ora più spesso velati di tristezza, dei frequentatori di caffè, o ascoltando le voci rassegnate di conoscenti o amici. La gente comune è esausta. Ha perso molto in questa guerra. Affetti, proprietà, lavoro, risparmi. La capacità di divertirsi e amare la vita. La consuetudine a vivere con gli altri.
Si dice che durante il comunismo lo scambio tra le culture non fosse avvenuto in profondità, con la necessaria curiosità, rispetto, conoscenza dell’altro. Non vi era stata contaminazione perché mancava la democrazia.
Certo è che la stessa gente, ora esausta, è vissuta negli ultimi anni in un clima di paura, di intolleranza e di odio, sedotta da atmosfere nazionaliste non estranee alla storia della Jugoslavia e dei Balcani. Il nazionalismo antisovietico e la .cultura stalinista della “fortezza assediata”, del “sospetto” e del “nemico”, insieme con una tradizione più antica diffusa nei Balcani di difesa delle identità territoriali e di sangue, rappresentano un retroterra importante. Così come grande importanza riveste il ruolo dei gruppi dirigenti delle repubbliche della ex Jugoslavia e, in particolare, quello serbo, distintosi per trasformismo, astuzia, attaccamento al potere e spregiudicatezza. Milosevic e i suoi collaboratori hanno organizzato “scientificamente” una strategia per la diffusione del terrore, applicandola, sia in Croazia che in Bosnia, nel processo di formazione delle Repubbliche Serbe di Krajina e di Bosnia. I rapporti di Mazowiecki, incaricato ONU per i diritti umani nella ex Jugoslavia, sottolineano la massima responsabilità della componente serba nella pulizia etnica e, più in generale, nella violazione dei diritti umani. Tuttavia evidenziano come nello sviluppo del conflitto tutte le componenti abbiano finito per usare gli stessi metodi. La pulizia etnica, insieme ad altri fenomeni di inumanità, come attacchi a obiettivi non militari, esecuzioni sommarie, detenzioni arbitrarie, campi di prigionia, stupri di donne, uccisioni di bambini, caratterizzano la guerra nella ex Jugoslavia. E, di pari passo con l’inciviltà, avanza l’involuzione democratica dello stato e della società (in Serbia, in Croazia e anche in Bosnia) con l’eliminazione quasi totale di ogni forma di opposizione politica, sociale, culturale, alla linea ufficiale del governo e l’uso sempre più monocratico dei media (con una simmetrica comunanza di intenti, le autorità croate stanno cercando di far chiudere il “Foral Tribune” e quelle serbe il “Borba”, ultimi residui di stampa indipendente nella ex Jugoslavia).
Di fronte a una tale tragedia, le deboli iniziative diplomatiche, intraprese durante più di tre anni, sono fallite miseramente per mancanza di interessi e obiettivi comuni.
La comunità internazionale invece di promuovere una coerente politica di pace, ha perseguito nella ex Jugoslavia contrastanti interessi geopolitici e di tipo economico, astenendosi da un impegno reale. Dall’inizio della guerra, Russia, Francia e Inghilterra si sono, in modo diverso, schierate dalla parte della Serbia, seguendo posizioni storicamente consolidate (la Russia con un appoggio esplicito, Francia e Inghilterra assumendo una posizione di apparente equidistanza, che tendeva di fatto a riconoscere le conquiste militari serbe), mentre Germania e Austria hanno appoggiato Slovenia e Croazia, favorendone prematuramente la separazione dalla Jugoslavia (maggio/giugno 1991).
Gli Stati Uniti, a parte gli ultimi tempi, si sono tenuti per lo più in disparte, appoggiando tiepidamente i musulmani bosniaci e promuovendo la federazione con i croato-bosniaci in funzione antiserba e contro l’ipotesi di uno stato musulmano in Europa.
La posizione recentemente dominante nella comunità internazionale è invece quella di controllare il conflitto (il timore che si estenda è più forte della tentazione di lasciare che “si scannino tra loro”), limitandolo e congelandolo con una presenza minima di caschi blu con funzioni di “interposizione”, l’imposizione di una no fly zone, l’embargo delle armi (più formale che sostanziale) a Sarajevo, Tuzla e Mostar significava e significa ancora, nonostante tutto, multiculturalità, partecipazione delle differenze alla vita comune delle città. In queste città fin da piccoli si avvertono le differenze non come limite negativo, ma come ricchezza, ampliamento del proprio punto di vista: tante sono le pasque, i natali, le ricorrenze religiose e tante, quindi, le feste da celebrare tutti insieme, ogni volta. A Sarajevo, come a Mostar, ogni pietra ha un nome, una storia, è carne viva, corpo della memoria. Il “grande vecchio” di Mostar, Stari Most, per esempio, era il luogo di un rito di passaggio: i giovani mostarini si tuffavano dal ponte nella Neretva per sancire il passaggio all’età adulta.
Gli aggressori delle città della Bosnia-Erzegovina vogliono occultare le tracce della storia, sradicare le contaminazioni ancora vive, ancora feconde di storia ed accadimenti, le solidarietà prodotte da secoli di eventi, di relazioni interetniche, personali, complesse. Alla fine di un secolo, che già l’ha vista trovarsi sull’orlo dell’abisso, l’Europa di nuovo rischia di cancellare se stessa, la sua storia, la sua complessità e cultura. Come già in passato, è la memoria a giungere in soccorso dell’Europa, che rischia di distruggere se stessa, distruggendo la propria storia. La letteratura, l’arte, l’architettura, il territorio, sono il prodotto di secoli di interazioni e mescolanze, frutto di dialoghi, relazioni, incontri, storie... al plurale e senza maiuscola. Gli assedianti delle città della Bosnia-Erzegovina sono iconoclasti, proprio perché vogliono cancellare la memoria, ma le città hanno resistito, e questa resistenza è un grande patrimonio per tutti gli europei.
I problemi aperti sono troppi per immaginare prospettive incoraggianti. Gli interessi dei gruppi politico-militari al potere, delle frange oltranziste e dei trafficanti internazionali d’armi e droga, che hanno favorito lo sviluppo della guerra, ora ne ostacolano la fine, agevolati dall’insufficiente impegno della comunità internazionale. La permanenza al potere degli attuali gruppi dirigenti delle tre parti in conflitto è paradossalmente legata alla continuazione del conflitto armato. Nessuno ha vinto la guerra. Le ipotesi suggestive di stati multietnici appaiono remote, non realistiche. Ma è realistico pensare alla formazione di stati “etnicamente puri” e inoltre confinanti? Quali sarebbero i rapporti politici, diplomatici, economici? E dove andrebbe a vivere quella quarta parte di popolazione della ex Jugoslavia, di origine mista?
Le prospettive a medio e lungo termine non sono chiare. Stupore, incredulità, impotenza, sono sentimenti diffusi tra la gente. Un padre, la cui figlia era stata colpita da un cecchino, dopo averla affidata ai medici, scoppia in lacrime e, registrato dalla televisione, invita l’assassino sconosciuto a prendere un caffè con lui per dirgli, da uomo a uomo, come gli è venuto di fare una cosa simile. E poi aggiunge: “Un giorno le sue lacrime lo troveranno” (Disdarevic 1994). E, accanto allo stupore, alla rassegnazione e all’odio, alla viltà, alla menzogna, alle atrocità, si incontrano slanci di umana solidarietà, di comprensione per l’altro, di generosità. Nelle spettrali città della Bosnia sono innumerevoli i casi di persone che hanno aiutato, protetto, soccorso altre persone (spesso di diversi gruppi di appartenenza).

 


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Uno sguardo da Sarajevo

Ci sono occhi che nemmeno la morte riesce a chiudere e portano i nomi di Miran Hrovatin, Sasa Ota, Marcello Palmisano.
Sul mio schermo scorrono immagini inedite, prese dalle loro telecamere a Sarajevo, a Belgrado, a Lubiana. Prima e durante la guerra, il loro sguardo ricorda, in modo diverso e uguale, quello di una cinepresa aperta su Àuschwitz. La penna e le parole sono meno sincere delle immagini.
Sarajevo 3 aprile 1992, tre giorni prima: i negozi della Baskarsja stracolmi di merce, bancarelle rifornite di tutto, il ponte sulla Milijacka, una giornata di primavera, la gente passeggia. La gente. Uguale a quella che incontri a Trieste in negozio, sulle scale di casa, per strada. La mia gente.
Sarajevo, un anno dopo: quello che resta. Della Baskarsja, delle bancarelle (due giunti di rubinetto, pochi pacchetti di sigarette, 20 Dm l’uno, dell’erba a foglia larga che ricorda l’insalata) del sole su un ponte da cui scappa, al tiro ai cecchini, la gente-vestita bene, non come qui. La stessa gente di un anno prima, gli stessi occhi scuri o azzurri di mia madre o mio nonno, dalmati, slavi, più semplicemente triestini. Gli sessi volti, uguali a quelli di chi prega nella moschea. E’ questo l‘Islam?
Sarajevo di notte: nessuna insegna e una lunga scala buia che porta a un locale pieno di giovani. Musica rock, aranciata, risate e confusione, la gioia di ritrovarsi insieme fino all’alba, fumando, fumando e parlando, fino alla fine del coprifuoco. Giovani, tanti giovani, belli, belle, vestiti di nero o alla moda.
Sarajevo, l’obitorio: giovani, tanti giovani, gli occhi socchiusi, le moschee, un fazzoletto che rattrappisce l’ultimo urlo, un bambino colpito alle spalle e per tutti un cartellino legato all’alluce con un cognome e un nome, che non ha avuto molta storia.
Sarajevo, l’elezione della Miss: ritocchi di rimmel e rossetto, cellulite, occhi azzurri e neri, gambe lunghe e corte, mamme in trepida attesa di un premio che porterà la vincitrice in Spagna, per sempre lontana dall’assedio.
Sarajevo la strage del pane, i soccorsi: feriti coperti di morti, brandelli di carne ancora attaccati agli ultimi respiri, un uomo che solleva un ferito per caricarlo su una macchina di passaggio, voltando prima la testa da un lato per vomitare. Un uomo, la gamba amputata, che guarda nel vuoto.
Sarajevo: un vecchio russo che sorride della paura del giornalista, la sua filosofia “Non corro mai”, “Domani è un altro giorno”. Oggi è quel domani, una catenella al piede di una giovane morta su un marciapiede di Zagabria.
Non ci sono più Hrovatin, Ota, Palmisano a raccontarlo, ma altri occhi. Che devono restare aperti.

Lilith - Trieste

 


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Algeria, guerra civile
In Algeria non è più tempo di lotta al "terrorismo islamico", ormai si combatte una vera guerra civile. "Time" e "Le Monde" scrivono che in realtà si tratta di una guerra nascosta che non si mostra alla luce del giorno, se non negli ululati delle autobombe e nei cadaveri lasciati sui marciapiedi. Ma i morti sono ormai 35.000, dopo tre anni di stato di emergenza e c'è poco da nascondere in un paese dove la geografia militare include ora ogni angolo di terra, città e villaggio allo stesso modo, la folla straripante di Algeri come i 128 abitanti del piccolo Oued Al Hasiid, in fondo al deserto del Sahara.
Ma è una strana guerra, perché i due fronti che sia danno battaglia in modo feroce, sgozzando, violentando, torturando, non hanno travolto ancora la società civile: la vita quotidiana si fa spettatrice di questa esibizione spietata di violenza, la subisce anche, ma resiste al coinvolgimento obbligato della scelta di campo, al dovere cioè allo schieramento con uno dei due campi in lotta, quello dei soldati di Allah e l'altro del governo militare. Dietro le bandiere verdi dell'integralismo religioso muove insomma una rivoluzione degli spiriti, che trae la propria forza anzitutto dal fallimento dei processi di modernizzazione delle società post-coloniali, un fallimento che passa trasversale in ogni territorio ideologico. L'impotenza dei tentativi di crescita economica ha generato la caduta di ogni credibilità delle istituzioni statali, che, agli occhi dei delusi, si mostrano come un legame ereditario dell potenze coloniali e appaiono, perciò, estranee, "straniere", alla cultura tradizionale delle società musulmane. Nasce qui la deligittimazione dei governi.
La gestione, poi, della vita pubblica, tenuta nelle mani di ritrette élites di potere, corrotte e legate a gruppi di interesse speculativo, produce il disprezzo delle ideologie europee e crea un vuoto di progettualità, nel quale trova radicamento immediato il messaggio fondamentalista della guerra di liberazione nazionale.
Il governo di Algeri ha pubblicato l'elenco dei morti nel '94, ma, trattandosi di una "guerra nascosta", l'elenco enumera soltanto quelli che sono stati ammazzati dai fondamentalisti del GIA e dell'AIS; sono in tutto 6.388 nomi (ai quali andrebbero aggiunti, poi, tutti coloro che, soldati di Allah o sospettati di appoggiare la guerra integralista, sono stati uccisi dai "Ninja" dell brigate antiterrorismo). L'orrore non sta soltanto nelle cifre di questa mattanza, ma nelle categorie professionali alle quali appartenevano i morti ammazzati dalle bombe o dai coltelli dei fondamentalisti: 2.207 impiegati in studi professionali; 101 insegnanti; 34 giornalisti; 670 liberi imprenditori e poi studenti, intellettuali, commercianti. Ne traspare un progetto mostruoso, di genocidio selettivo, che tende a decapitare la società civile algerina, privandola della sua capacità di pensare, di produrre idee, programmi, impegno.
Trent'anni fa compivano lo stesso crimine l'OAS e il generale Salan, che volevano cancellare chiunque nella società civile avesse idee e spirito indipendente; oggi gli algerini lo fanno a se stessi, e il progetto è quello di piegare la resistenza di un paese distruggendone il cervello. Una volta preso il potere, la normalizzazione avrà già prodotto il conformismo ideologico e l'obbedienza.

 

 

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Riflessioni

 
La pace

La parola “pace” è uno dei termini più usati nel linguaggio dell’uomo e, nello stesso tempo, anche uno dei più abusati.
Nel parlare corrente noi identifichiamo la pace con uno stato di assenza di conflitti, di guerre o di violenze tra i popoli e le nazioni.
C’è, poi, la pace sociale, che è assenza o limitazione dei contrasti nella sfera dei lavoro e dell’economia; la pace familiare, quando si compongono le liti e gli interessi nell’ambito della vita domiciliare; la pace affettiva, quando la comprensione e l’amore superano le gelosie e l’invidia.
Vi è inoltre una pace, di cui molti sentono il desiderio o il bisogno quasi fisico, ma che pochi raggiungono ed è quella pace dello spirito, che sola appaga l’uomo nella profondità del suo essere.
Per trovarla bisogna essere in pace con Dio e con se stessi, prima che verso gli altri. E’ la pace evangelica delle Beatitudini (Beati gli operatori di pace);  è l’annuncio degli angeli a Betlemme; è il saluto delle apparizioni pasquali di Gesù; è il bene supremo, dono di Dio, che san Paolo cita nell’espressione di alcune sue lettere: “Il Dio della Pace” (Rm 16,20 - Ts 5,23). E’ il saluto-augurio “pace e bene” che ritroviamo in Francesco d’Assisi.
Questa pace è possibile e nasce nell’animo dell’uomo come frutto di quella conversione del cuore, che ci fa nuovi dentro e si proietta nell’agire concreto, ossia nelle strutture della convivenza umana.
Ogni nostra azione, ogni nostra scelta, in qualsiasi direzione, dovrebbe essere conseguente ad una coraggiosa riflessione su questa “pace”, che è frutto dello spirito e che, come tale, va cercata e chiesta in umile atteggiamento di preghiera.

 


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"Che la pace trionfi sulla guerra"

Il 19 aprile una bomba è esplosa al centro di Oklahoma City. negli USA, uccidendo decine di persone e ferendone centinaia. La più ricca e potente nazione del mondo ha fatto esperienza della debolezza e della rabbia di fronte all’insensata violenza contro i suoi propri cittadini. Nessuno è immune. La terribile paura che sta attanagliando le nostre moderne città si basa sul fatto che, nonostante tutte le tecniche sulla sorveglianza di polizia, di forze militari, le nostre città non sono in grado di difendersi dall’odio irrazionale di un individuo o di un gruppo.
Ci accorgiamo di essere vulnerabili e senza difese. E reagiamo: ritiro nella paura, costruzione di barricate, astiosi appelli alla violenza. Ma queste non sono soluzioni. Sono invece prove che noi siamo “ostaggi” della violenza.
Si tratta di una paura simile a quella che Francesco trovò a Gubbio: “I cittadini stavano in grande paura... e tutti andavano armati quando uscivano dalla città, come se andassero a combattere” (FF 1852). Con grande semplicità poi i Fioretti annunciano la liberazione di Gubbio per opera di Francesco. Gli strumenti di liberazione utilizzati da Francesco sono basati sulla Croce e sulla Fraternità.
I Vangeli riportano molte impressionanti narrazioni riguardo a Gesù che affronta e scaccia il demone della violenza dalla vita degli uomini. Uno dei racconti più drammatici ha luogo nelle regioni dei Geraseni (Lc 8,26-39). Gesù vince la solitudine e la sofferenza da cui è afflitto l’uomo indemoniato e lo riporta ad un sereno autodominio. E’ interessante notare come gli abitanti del luogo hanno sentimenti contrastanti circa il fatto di cui sono stati testimoni. Forse temono che i loro stessi demoni possano essere affrontati? Ma è soprattutto nei cammino che conduce al Calvario che scopriamo la “strategia” di pace portata da Gesù. Anche se dobbiamo chiaramente dire che la sua “strategia” di pace non è pacifismo, ma la pratica di un amore che è “più forte della morte”.
E con la potenza della croce anche Francesco va incontro al lupo, che assomma in sè tutte le paure di Gubbio: “Vieni qui, frate lupo! Io ti comando dalla  parte di Cristo che tu non faccia male né a me né ad altra persona” (FF 1852). Francesco può manifestare al lupo la verità con amore, dicendogli che il suo grande odio e la sua violenza “ distrugge le creature di Dio”  e “uccide uomini fatti ad immagine di Dio”. Francesco non cerca di minimizzare i delitti del lupo contro la gente della città. Francesco può manifestare alla gente di Gubbio la verità con amore. Chiede loro di riflettere a come il clima sociale di Gubbio ha contributo alla violenta reazione del lupo “... per i peccati Iddio permette cotali cose e pestilenze”.
Impariamo anche noi da Francesco.
Non potremmo mai smuovere l’odio e la violenza che ci circonda se non cominciamo dall’interno delle nostre fraternità o gruppi. Troppo spesso permettiamo al “lupo” di vivere in mezzo a noi: aggressioni passive, denunce violente, abuso di alcol o di droghe, razzismo, abusi sessuali o scherni sarcastici. I nostri stessi fratelli non possono essere guariti, né possono imparare nuovi modi di affrontare la vita se le nostre fraternità non costituiscono per loro un porto onesto e sicuro dove poter aprire il loro cuore.
Spesso riflettiamo e discutiamo sulle cause della violenza nel nostro mondo: povertà, alienazione, discriminazione, danneggiamenti psichici e fisici… le cause sono infinite. Tali studi ci aiutano a capire e a far nascere dentro di noi la compassione. Tuttavia solo la croce di Cristo e l’autentica fraternità possono darci il coraggio e la forza di raggiungere e ritrovare le radici profonde della sofferenza degli attentatori di Oklahoma City o della metropolitana di Tokyo.
Un po’ alla volta le nostre fraternità devono diventare “Scuole di Pace”, dove la rabbia, che noi condividiamo con un mondo ferito, incontra la compassione e trova un porto sicuro che le permette di dissiparsi come la rabbia del lupo si dissipò di fronte all’amore deciso, ma compassionevole, di San Francesco.
Ritengo che solo questo tipo di pace abbia la capacità di toccare il cuore del fratello o della sorella feriti e che permette alla pace di fiorire nei mondo intero.

 

 

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Di tutto un po'


Libri

R. Beretta. G. Gazzaneo. Preti di strada. Sei editore. Torino 1995, pp. 213 L. 27.000.
Gli autori ricostruiscono uno spaccato del mondo del volontariato, quello dei preti di strada. Protagonisti alcuni dei 250 preti “da marciapiede” che da oltre vent’anni lavorano tra gli emarginati: Vinicio Albanesi, Oreste Benzi, Luigi Ciotti, Piero Gelmini, Antonio Mazzi.
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Maria Breda, Francesco Santanera. Handicap:oltre la legge quadro. Riflessioni e proposte, Utet Editore. Milano 1995.
La persona handicappata non è necessariamente un essere da assistere, né un malato, ha delle capacità e potenzialità proprie, ha una dignità che non va calpestata.
Sono questi i concetti sviluppati nel volume, sulla base di esperienze ultraventennali confrontate con quelle di altri paesi, che indica i percorsi più corretti da seguire per ottenere il pieno inserimento scolastico, lavorativo e sociale dei soggetti handicappati.

 

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Film

Titolo: Sostiene Pereira.
Regia di Roberto Faenza. Con: Marcello Mastroianni, Stefano Dionisi, Nicoletta Braschi e Marthe Keller.
Afa, noia, solitudine ed il pensiero della morte: questi i sentimenti che opprimono Pereira, anziano redattore del “Lisbia”, un giornale pomeridiano della capitale portoghese, che decide di assumere un giovane laureato in filosofia per fargli scrivere i necrologi, quelli che in gergo vengono chiamati coccodrilli, dei personaggi più famosi dell’ambiente letterario europeo.
E’ così che il personaggio nato dalla penna di Antonio Tabucchi (che ha collaborato anche alla stesura dei dialoghi del film, che segue in modo molto fedele il testo originale) inizia a narrare, ad un inesistente ascoltatore, il viaggio interiore che lo porterà ad abbandonare una vita inconsistente e, attraverso varie tappe, a scegliere di compiere una “rivoluzione”, al tempo stesso personale e politica, che gli consentirà di vivere un’autentica liberazione.
Gli incontri, che l’anziano redattore fa, lo conducono lontano dai ragionamenti sulla morte, fino alla presa di coscienza dei fatti storici che stanno coinvolgendo il suo Paese, ormai sempre più nella morsa della dittatura salazarista. Pur tremebondo ed ingobbito, Pereira assiste alla nascita di una ribellione interiore che poi gli darà l’energia per iniziare una nuova vita. Vita che si sentirà di intraprendere solo dopo l’incontro con il giovane Monteiro Rossi che, assunto per scrivere necrologi, innescherà involontariamente la scelta liberatoria di Pereira. Con la tragica morte di Monteiro Rossi, avvenuta nella casa dello stesso Pereira, il giornalista della pagina letteraria riprende il suo stile ed il mestiere di cronachista e decide di fare “un bello scherzo” alla censura salazarista, con la complicità del medico-filosofo, ottimamente reso sullo schermo da Daniel Auteuil.
L’interpretazione di Mastroianni è talmente vicina al personaggio da farci credere di essere lui realmente tremante ed ingobbito. E ci trasmette anche la sensazione di caldo e di afa di un agosto vissuto in una Lisbona magnificamente fotografata.
Così come sentiamo nostre le incertezze e le timidezze che Pereira-Mastroianni ha di fronte ai personaggi che lo invitano a fare quel salto verso la vita che tanto lo spaventa.
Nicoletta Braschi, nella parte di Marta, la fidanzata di Monteiro Rossi, ci trasmette con bravura una sensazione di antipatia nelle sue brevi incursioni nella vita di Pereira. Il suo personaggio dà, infatti, la sensazione di voler “arruolare” Pereira per la “giusta causa”, senza interessarsi minimamente delle vicende personali di chi gli sta di fronte. Da segnalare anche la partecipazione di Marthe Keller che, con la sua recitazione misurata, ci regala, all’interno del film, un pezzo di teatro.

 

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Riviste

AA.VV., Sarajevo, 200 fotografie a colori IPAB, Vicenza l994, lire 50.000.
I due anni d’assedio a Sarajevo hanno portato morte e distruzione, ma lo spirito della Sarajevo aperta, multiculturale, multinazionale, luogo di convivenza tra Musulmani, Serbi, Croati, Ebrei, sopravvive e continua ad esistere. Denuncia, ma anche speranza, è il messaggio che l’Ipab (Istituzioni Pubbliche di Assistenza e Beneficenza) di Vicenza - con il patrocinio del Consiglio d’Europa e dell’Anci - ha voluto lanciare in questo volume. 200 fotografie della capitale bosniaca, scattate prima e dopo l’inizio della guerra, una tragica giustapposizione. La prefazione è di Mohamed Kresevljakovic, attuale console della Repubblica di Bosnia-Erzegovina in Italia, già sindaco di Sarajevo, ed è presente anche un breve saggio sulla storia della città.
Per informazioni sulle modalità d’acquisto ci si può rivolgere alla segreteria dell’Ipab di Vicenza. Piazzetta San Pietro, 9 - c.p. 576, 36100 Vicenza, tel. 0444/301372). Il ricavato della vendita verrà destinato a finanziare le spese scolastiche dei bambini orfani di Sarajevo e l’acquisto di protesi per i bambini mutilati.
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Una Città. Anno V, n.41, maggio 1995, Forlì, lire 5.000.
In questo numero: un’intervista al generale Jovan Diviak, serbo e vicecomandante dell’esercito bosniaco; un intervento di Stefano Zamagni su mercato e Stato sociale; un’intervista a Claudia M. Tresso, studiosa del mondo arabo-islamico.
La rivista “Una città” è distribuita presso le librerie Feltrinelli o in abbonamento postale. L’indirizzo è Piazza Dante Alighieri 21, Forlì. Tel. 0543-21422, fax: 0543-30421.